Il grande imbroglio

di Alberto Burgio | da www.claudiograssi.org

Nel leggere un dato statistico, il buon senso raccomanda di considerare il quadro di riferimento entro il quale si colloca. Se lo si collega all’insieme dei fenomeni di cui è espressione, il dato è comprensibile e istruttivo. Se lo si enuclea, è probabile che lo si fraintenda vanificandone l’importanza. È una regola banale, che tuttavia l’informazione raramente osserva. Soprattutto quando si tratta di economia e quando c’è di mezzo la grande crisi che sta rivoluzionando le nostre vite. Argomento principe dei notiziari e delle prime pagine, per mezzo del quale viene compiendosi una gigantesca operazione egemonica capace di produrre consenso alla trasformazione americanista del modello sociale europeo.

Naturalmente non avviene per caso che i dati economici che strutturano la grande affabulazione sulla crisi siano sistematicamente comunicati – propagandati – fuori contesto. Producendo cifre isolate è facile piegarle a interpretazioni arbitrarie, servirsene per portare acqua al mulino del «rigore» finanziario.

Così accade da cinque anni a questa parte, dacché veniamo bombardati da numeri magici come se fossimo tutti diventati esperti di borsa e di finanza, mentre siamo soltanto trattati come utili idioti. Lo storico di domani avrà buona materia di studio se vorrà indagare il ruolo-chiave dei mezzi d’informazione in questa transizione postdemocratica. Siamo ricchi, collettivamente parlando. Nei cosiddetti paesi avanzati affoghiamo tra merci supertecnologiche a basso costo. Nonostante tutto l’Italia figura ancora ai primi posti nelle classifiche mondiali dei paesi affluenti. Ma ci stiamo serenamente persuadendo di essere poveri, sommersi da debiti, colpevoli di aver «vissuto al di sopra delle nostre possibilità», quindi meritevoli di sacrifici ed espropri.

Un ultimo esempio di manipolazione dei dati economici è l’uso terroristico delle stime Ocse sulle prospettive economiche dei 7 grandi. Mentre tutti gli altri hanno virtuosamente ripreso a crescere, l’Italia – ci siamo sentiti ripetere in questi giorni sino alla nausea – è l’unico paese (vizioso) a registrare anche nel 2013 un Pil in calo (-1,8%). Punto. O meglio, questo dato è subito ricondotto a una spiegazione inoppugnabile (scarsa produttività, scarsa competitività) e a una ricetta – la solita da quarant’anni – di «evidente» ragionevolezza. «Collegare i salari alla produttività», nella formula esoterica di Pier Carlo Padoan, attuale capo economista dell’Ocse; «fermare i salari italiani», nella versione volgare e schietta di Otmar Issing, suo predecessore negli anni pre-crisi. Fine delle trasmissioni.

Ma una seconda regola di buon senso – anch’essa puntualmente violata – dice anche che di fronte a un’anomalia è bene domandarsi se essa è l’unica o una tra le tante. Può darsi che, se l’Italia si distinguesse solo per la mancata crescita, chi la pensa come Padoan (quasi tutti quelli che contano) avrebbe ragione, nonostante i salari italiani siano già tra i più bassi dell’eurozona (e al dodicesimo posto nell’Europa a 28). Ma non è così. C’è oggi e da un buon quarto di secolo un nuovo «caso italiano» di segno opposto rispetto a quello degli anni Settanta. L’Italia vanta molti altri record che configurano una situazione peculiare. E che dovrebbero essere tenuti in considerazione quando si parla del Pil e delle sue performances. Sempre che si intenda capire e non semplicemente turlupinare il prossimo.

Quali dati? Due in particolare. Il primo, riferito al terreno della produzione, è la scarsità degli investimenti delle imprese nella ricerca per l’innovazione tecnologica, dalla metà degli anni Ottanta stabilmente inferiori, in Italia, alla soglia cruciale del 2% del Pil. Il che da una parte consegue al nanismo della stragrande maggioranza delle imprese e all’assenza cronica di una politica industriale che governi la dinamica della struttura produttiva; dall’altra genera effetti perversi, non soltanto sul piano economico (dipendenza dall’offerta estera di alta tecnologia; incapacità di anticipare la domanda di beni e servizi; caduta di competitività e perdita di quote del commercio internazionale) ma anche sul terreno sociale, poiché l’arretratezza e la staticità della struttura produttiva si riflettono sulla distribuzione dei redditi, accrescendo il tasso di ineguaglianza e riducendo quello della mobilità sociale.

