di Vladimiro Giacché | da Pubbico del 3 ottobre 2012
La Corte fa due conti: e boccia il governo tecnico. Il linguaggio garbato, gli sparsi riconoscimenti all’operato del governo e qualche richiamo ai vincoli europei non devono ingannare: l’audizione della Corte dei Conti davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato è stata una sonora bocciatura del governo dei tecnici. I magistrati della Corte dei Conti hanno esaminato la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza e hanno sottolineato con la matita blu la dubbia efficacia delle politiche governative e i loro sicuri effetti negativi sulla crescita del nostro Paese. Per quanto riguarda gli effetti negativi, non hanno dovuto faticare molto. Come giustamente rilevano in apertura della loro relazione, infatti, «sul fronte delle prospettive economiche, il peggioramento rispetto all ’aprile scorso appare assai netto e, per l’Italia, drammatico».
Ad aprile era stata stesa la prima versione del Documento di Economia e Finanza, e già allora la Corte dei conti aveva avuto qualcosa da ridire: in particolare sull’aumento di una pressione fiscale, «già fuori linea nel confronto europeo» e tale da generare un ulteriore effetto recessivo.
A questo riguardo la Corte sottolineava «il pericolo di un corto circuito rigore/crescita » favorito proprio dalla composizione delle manovre correttive proposte nel Documento (per quasi il 70% affidate ad aumenti di imposte e tasse a chi già le paga). Quel pericolo è oggi divenuto realtà. E lo dimostrano gli stessi dati contenuti nella Nota di aggiornamento, drasticamente rivisti in peggio: -2,4 per cento il prodotto interno lordo nel 2012 (contro la previsione di un -1,2 per cento di aprile), e ancora -0,2 per cento l’anno prossimo (ipotesi probabilmente ottimistica). In questo modo la perdita di prodotto rispetto ai valori pre-crisi del 2007 raggiungerà i 7 punti percentuali nel 2013. E siccome lo stesso documento governativo non ritiene che all’approfondimento della recessione possa seguire, nel 2014-2015, un rimbalzo congiunturale, quella perdita ancora nel 2015 sarà di 5 punti percentuali. A questo punto, afferma la Corte dei conti, gli stessi risultati del programma di «riforme strutturali» avranno «una dimensione insufficiente per colmare il vuoto di domanda apertosi nel 2007».
Cosa sta succedendo? È molto semplice: al rallentamento della domanda internazionale, spiega la Corte dei Conti, «in Italia si accompagna la caduta del prodotto imputabile proprio alle manovre di consolidamento fiscale. E ciò a causa di una manovra di bilancio che, nel breve periodo, trasmette impulsi restrittivi su una domanda interna già avvitata in una spirale depressiva». Non solo: «secondo gli stessi parametri offerti dal documento governativo, quasi due terzi della riduzione del pil devono essere imputati alle dimensioni e alla composizione della manovra complessiva della finanza pubblica attuata a partire dall’estate 2011».
In effetti, lo stesso Documento di Economia e Finanza ora rivisto deve constatare la caduta della domanda interna, peggiore che nel 2009: in assenza delle esportazioni (+1,2%), se cioè la crescita fosse determinata soltanto dall’andamento della domanda interna, il calo del prodotto a fine 2012 sarebbe un vero e proprio crollo (-3,6%). All’interno della caduta della domanda interna, spiccano il peggioramento dei consumi delle famiglie (-3,3%) e gli investimenti in macchinari (-8%); ma se per quanto riguarda questi ultimi si sono verificate in passato crisi peggiori, per quanto riguarda i consumi delle famiglie – osserva la Corte dei conti – quello attuale è «l’episodio recessivo di massima intensità»: insomma, nel dopoguerra non è mai andata così male.
Ma la gravità della recessione indotta dalle misure di correzione dei conti pubblici ha un altro effetto, solo a prima vista paradossale. Il calo del prodotto comporta un peggioramento delle entrate fiscali. E questo ha effetti fortemente negativi sull’andamento del deficit e del debito pubblico. Non a caso la Nota di aggiornamento governativa ora prevede per il 2013 minori entrate per oltre 21 miliardi di euro rispetto a quelle previste in aprile. Risultato: un avanzo primario (cioè prima del pagamento degli interessi sul debito) inferiore di 16 miliardi a quanto previsto e un indebitamento netto superiore di 17 miliardi. Ecco, dice la Corte dei conti, gli «effetti perversi di un corto circuito tra inasprimenti fiscali e crescita economica»: l’approfondirsi della recessione «ha impedito di conseguire gli obiettivi di entrata, nonostante gli aumenti discrezionali di imposte».
E infatti il documento governativo, per rispettare comunque le previsioni di riduzione del debito entro il 2015, deve tirare fuori dal cappello un coniglio che ad aprile non c’era: dismissioni di proprietà pubbliche per 20 miliardi l’anno dal 2013 al 2015. Non solo: per poter comunque dichiarare che chiuderà il 2013 con un avanzo di bilancio, per quanto esiguo (0,2% del pil), il governo fa ricorso al calcolo del cosiddetto indebitamento netto strutturale, che tiene conto del ciclo economico avverso. Questo è in linea con le metodologie di calcolo europee. Ma la Corte osserva, con una certa cattiveria, che «la depurazione dagli effetti ciclici dovrebbe, a rigore, applicarsi solo in presenza di perturbazioni aventi natura esogena e casuale ». Mentre nel nostro caso «la flessione dei livelli di attività assume natura discrezionale », essendo «indotta da misure di politica economica». Tradotto in parole povere povere: è scorretto depurare il calcolo del pil dagli effetti di una recessione che non proviene da choc esterni, ma che noi stessi abbiamo creato attraverso politiche economiche depressive. A questo punto qualcuno dirà: per quanto queste politiche abbiano avuto sgradevoli effetti collaterali, esse erano necessarie per calmare i mercati finanziari che non volevano più saperne di acquistare i nostri titoli di Stato; e almeno a questo sono servite. La verità purtroppo è diversa: i mercati – osserva la Corte dei conti – «riconoscono solo in parte» i risultati conseguiti nel controllo della finanza pubblica. E quindi «la somministrazione di dosi crescenti di austerità e rigore» non soltanto si rivela «una terapia molto costosa e, in parte, inefficace», ma «neppure offre certezze circa il definitivo allentamento delle tensioni finanziarie». Il motivo di questo – e la Corte fa bene a metterlo in rilievo – è che i mercati non la pensano affatto come le autorità europee. Se queste ultime pongono al centro della loro strategia «il rigido controllo delle finanze pubbliche dei paesi in difficoltà» e considerano debito e deficit pubblici come «la causa principale della crisi dell’euro», la prospettiva dei mercati è molto differente: essi infatti attribuiscono «un peso sempre maggiore ai fattori di vulnerabilità di un insieme di paesi privi di una reale convergenza economica e di una vera unione politica»; non a caso, il loro orientamento «appare sempre più influenzato dalla percezione negativa delle prospettive di crescita di paesi come l’Italia o la Spagna».
Per questo la Corte dei conti auspica che l’impostazione della politica economica «riacquisti gradualmente un segno di maggiore equilibrio», insiste sul fatto che è necessario «rafforzare la strategia per la crescita, affidando ad essa obiettivi più ambiziosi di quelli finora adottati», e precisa – molto opportunamente – che «gli interventi per la crescita sono solo in parte riforme senza spesa» e che quindi serve «mobilitare risorse finanziarie». Un modo gentile per dire che occorre una decisa inversione di rotta rispetto a quanto il governo ha fatto sinora.