di Domenico Moro | da il Manifesto
La questione del debito pubblico è presentata, in Italia e in Europa, essenzialmente come una questione di disciplina di bilancio, da risolvere tagliando le spese e aumentando le imposte. In realtà, la crescita del debito pubblico e la difficoltà a rifinanziarlo è connessa molto di più alla scarsa crescita economica. Debito e deficit pubblici vengono calcolati in percentuale sul Pil. Dunque, una stagnazione o un decremento di quest’ultimo possono peggiorare i due indicatori, indipendentemente dalle spese. Di più: la scarsa crescita è collegata alla riduzione della competitività e al peggioramento del debito commerciale e della bilancia dei conti con l’estero. La minore capacità di pagare le importazioni con le esportazioni è uno dei fattori che rende critica la capacità di finanziare il debito pubblico sui mercati dei capitali.
Se il Giappone – debito pubblico oltre il 200% e deficit/Pil all’8,3% – paga un interesse sui titoli a dieci anni di poco superiore all’1%, non è solo perché ha il pieno controllo della sua valuta, ma anche perché ha il terzo attivo dei conti correnti al mondo, 150 miliardi di dollari, e la migliore posizione patrimoniale con l’estero, tremila miliardi. Al contrario, l’Italia ha una bilancia dei conti correnti negativa per 79 miliardi (3,7% sul Pil), e una posizione debitoria con l’estero di 549 miliardi. Infine, la riduzione della crescita e delle esportazioni viene tipicamente compensata con l’aumento della spesa pubblica, come prova il suo rigonfiamento in Italia a partire dalla prima vera crisi post-bellica nel ’74-’75.
Il punto, dunque, è capire perché l’economia italiana, nel decennio precedente alla crisi, è cresciuta meno e quindi l’ha subita maggiormente rispetto a quasi tutti gli altri Paesi avanzati. E capire perché l’attivo della bilancia commerciale è diventato negativo e la posizione netta dell’Italia verso l’estero peggiora sempre di più, sebbene il nostro Paese sia il secondo nella Ue per apparato manifatturiero ed export.
Sulle spiegazioni economiche e politiche sembrano prevalere quelle morali. Luigi Zingales, sul Sole24ore, ha persino inventato un neologismo: la ragione della mancata crescita sarebbe la “peggiocrazia”. Le ricette? Facilitare i licenziamenti, ovviamente per liberarsi dei peggiori, e privatizzare, per ridurre clientele e corruzione. Amenità che fanno purtroppo presa, più delle spiegazioni serie.
Se il sistema industriale italiano è in declino e rischia di perdere pezzi importanti è proprio perché i politici hanno messo in pratica, dagli anni ’90, quello che le grandi imprese chiedevano e chiedono: liberalizzazioni (dal mercato dei capitali fino al mercato del lavoro) e privatizzazioni. Se l’Italia non cresce, infatti, è per la riduzione della base produttiva manifatturiera e il minore incremento della produttività. Due fenomeni che derivano in buona parte dalla distrazione di capitali dalla produzione domestica, cioè dalla contrazione degli investimenti.
Dove sono andati questi capitali? In primo luogo all’estero, come delocalizzazioni, acquisizioni, joint-venture. Lo stock italiano degli Investimenti destinati all’estero (Ide) è aumentato dai 60,2 miliardi di dollari del 1990 ai 578,2 del 2009. Molto più delle esportazioni di merci, passate dal 19,1% al 29,1% del Pil. Gli Ide italiani in uscita tra 2000 e 2009 sono cresciuti più della media Ue (+221% contro +149%), rimanendo molto inferiori rispetto a quelli in entrata (nel 2009 appena 400 miliardi di dollari). Dunque, le uscite di risparmio italiano non sono compensate da entrate di capitali produttivi esteri. Ciò non solo peggiora la bilancia dei conti, ma obbliga a recuperare capitali mediante il debito pubblico, la cui quota detenuta all’estero è aumentata al 51% (contro il 15% del Giappone), esponendo il rifinanziamento alla variabilità dei mercati finanziari internazionali.
