di Domenico Moro | da Pubblico
I comunicati diffusi ieri dall’Istat ci rivelano che a pagare di più per le politiche restrittive del governo sono state le famiglie consumatrici, il cui potere d’acquisto è sceso del 4,1% nel secondo trimestre del 2012 rispetto al 2011, e dell’1,6% rispetto al trimestre precedente. Nei primi sei mesi del 2012 il calo è stato del 3,5%. Si tratta del peggiore semestre degli ultimi dodici anni. In valore assoluto il potere d’acquisto delle famiglie nel secondo trimestre 2012 è stato di 224,87 miliardi di euro. Per trovare un valore inferiore bisogna risalire al primo trimestre del 2000 con 219,69 miliardi. A peggiorare sono anche le imprese, sebbene in misura inferiore alle famiglie e considerando che i dati non includono le imprese finanziarie, beneficiate dagli investimenti sul debito pubblico. La quota di profitto sul valore aggiunto (38,5%) delle imprese è calata nel secondo trimestre dello 0,4% rispetto al trimestre precedente, e del 2,1% rispetto al 2011.
È da notare che, nei primi sei mesi del 2012 rispetto al 2011, la flessione degli investimenti fissi lordi delle imprese (-8%) è stata maggiore di quella del risultato lordo di gestione (-6,7%) e del valore aggiunto (-2,6%). Quanto osservato fino a qui, ha una corrispondenza con l’andamento dei conti nazionali, che registrano nel secondo trimestre 2012 un calo del Pil del -2,6% rispetto al 2011. Ci accorgiamo, infatti, che la flessione è dovuta in gran parte proprio al calo dei consumi nazionali (-3%), che, però, è da riferirsi soprattutto al calo degli investimenti fissi lordi (-9%), della spesa delle famiglie (-3,7%), e molto meno a quello della spesa della P.a. (-0,9%). Anche il miglioramento della bilancia commerciale italiana si collega soprattutto al crollo delle importazioni (-8% nel secondo trimestre), dovuto al più generale crollo del mercato domestico, e meno al leggero aumento delle esportazioni (+1,3%). Si potrebbe comunque osservare che il governo nel secondo trimestre è riuscito a raggiungere un saldo primario, cioè al netto della spesa degli interessi, di 12,75 miliardi. Il punto è che questo “risultato” è dovuto soprattutto all’aumento della pressione fiscale. Questa, però, si è scaricata soprattutto sulle famiglie dei salariati, mediante il maggiore peso delle imposte indirette, Iva e accise varie, che pesano proporzionalmente di più su chi è più povero. Tra secondo trimestre 2011 e 2012, mentre le imposte dirette sono passate dai 55 ai 56,69 miliardi (+1,5%), quelle indirette hanno superato le prime, passando dai 54,41 ai 57,99 miliardi (+6,6%). Il governo, da una parte, con l’aumento delle imposte indirette ha accentuato le dinamiche inflative, determinando la perdita di potere d’acquisto, e, dall’altra parte, nel primo semestre ha diminuito le uscite in conto capitale (tra cui gli investimenti) del 14,7%. Il combinato disposto di questi due fattori ha depresso domanda e investimenti interni, trascinando il Pil in basso. Visto che l’economia italiane non può reggersi soltanto sui mercati esteri, spesso anch’essi in difficoltà, queste scelte hanno aggravato la crisi, che, a causa del crollo degli investimenti, rischia di lasciare dietro di sé un apparato industriale fortemente ridimensionato.
Domenico Moro