Le controtendenze di Grossmann e l’economia italiana

di Pasquale Cicalese

 

“Quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio di profitto industriale “(K. Marx, Il capitale Libro III);

 

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“Che tutto ciò debba agire sulla tendenza al crollo inasprendola e accelerandola risulta soltanto chiaro (…) L’eliminazione del profitto commerciale allo scopo del rialzo del saggio medio di profitto del capitale industriale viene imposta dal declino della tendenza di valorizzazione di questo capitale nel progredire dell’accumulazione; la tendenza all’eliminazione e la lotta contro il capitale commerciale cresce perciò con il crescere del livello di accumulazione. (H. Grossmann).

 

Nel Libro III de Il Capitale Marx analizza le tendenze di fondo dell’accumulazione capitalistica e soprattutto specifica varie controtendenze che frenano il crollo capitalistico. Henryk Grossmann è stato il marxista che più di tutti ha declinato le controtendenze marxiane nell’opera “La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista”. Si deve a lui l’analisi più approfondita al riguardo e soprattutto una formidabile testimonianza degli avvenimenti del primi decenni del novecento antecedenti al crollo del 1929. Fondamentali sono le pagine riguardanti l’abbattimento dei costi di trasporto e la riorganizzazione dell’industria marittima degli anni venti.

 

Riprendendo Marx e Grossmann, proviamo a declinare le controtendenze alla caduta del saggio di profitto nella realtà economica italiana per cercare di capire se gli “industriali” italiani hanno una razionalità capitalistica.

 

Le principali controtendenze sono la svalorizzazione della forza lavoro al di sotto del valore della sua riproduzione, la concentrazione industriale, la centralizzazione finanziaria, il ricorso al mercato azionario, la riduzione di prezzo del capitale costante e la conquista del mercato mondiale.

 

Si può dire che nell’ultimo ventennio l’arma utilizzata dagli industriali per arrestare la caduta del saggio medio di profitto è stata una lotta feroce al proletariato italiano con riduzioni salariali, intensificazioni dei ritmi di lavoro e precarizzazione del rapporto di lavoro. Ciò ha consentito una formidabile tenuta del saggio medio di profitto che addirittura nell’ultimo quindicennio è aumentato o in ogni caso si è mantenuto su livelli medio alti. Stranamente, tale massa di plusvalore magicamente si è trasformata in rendita fondiaria, immobiliare e finanziaria con un possente processo di costruzione di un rinnovato capitalismo finanziario, con i principali industriali italiani che siedono nei consigli di amministrazione delle banche. SI è realizzata nuovamente la fusione tra capitale monetario e capitale industriale a seguito del processo di privatizzazione delle banche italiane avvenuto soprattutto con i governi tecnici e di centro sinistra degli anni novanta, sotto la regia di Draghi. Diversamente dal passato, però, la massa di capitale mobilitata non ha portato ad un processo di concentrazione manifatturiera né, tanto meno alla quotazione borsistica di alcune centinaia di imprese italiane, venendo a mancare due primordiali controtendenze.

 

Se poi ci si riferisce al mercato mondiale, qui le note dolenti sono chiare: la quota di mercato mondiale delle imprese italiane si è ridotta nell’ultimo ventennio dal 4,1 al 2,9% del 2009.

 

A partire dalla crisi del 2007 si è invece verificata la tendenza marxiana della riduzione di prezzo del capitale costante, soprattutto dal lato dei semilavorati. Si è assistito ad un poderoso processo di importazione, soprattutto dai paesi “emergenti”, di semilavorati e di prodotti intermedi non ricorrendo più alla rete di subofrnitura italiana: da qui la crisi feroce che colpisce tale fascia del settore manifatturiero analizzabile con lo studio della cassa integrazione o, magari, spulciando la rassegna stampa “Crisi dei territori” del ministero del Lavoro.

 

Grossmann va oltre Marx e si addentra in altri ambiti. Innanzitutto fa una disamina di tutte quelle forze che riducono il saggio medio di profitto. Si tratta di gruppi che si frappongono nel passaggio dall’estrazione del plusvalore alla realizzazione del profitto, soprattutto nella sfera di circolazione. Grossmann accenna ai preti, alla servitù (simbolo della crisi e del consumo improduttivo) ma anche ai ceti dei professionisti e dei bottegai, capaci di erodere sensibilmente il profitto medio dei capitalisti.

 

Se pensiamo che in Italia ci sono 1,2 milioni di professionisti (contro 3,5 milioni di operai propriamente detti, un rapporto di 1/3!) e che i ceti commerciali la fanno da padrona ci possiamo rendere conto dell’assetto anticapitalistico del Paese, a cui si può aggiungere quell’originale ceto di centralizzazione finanziaria che risponde al nome delle mafie nostrane.