Il secondo dato riguarda il debito complessivo. Si parla sempre soltanto dell’elevato debito pubblico italiano (prossimo ormai al 130% del Pil) ma ci si guarda bene dal ricordare il (relativamente) basso debito privato (in particolare delle famiglie), che in Italia si attesta sul 42% del Pil contro il 51 della Francia, il 63 della Germania e il 103 del Regno Unito. Come se i due fenomeni non fossero interconnessi e non costituissero nel loro insieme il punto di caduta della politica economica del paese.

Non sono, questi, i soli dati rilevanti, naturalmente. Né i soli che definiscono la peculiarità della situazione italiana. Si potrebbe continuare a lungo, ricordare disordinatamente il più alto tasso di disoccupazione giovanile (a fronte di una percentuale di giovani formati sul totale della popolazione inferiore alla media europea); il basso tasso di utilizzo degli impianti (contro un orario di lavoro medio tra i più alti d’Europa); un indice di disuguaglianza simile a quello degli Stati Uniti (metà della ricchezza nazionale concentrata nel 10% più ricco); l’incidenza delle mafie, del sommerso (il 17,4% del Pil) e dell’evasione fiscale (120 miliardi di reddito sottratto al fisco); il record di privatizzazioni, delocalizzazioni, pressione fiscale sul lavoro dipendente, trasferimenti pubblici a fondo perduto a beneficio dei privati (metà della capitalizzazione della Fiat è costituita da capitale pubblico) e, perché no, il record della quota di reddito bruciata nel gioco d’azzardo. Il punto è che tutti questi indici riportano ai due aspetti sopra citati (l’arretratezza tecnologica dell’industria e la composizione del debito), nella misura in cui anch’essi riflettono conseguenze sistemiche di un assetto economico fragile e inefficiente, figlio di una struttura sociale sempre più iniqua.

Che cos’è infatti un paese in cui l’ambito pubblico va in rovina mentre il privato prospera a sue spese, un paese che manda in malora (o svende) la propria industria e sacrifica le proprie migliori risorse umane e materiali (taglieggiando i redditi da lavoro e riducendo la base occupata senza uno straccio di politica industriale) pur di remunerare il capitale privato a dispetto del suo mancato concorso allo sviluppo dell’apparato produttivo nazionale? Che cos’è un paese siffatto e che cos’è la classe dirigente che ne compromette in tal modo le sorti? Il quadro è chiaro. La mancata crescita italiana non deriva dall’incontinente avidità degli operai, ma dalla soffocante manomorta della rendita che si mangia quote crescenti di capitale. La borghesia italiana non ama il rischio, né quello sociale né quello d’impresa. Ama la precarietà altrui, non certo la propria. Per questo viene feudalizzandosi, disinvestendo dalle funzioni produttive per concentrarsi sulla speculazione fondiaria e finanziaria.

Questo dice il dato Ocse sulla mancata crescita. Che in ultima analisi suggerisce di riflettere sulla deficitaria modernizzazione italiana e sulla struttura familistica del nostro capitalismo e delle nostre istituzioni. Di tutto questo si tratterrebbe di discutere soprattutto a sinistra (se esistesse una sinistra in condizione di farlo). E probabilmente se ne discuterebbe sulla grande stampa, se i padroni dell’informazione non fossero tra i beneficiari di questo stato di cose. Dovendosi invece tenere il paese sotto il giogo di una classe dirigente parassitaria e irresponsabile, lo si deve innanzi tutto mantenere nell’ignoranza. Gli si debbono raccontare storie, ammannire dati truccati o sconclusionati. E poco importa se, di questo passo, il paese si ritroverà ben presto a giocare il ruolo della colonia, al quale del resto l’Unione europea a guida franco-tedesca l’ha prontamente destinato.