Il fenomeno della transnazionalità delle imprese è ben rappresentato dalla Fiat, che negli ultimi dieci anni ha diminuito del 28,2% la produzione in Italia, aumentandola del 16% in Sud America, del 10% in Europa orientale e del 2,8% in Asia. Tuttavia, il fenomeno è sottovalutato, perché le multinazionali giganti in Italia sono poche. Eppure, le multinazionali italiane sono 20.050, poco meno di quelle francesi, con circa 1,5 milioni di addetti e un fatturato di 389 miliardi di euro nel 2009.
Ma anche le privatizzazioni – l’Italia è qui seconda in Europa per valore assoluto e quarta sul Pil – distraggono capitale dalla manifattura. Molti imprenditori hanno trovato comodo spostare capitali dalla manifattura ai monopoli pubblici privatizzati, le autostrade e la sanità; settori che non esportano e dove si possono raccogliere alti profitti grazie ai prezzi di monopolio, al riparo dalla concorrenza internazionale. Inoltre, le privatizzazioni sono riuscite ad eliminare o indebolire le poche aziende di dimensioni internazionali che operavano in settori tecnologici di punta, come le telecomunicazioni, penalizzando ulteriormente la base produttiva. Le privatizzazioni che Confindustria rivendica oggi sono quelle delle utility (acqua, elettricità, trasporto), che offrono nuove fonti di rendita monopolistica, piuttosto che quelle dei colossi industriali come Eni, per cui nessun privato vuole rischiare gli ingenti capitali richiesti.
Un terzo fattore di rallentamento della crescita e della competitività è il nanismo delle imprese, ricondotto al “ritardo” del sistema industriale italiano. In realtà, le ridotte dimensioni medie delle imprese italiane sono derivate dall’applicazione particolarmente intensa dell’organizzazione del lavoro toyotista, basato sulla esternalizzazione di pezzi dell’attività produttiva. Proprio l’esternalizzazione massiccia in piccole e piccolissime imprese rende più facile delocalizzare da parte delle grandi imprese che governano le filiere. Il punto è che le esportazioni di capitale all’estero non comportano un’estensione della base produttiva complessiva delle imprese, ma una redislocazione nello spazio, funzionale solo all’aumento dei profitti. Un aumento che non avviene mediante l’incremento dell’investimento di capitale per addetto (più produttività con l’innovazione di processo e di prodotto), ma tramite la diminuzione dei costi.
La ragione delle esportazioni di capitale risiedono dunque, più che nella conquista di nuovi mercati, nel divario salariale tra centro e periferie dell’economia mondiale. Gli Ide permettono sia di ridurre i salari domestici (aumentando la disoccupazione), sia di sfruttare lavoratori meno pagati all’estero. Il costo del lavoro in Brasile è il 42% di quello sostenuto in Italia, in Polonia il 32%, in Romania il 13%. Inoltre, le multinazionali italiane esportano ben il 40% del fatturato delle controllate estere, spesso verso Italia. Non è un caso che la principale voce nelle importazioni italiane non sia il petrolio o il gas, malgrado l’Italia ne sia priva, ma le automobili. Modelli di particolare successo in Italia, come la Panda e la Cinquecento, sono prodotti dalla Fiat all’estero e importati. L’esportazione di capitale e lo spostamento verso la rendita monopolistica non solo peggiora la bilancia commerciale, ma provoca la progressiva riduzione dell’accumulazione di capitale produttivo. Mentre le imprese si arricchiscono grazie agli alti profitti, i lavoratori e l’economia del Paese nel suo complesso regrediscono e si impoveriscono.
Banche, speculazione finanziaria e modalità di funzionamento del sistema euro hanno un ruolo importante nella crisi del debito. Ma non sono queste “le cause” della crisi. Il tentativo di superare la caduta generale del saggio di profitto, ripresentatasi alla metà degli anni ’70, ha impresso un impulso fortissimo alla transnazionalizzazione delle imprese, che ha però prodotto una contraddizione tra capitale e Stato-nazione. La crisi del debito pubblico, il conflitto tra la Ue e i singoli stati, nonché la nomina di governi “tecnici”, come quello di Monti, ne sono oggi la manifestazione matura.