 

Dunque, dal lato capitalistico nel nostro Paese nell’ultimo ventennio non solo non si realizzano principali controtendenze alla caduta del saggio medio di profitto, l’unica possibilità, accanto all’aumento della produttiività, capace di riavviare processi di ri-accumuluazione, ma si ingrossano le fila di ceti parassitari (dal punto di vista di valorizzazione del capitale) – Grossmann, riprendendo Marx, li definisce “terze persone” che non partecipano alla produzione materiale – che erodono quote di profitto agli industriali. Il saggio medio rimane costante ma c’è una ripartizione della “roba” che non favorisce gli industriali.

 

Per Grossmann “abbiamo qui a che fare con una classe di persone, che dal punto di vista materiale sono consumatori senza essere produttori e con il loro consumo, il plusvalore, la fonte disponibile per l’accumulazione, viene perciò diminuita” e “quanto più numerose sono queste classi, tanto più grande sarà la riduzione del fondo di accumulazione, In questo modo il ritmo dell’accumulazione viene rallentato” (pag. 338). Si può spiegare in questo senso la richiesta degli industriali di abolire gli ordini professionali o ridurre gli “oneri” per clientes e peones ed in generale la spesa pubblica cosiddetta “improduttiva”.

 

Circa il profitto commerciale, si può immaginare che cosa ha significato il change over lira euro del 2002 (con la regia di quel “genio” dell’economia che risponde al nome di Tremonti..) con un’epocale spostamento di salari e profitti industriali al capitale commerciale, un’autentica “borsa nera”, esentasse per lo più (dato il livello di evasione di questi ceti), il cui costo sarà a carico del Paese intero per i prossimi vent’anni, oppure l’elefantiaca normativizzazione dei rapporti economici che ha favorito i ceti professionali (si pensi alla pletora di commercialisti e fiscalisti), due categorie che partecipano bellamente all’abnorme evasione fiscale e che riduce risorse statali dedicate all’accumulazione.

 

Nella crisi di questi anni questo assetto risulta non più rispondente alla necessità di un ritorno a condizioni normali del saggio medio di profitto e, dunque, la stessa opera di svalorizzazione della forza lavoro, benché “trasforma di fatto, entro certi limiti, il fondo necessario di consumo dell’operaio in un fondo di accumulazione di capitale” (pag. 300) a diversi industriali italiani risulta “insufficiente” se non “controproducente”. Da qui l’abbandono del loro pifferaio Berlusconi, un parassita che da decenni erode profitti industriali nella sfera di circolazione del capitale, completamente ignorante delle leggi di estrazione del plusvalore, al pari del suo concorrente del gruppo de La Repubblica De Benedetti.

 

Questa crisi ha messo a nudo un dato: la necessità di abbattere lo spazio che intercorre dalla fase di estrazione del plusvalore alla realizzazione del profitto, eliminando ceti, gruppi e corpi intermedi che si frappongono in questo passaggio. Ciò implica la proletarizzazione di gruppi appartenenti al ceto medio (falsamente rappresentati come salariati, specie a sinistra), un processo che Berlusconi non garantisce ed è per questo che si parla di perdita di “credibilità” del Paese.

 

Un altro dato da tener in conto è che l’esponenziale aumento dello spread rispetto ai titoli tedeschi opera presso gli industriali che ancora sono nel mercato mondiale come un vero e proprio credti crunch, una tassa occulta, ma non troppo, che abbassa il saggio medio di profitto industriale, specie per chi è ricorso al mercato bancario per garantirsi capitale circolante (scorte, magazzino,anticipo di cassa, servizi di tesoreria, ecc.) e per chi sta “ristrutturando”, vale a dire opera nel campo che Grossmann definisce “aumento della produttività per mezzo del progresso tecnico” o attraverso la “riorganizzazione e la razionalizzazione del processo di produzione, grazie a cui viene ristabilita la redditività anche con il livello dei prezzi orami crollato”( pag. 291).

 

Gli strali degli industriali contro i tagli alla ricerca o alle infrastrutture trovano una corrispondenza in questo magistrale pezzo di Grossmann: “ quanto più si diffonde la razionalizzazione e si impadronisce in serie di nuove sfere di produzione, tanto più possente diviene l’espansione, poiché i miglioramenti in una sfera significano l’aumento della massa di plusvalore anche per gli altri settori della produzione” (pag. 299).

 

Berlusconi, in definitiva, con i suoi sodali social-fascisti (che si confermano, come negli anni venti-trenta, completamente ignoranti delle cose economiche), al fine di tenere in piedi milioni di persone che stanno nello spazio intermedio della circolazione del capitale e che erodono il saggio medio di profitto alla classe degli industriali,, non garantisce le marxiane “condizioni generali di produzione”, la produttività sistemica (in termini di produttività totale dei fattori produttivi), l’espansione all’estero (addirittura viene soppresso l’ICE!), la ricerca di nuove sfere di produzione, la razionalizzazione, ecc. Unico lascito è una feroce svalorizzazione della forza lavoro, ma assolutamente “insufficiente” sia per la tenuta del saggio medio di profitto sia per un eventuale espansione della produzione, anche perché in Italia la produttività per ora di lavoro è tra le più alte al mondo, mentre risulta alto, rispetto ai concorrenti, il costo del lavoro per unità di prodotto: la spiegazione è dovuta al fatto che dal lato dell’unità di prodotto sono venuti a mancare progresso tecnico ed innovazione, è mancato cioè il connubio tra scienza e industria. Il rapporto è K/L, capitale- lavoro: ciò che è venuto a mancare in questo ventennio è il fattore K, con un crollo degli investimenti senza precedenti storici, tant’è che la vita media degli impianti industriali italiani e dei macchinari è pari a ben 26 anni!

