Crisi economia: il fondo del tunnel è lontano

tunnel luce personedi Francesco Valerio della Croce per Marx21.it

Riforme istituzionali, monocameralismo, immunità parlamentare, legge elettorale: ma che fine ha fatto la crisi economica? Potrebbe sembrare una domanda banale, scontata, ma in realtà, nel rimbombo quotidiano dei notiziari televisivi che informano degli argomenti scottanti del giorno, la crisi economica sembra essersi volatilizzata. 

Già durante gli ultimi mesi di vita del Governo Monti e a cavallo tra il 2012 ed il 2013, la fase “nera” della crisi sembrava essere oramai alle spalle, passata. Lo stesso ex premier tecnico, come slogan elettorale, ammoniva i cittadini nella campagna elettorale del 2013 a non rendere vani i “sacrifici” fatti. Quasi a dire che altri sacrifici non sarebbero stati necessari perché il peggio era passato, appunto. E se fino a pochi mesi fa la parola più ricorrente negli articoli di argomento politico-economico era “crisi”, oggi campeggia fisso sulle pagine dei grandi giornali di opinione il termine “crescita”, nella convinzione che la fase discendente della economia sia oramai definitivamente finita.

Ma è davvero così? E’ questa una lettura sostenibile dei fatti?

A parere di chi scrivo questa lettura è molto parziale, per non definirla mistificatrice.

I DATI

Non c’è bisogno di affannarsi in ricerche approfondite nei campionari dei dati statistici. Basterà prendere in considerazione alcuni dati, raffrontandoli con i livelli pre-crisi (fonte Centro studi di Confindustria): PIL -9%, PIL pro capite -10,8%, Produzione industriale -23,6%, produzione costruzioni -43%, consumi delle famiglie -8%, investimenti -27,6%, occupazione -7,8%, persone cui manca lavoro +3,7 mln (+93,9%), persone povere +3 mln (+122,3%). Un vero e proprio bollettino di guerra. E tuttavia, secondo l’opinione dominante e incontrastata, queste cifre sarebbero destinate a migliorare, “perché il peggio è passato”, identificando il peggio con i mesi di pressione finanziaria sui titoli di Stato che hanno portato alla nomina urgente di Mario Monti a Senatore a vita prima ed a Presidente del Consiglio poi. Forti dei sacrifici fatti e del rispetto degli equilibri di contenimento, equilibrio e rientro del bilancio dello Stato contratti con la UE, ora si può pensare alla ripresa, si afferma. In questo ragionamento, in realtà, vi sono diverse omissioni: in primo luogo, non è vero che i sacrifici fatti con le misure lacrime e sangue adottate negli anni addietro hanno permesso di superare la fase acuta della crisi finanziaria, basterà citare a proposito l’aumento del debito pubblico, che raggiunge livelli record (132,6%), in barba ai domatori dello spread che tanto aveva attirato l’attenzione. In secondo luogo, le politiche di austerità adottate produrranno alla lunga effetti recessivi di cui è difficile tuttora vedere la fine: non vi è stima di inversione nella tendenza negativa dei dati sopra citati. La stessa previsione, ancora di fonte confindustriale, di crescita del PIL dello 0,2% è stata ridotta dalla Economist Intelligence Unit allo 0,1% (si consideri che di mesi, per arrivare alle fine dell’anno, ce ne sono ancora parecchi).

LA POLITICA ECONOMICA UE

Tantomeno si può pensare di rinfrancarsi con le recenti misure non convenzionali intraprese dalla Bce: unici effetti rilevanti di tali politiche riguardano indubbiamente la fuga di capitali dai depositi Bce a causa del tasso negativo di recente fissato da Mario Draghi sui depositi medesimi. Non si può dire altrettanto rispetto all’ulteriore taglio del costo del denaro, che determina i tassi d’interesse sui mutui: la riduzione risulta poco incisiva poiché riduce tassi già sufficientemente bassi e soprattutto risulta poco appetibile per nuove stipulazioni a causa della debolezza delle garanzie e della sostenibilità da parte dei cittadini contraenti.

La stessa possibilità di mettere in circolazione ABS (titoli cartolarizzati), che potrebbero vedere come acquirente proprio la Bce per metter in circolazione moneta nel sistema, è resa abbastanza fragile da diversi fattori (rating e qualità dei titoli, tanto per esemplificare). In generale, le scelte di quantitative easing risultano, fatti tutti i conti, sufficientemente sterilizzate.

Non bisogna oltretutto dimenticare il fatto che rimangono pienamente all’orizzonte i trattati europei sottoscritti dall’Italia. Un orizzonte solo rinviato (pare che Renzi abbia raggiunto, per il momento, un accordo per il rinvio dell’obiettivo di pareggio al 2015), ma che si palesa sempre più terrificante (già a fine anno bisognerà fare i conti col fiscal compact). Gli stessi risultati raggiunti da Renzi in sede europea, sino ad ora, lasciano molto a desiderare in merito al pure minimo obiettivo di modifica dei trattati Ue, visto lo spacciare un mero rinvio per un’abile transazione.

CHE TIPO DI CRISI?

Resta, dunque, tutta aperta la discussione sulla crisi economica. Se infatti è patrimonio comune il carattere finanziario (e, ad onor del vero, anche in quel campo s’è fatto ben poco quanto a regolamentazione dei mercati) meno chiaro è come affrontare le conseguenze recessive delle politiche di austerity adottate prima acriticamente, con una certa inclinazione al fideismo, ed oggi messe in discussione dai più, salvo peccare di un deficit di consequenzialità nelle scelte concrete. In effetti, non sarebbe nemmeno sufficiente un mero allentamento delle misure di austerità in un contesto economico europeo in cui lo squilibrio commerciale in favore della Germania la fa da padrone. Pur in presenza della ripresa di una domanda a seguito di misure economiche espansive ( reddito minimo, ancora una volta per esemplificare), un Paese con una devastazione industriale come l’Italia (che, oltre a distinguersi per il dato negativo su riportato, ha perso dagli anni ’90 ad oggi circa il 47% della propria produzione industriale) subirebbe un contraccolpo fortissimo con un aumento delle importazioni (verosimilmente dalla Germania, le cui aziende, come ricorda il Financial Times di alcune settimane fa, sono impegnate da mesi in una “scorpacciata transalpina” ai danne di quelle italiane) e quindi un passivo della bilancia commerciale.

Settimane addietro, sulle reti sociali di facebook, girava un burlesco gioco di richiamo dei luoghi comuni: il luogo comune è un’opinione generalmente accettata, utile alla persuasione poiché costituisce un preconcetto su cui costruire un ragionamento. Credo che la retorica della “crisi economica alle nostre spalle”, quella per cui in prospettiva non vi sia che la ripresa della economia e la crescita, avrebbe potuto dimorare comodamente nel lungo elenco delle banalità. 

Potrebbe essere, invece, che per modificare le conclusione del ragionamento sia necessario discutere le premesse, i postulati ricchi di luoghi comuni che, alla prova dei fatti, non rendono più risposte adeguate alla realtà. Gli stessi ritornelli neokeynesiani corrono oggi il rischio di finire assorbiti in questo schema.

Ogni tunnel ha un’uscita, ma quella del nostro è ancora lontana.