di Vladimiro Giacchè | da Pubblico
Ieri i rendimenti sui titoli di Stato italiani a 10 anni hanno raggiunto un altro minimo relativo: 4,38 per cento. Ossia 7 punti base meno di martedì e addirittura il 2,45% in meno di un anno fa. Il mitico spread rispetto ai titoli di Stato tedeschi a 10 anni, per parte sua, è sceso sotto il 3% (per la precisione 295 punti base).
Purtroppo per Monti, che nella sua amletica indecisione sul da farsi è ben lieto di potersi fregiare di questa medaglia al valore per aumentare il proprio peso contrattuale (qualunque cosa decida), in Europa qualcuno ha fatto di molto meglio. Incredibile a dirsi, si tratta della Grecia, che pur dovendo ancora pagare l’11,71% a chi possiede i suoi titoli di Stato, da ieri paga 109 punti base in meno di martedì ed è ai minimi dal marzo 2011. Il motivo di questo primato è presto detto: si tratta del fatto che l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha migliorato la sua valutazione del merito di credito della repubblica ellenica, citando quale motivo la “forte determinazione degli Stati membri” dell ’eurozona a mantenere la Grecia all’interno dell’area valutaria.
Una “determinazione ” quantificabile in 34,9 miliardi di euro di prestiti arrivati negli ultimi giorni in Grecia. Il punto, per chi non voglia indulgere alla propaganda filogovernativa, è precisamente questo: rendimenti e spread calano non tanto a causa di ciò che avviene in Italia, quanto a causa di quello che succede in Europa. Ogni qual volta l’area valutaria sembra stabilizzarsi, e riuscire a mantenere al proprio interno anche il paese più debole, ossia la Grecia (costi sociali a parte, ovviamente), calano anche i rendimenti dei titoli di Stato degli altri paesi in difficoltà. I cui prezzi infatti incorporano – in maggiore o minore misura – anche la possibilità di un’uscita dall’eurozona. E infatti ieri sono scesi i rendimenti anche dei titoli di Stato spagnoli e portoghesi (questi ultimi più dei nostri).
La riduzione dei rendimenti dei titoli di Stato è sicuramente positiva, perché comporta un consistente risparmio sulle spese sostenute per interessi dallo Stato italiano.Purtroppo, però, i motivi di soddisfazione finiscono qui. Perché gli indicatori della salute della nostra economia volgono al brutto. E differiscono significativamente dalle previsioni a suo tempo formulate dal governo tecnico. La previsione di un prodotto interno lordo in lieve calo (-0,4%) si è rivelata errata: nella migliore delle ipotesi, l’an – no si chiuderà con un meno 2,1%. Ma per altri indicatori, più prossimi all’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, è andata ancora peggio: per quanto riguarda i consumi delle famiglie, visti stazionari dal governo, si è verificato un vero e proprio crollo, che secondo il preconsuntivo elaborato dal Centro Europa Ricerche sarà del 4,2%.
Si tratta della flessione peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale.Non è finita. Se l’in – flazione era vista stabile dalle previsioni del governo, il risultato effettivo è uno sconfortante 2,7%, che aumenta la nostra distanza dalla media europea e peggiora, quindi, la competitività (parola spesso abusata,mache qui è al suo posto) dei nostri prodotti. Per non parlare della disoccupazione: ferma all’8,4% secondo le stime governative, ha superato l’11% nelle rilevazioni più recenti. Infine, l’indebitamento pubblico è rimasto stabile. Avrebbe dovuto scendere: a questo miravano le numerose manovre di finanza pubblica (di Berlusconi prima, di Monti poi). Purtroppo, però, proprio gli effetti depressivi sull’attività economica e sui consumi di queste manovre hanno ridotto il gettito fiscale rispetto a quanto preventivato. Insomma, in tutti i casi decisivi lo spread tra previsioni e realtà è stato molto ampio.
Il RendiMonti, ossia il giudizio sull’operato del governo in carica e la sua efficacia, dovremmo una buona volta cominciare a misurarlo su questi parametri. Anziché su un dato, come il rendimento dei titoli di Stato, in relazione al quale le variabili esogene – a dispetto di ogni propaganda –restano quelle determinanti.