 

Dal lato degli industriali si assiste, infatti, nell’ultimo quarantennio ad una vera e propria condotta anticapitalistica: non solo non c’è il ricorso al capitale azionario e alla concentrazione manifatturiera, ma lo stesso plusvalore viene grandemente eroso per costituire ricchezze personali trasformate in rendita immobiliare, tariffaria e finanziaria, ricchezze notevolmente rimpinguate con una formidabile elusione ed evasione fiscale;la caratteristica delle imprese italiane è che esse sono sottocapitalizzate ma unicamente perché il plusvalore viene sottratto alle necessità delle aziende, in termini di espansione della produzione, ricerca e sviluppo, progresso tecnico, ricerca di nuove sfere di produzione, penetrazione commerciale estera, spostamento dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, perché quella che viene definita ”corporate governance”, vale a dire governo societario, basata su assetti familiari, implica una sottrazione di ricchezze dalle imprese verso le famiglie e i soci proprietari. La condotta anticapitalistica è visibile anche dalla mancanza di management esterno ai soci, tanto è vero che, spesso, ai vertici troviamo parentele e amici delle famiglie proprietarie.

 

Paradossalmente tali “industriali” danno lezioni alla politica e alla società nelle tematiche riguardanti il “merito” capitalistico, con “intellettuali” che si prendono la briga di ascoltarli e dargli pure ragione: è uno dei tanti paradossi della condotta anticapitalistica in vigore nel nostro Paese.

 

La crisi del 2008 ha messo a nudo tale assetto, tant’è che è ormai evidente che la sola svalorizzazione della forza lavoro, in termini di intensificazione dei ritmi di lavoro e di “liquidità” non garantisce più, come nei decenni passati, un adeguato saggio medio di profitto e ciò a causa dell’intensificarsi della concorrenza capitalistica nel mercato mondiale, il vero livello nel quale il capitale opera. Tant’è che per Grossmann “le circostanze che attenuano la tendenza al crollo, cioè permettono di superare la crisi, sono di molteplice natura ed esse risiedono tanto nella sfera di produzione come in quella della circolazione, tanto all’interno del meccanismo capitalistico, come nei suoi rapporti verso il mondo esterno, nel commercio estero” (pag. 280).

 

La crisi opera in termini di “pulizia capitalistica”, le aziende inefficienti o che non hanno adeguate economia di scala (tranne chi opera per nicchie di mercato) chiudono, rimane spazio per chi ha saputo tenere quote di mercato a livello mondiale e conquistare nuovi mercati per la valorizzazione del capitale, tant’è che si assiste negli ultimi due anni ad una concentrazione delle quote di commercio estero da parte di 3-4 mila imprese (su 500 mila!), che già nel 2008 detenevano il 70% delle quote di esportazioni.

 

Ma la stessa “razionalizzazione capitalistica” necessaria per riconquistare la redditività del capitale imporrà nei prossimi anni una lotta feroce, una vera e propria “guerra di classe” tra gli industriali e i rappresentanti del capitale finanziario, che non è propriamente “speculazione” ma simbiosi tra capitale industriale e capitale monetario, e il gruppo di ceti che Marx e Grossmann definiscono “terze persone”, oltre che una forte diminuzione del profitto commerciale in danno di intermediari, grossisti, commercianti, dettaglianti, e una salarizzazione dei “lavoratori indipendenti”, vale a dire il “blocco reazionario di massa”, dacché risulta chiaro che la sola svalorizzazione della forza lavoro, in sintesi la deflazione salariale, non è più sufficiente ai fini del superamento della crisi. Vi sarà, dunque, una riappropriazione della massa del profitto medio da parte della classe degli industriali e dei rappresentanti del capitale finanziario. Risulterà centrale, nei prossimi mesi, analizzare i flussi di commercio estero, la riduzione di prezzo del capitale costante, il tasso di investimento, la concentrazione manifatturiera ed, eventualmente, il ricorso al mercato azionario, italiano ed estero.

 

Si vedrà in tal modo se la condotta anticapitalistica di gran parte degli industriali italiani lascerà spazio alla razionalizzazione utile per un ritorno alla redditività del capitale o se, al contrario, troveranno spazio ulteriore le rendite fondiarie, tariffarie e immobiliari. Se così fosse, un ritorno all’accumulazione passerà necessariamente tramite capitali esteri, come avvenne durante il periodo giolittiano.

 

Si dimostrerà, così, una verità storica: in Italia l’accumulazione non passa mai attraverso la borghesia industriale privata.