Ma di quale “baratro” stanno parlando?

di Salvatore d’Albergo

costituzione strappataDa quando la crisi capitalistica degli anni in corso è scoppiata nei termini documentati dai rapporti di sopraffazione del FMI, della Banca Mondiale e della BCE sulle istituzioni finanziarie nazionali europee e quindi sugli assetti dell’economia “reale”, l’ossessività della pretesa dei centri di comando interni all’Unione Europea di imporre limiti sempre più gravosi alle politiche di governo degli Stati a rischio di “default” ha avuto l’effetto di nascondere, dietro al vero e proprio”terrorismo ideologico” alimentato dai cosiddetti “mercati finanziari”, il “baratro” che si è inesorabilmente aperto sotto gli assi portanti dei presupposti della convivenza delle comunità nazionali europee, cioè delle rispettive Costituzioni.

Ciò è particolarmente grave per il caso italiano, il cui modello rimane caratterizzato come più avanzato rispetto a quello di ogni altro vigente nell’Europa occidentale proprio sul terreno dei principi concernenti i rapporti tra politica ed economia, nel segno di quella “democrazia sociale” che è stata la base delle lotte sociali per la conquista di obiettivi funzionali all’emancipazione di lavoratori e cittadini sia sul terreno dei rapporti tra fabbrica e stato, sia sul terreno dei rapporti sociali dei cittadini con lo stato delle autonomie.

In questo quadro, mentre ha dato una prova di coscienza di classe l’attestarsi del sindacato su una linea di difesa della breccia aperta nel 1970 a carico di una sovranità dell’impresa che un organo dello stato (la magistratura indipendente) può controllare, sanzionando l’obbligo di reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa (1’art. 18), eguale ma ancor più rigorosa e ininterrotta sensibilizzazione va stimolata per la risposta da organizzare all’attacco divenuto sistematico all’epicentro del modello economico e finanziario della democrazia sociale, a latere dei tentativi che fin dal 1983 si sono reiterati per alterare la sovrastruttura dei rapporti istituzionali (Seconda Parte della Costituzione), sempre e comunque per delegittimare, con l’azione di governo, il sistema dei principi di socializzazione del potere economico.

Mai come in questo momento occorre tener presente i richiami di Gramsci al fatto che “la storia nelle sue linee generali si fa sulla legge scritta” e sopratutto al fatto che le novità che rovesciano le situazioni sancite nella legge discendono dal mutamento preparato “molecolarmente” per poi esplodere [1]: sicché sta ai militanti oltre che ai gruppi dirigenti comunisti cogliere in tempo quel che matura nella società, come già avvertito (cfr. MarxVentuno n. 1, 2012) nel ventaglio di sollecitazioni di Catone, Moro, Cicalese e Giacché contro lo stato d’emergenza provocato dalla guerra intestina. tra gli esponenti del capitale finanziario e i centri di potere del sistema industriale internazionale-nazionale, che – contrariamente a quel che si fa credere – non si regge solo sulla c.d. “lex mercatoria”, ma sopratutto sui poteri di tipo “normativo” pubblico nell’intersezione, alimentata in modo frenetico e dissennato, fra trattati e istituzioni finanziarie internazionali, norme”comunitarie” e norme statali [2].

È infatti al grido allarmante della “bufera” incombente sull’economia pubblica e privata dei vari stati-nazione d’Europa a ritmi alterni, che viene occultata la vera e propria “bufera” cui viene giorno dopo giorno sottoposto il quadro istituzionale della organizzazione dei paesi “sovrani” destinati a scontare il peso dei vari debiti “sovrani”. Un occultamento giunto a tal punto che nel Trattato di Bruxelles del 2 marzo scorso, firmato da 22 governi per la stabilità, il coordinamento e la “governance” dell’Unione economica e monetaria, si è concordato (senza preventivamente esserne autorizzati dai rispettivi parlamenti nazionali) che le parti contraenti recepiscano nei loro ordinamenti nazionali la “regola del pareggio di bilancio”, addirittura tramite disposizioni vincolanti e permanenti preferibilmente di natura costituzionale. Cosicché il metodo, invalso sin dagli anni ’50 (quando è stato fondato il Mec) di nascondere dietro la finzione del principio c.d. “comunitario” lo sdoppiamento del ruolo dei governi nazionali tra la sede sovranazionale e la sede statale, porta ora all’estremo limite l’illegittimità costituzionale già cronicamente consolidatasi: il governo Monti ha impegnato lo stato italiano in sede comunitaria a un’operazione già avviata da Berlusconi, anticipando sul terreno della revisione costituzionale dell’art. 81 le intese tra Pdl, Pd, Udc, nonché altri gruppi sparsi. Intese che quindi vanno denunciate per motivi ben più gravi di quelle concernenti l’art. 18 sul potere di licenziamento, perché la legge che introduce “il principio del pareggio di bilancio” nella Carta Costituzionale, benché formalmente costituzionale è implicitamente incostituzionale in quanto sostanzialmente contrastante con i Principi Fondamentali della Costituzione e con i principi della sua Prima Parte.

Non va dimenticato infatti che compito della revisione costituzionale è quello di emendare – come avviene nell’ordinamento americano, che ha introdotto le regole di “garanzia” proprie delle costituzioni c.d. “rigide” – norme costituzionali singolarmente richiedenti nel decorso della vita della società adeguamenti ad aspetti della maturazione della democrazia, come è avvenuto specialmente negli anni dal 1948 agli anni ’90, prima cioè che l’incursione della destra di Berlusconi-Fini-Bossi tentasse lo stravolgimento dell’ordinamento della Repubblica respinto dal referendum del 2006: con la partecipazione al voto di oltre la metà degli aventi diritto, al contrario di quanto avvenuto nel 2001, quando si astennero dal voto circa i due terzi degli aventi diritto, per la reticenza popolare ad approvare una revisione imposta dal “centrosinistra” con soli 4 voti di maggioranza pur di introdurre un sistema di c.d. “regioni forti” per mascheratura di un federalismo bloccatosi ed ora sotterrato dal centralismo del “pareggio di bilancio”.

Come si vede, centro-destra e centro-sinistra – in questi giorni alleati a suggello di una convergenza strisciante vissuta all’epoca della “bicamerale D’Alema” già impostata su una incostituzionale “deroga” alle norme sulla revisione costituzionale – non esitano a concorrere alla devastazione, non già solo di quanto stanno preparando sulla scia della “bozza Violante” (già denunciata su l’ernesto 1/1/2010) per alterare la “forma di governo”, regolata nella Seconda Parte della Costituzione, ma addirittura del complesso dei principi che caratterizzano la “forma di stato”. E ciò perché non si possono usare fraudolentemente le procedure emendative per contrapporre all’indirizzo politico, economico e sociale della Costituzione principi, come quello del pareggio di bilancio che, se si attagliano ad ordinamenti di stampo liberale-liberista (come quello statunitense che genera una “conservazione” insofferente persino dei timidi tentativi di B. Obama in materia di tutela dei diritti sociali), sono tuttavia in contrasto con i nostri Principi Fondamentali che appartengono all’essenza dei valori supremi introdotti per garantire i diritti inalienabili della persona umana, in quanto derivanti da istituti politici, economici e sociali destinati a contrastare quelli propri del capitalismo difesi ed enfatizzati dalla c.d. Unione europea, ma suscettibili di impatti differenziati in relazione ai poteri di controllo democratico e di sviluppo sociale dei singoli stati-nazione: poteri che in Italia sono esemplarmente segnati nella sequenza soprattutto degli artt. 1, 2, 3, 4, 41, 42, 43, 47 e 81, oltre che dalla compattezza degli artt. 30-47 della Costituzione.

Naturalmente occorre far penetrare la coscienza degli smottamenti in corso nella mente e nell’azione di quanti – come movimenti e come singoli nel lavoro e fuori del lavoro – lottano per resistere all’oppressione dilagante, coinvolgendoli su terreni che chiamano in causa la predisposizione degli strumenti di contestazione dell’incostituzionalità della revisione di imminente promulgazione ed operativa negli anni 2013-14. Essa infatti è devastante – tanto che se non bloccata insidierebbe gravemente il modello di “democrazia sociale” italiano – per il complesso di norme confuse e accavallantisi in una aggrovigliata furia devastatrice dei diritti che la Costituzione ha mirato a salvaguardare e potenziare. Furia che non ha esitato a svilire con un accentramento sullo Stato – a scapito del rafforzamento delle regioni operato con la revisione del 2001 – di attribuzioni che il nuovo testo dell’art. 81 in parte contiene, e in parte notevole demanda ad una “legge di bilancio” approvabile dalla “maggioranza assoluta” delle Camere, cioè da voti politico-parlamentari di “larghe intese”. Legge che, a sua volta, dovrebbe rispettare una catena di vincoli applicativi di criteri di tipo “liberista”, univocamente destinati ad infierire sul soddisfacimento dei bisogni sociali di ogni genere.

La sequenza di alterazioni del precedente testo dell’art. 81, prende avvio – in nome “dell’equilibrio tra le entrate e le spese” del bilancio statale – dallo spostamento, a carico delle singole leggi “sostanziali” di indirizzo politico-economico-sociale, dell’obbligo di provvedere ai mezzi necessari a far fronte “a nuovi o maggiori oneri” (senza più specificare la loro natura di “tributi e spese”), carico che sin qui era imposto alla “legge di approvazione del bilancio”. Tale irrigidimento è posto in funzione dell’obiettivo supremo di salvaguardare “il ciclo economico”, che deve essere al riparo sia dalle fasi “avverse”, sia dal verificarsi di “eventi eccezionali”, tanto che l’eventuale ricorso all’“indebitamento” è consentito a sua volta dall’autorizzazione delle Camere “a maggioranza assoluta” (ancora una volta “in virtù di larghe intese”).

La comparsa del criterio della “eccezionalità” di eventi che si sovrappongono alle fasi “avverse” del ciclo economico, chiama in causa il Trattato incostituzionale firmato da Monti, nel quale è precisato che come eccezionali si intendono eventi “inconsueti” non soggetti a controllo (con ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione), oppure periodi di grave “recessione economica”, peraltro aggiungendo che la deviazione “temporanea” è ammissibile solo se “non comprometta” la sostenibilità del “bilancio a medio termine”.

In tale contesto il nuovo art. 81 individua quali eventi “eccezionali”, oltre alle gravi recessioni economiche e alle crisi finanziarie, le “calamità naturali”, per un indebitamento dovuto sia agli effetti del ciclo economico sia “all’inefficacia” degli interventi. Ma non paga degli insistiti vincoli alla spesa pubblica, la legge di “parità” espressamente rimette alla legge di bilancio il compito di stabilire solo “nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali” le modalità di concorso dello Stato ad assicurare il finanziamento da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali.

Tale perentoria incisione sui Principi Fondamentali che attengono ai diritti sia civili che sociali, sia al potere delle autonomie regionali e locali, si completa con la sottrazione alle Regioni del potere di “concorrere all’armonizzazione dei bilanci pubblici” fissato nella revisione del 2001 (art. 117, 6° comma) e concentrarlo nello Stato (art. 117, 2° comma, lettera e). Così come al posto di quanto previsto nella citata revisione, nell’art. 119, 2° comma, il potere locale e regionale di stabilire tributi ed entrate proprie non deve più attuarsi “in armonia con la Costituzione”, ma “nel rispetto dei relativi bilanci e nell’osservanza dei vincoli derivanti dall’Unione europea”.

Di fronte ad una così devastante manipolazione della Costituzione – dopo che la legge di “liberalizzazione” ha estraniato dal regime dell’art. 41 C. lo statuto dell’impresa – è evidente che occorre subito apprestare gli strumenti di contestazione del nuovo art.81, facendo leva sulle contraddizioni della stessa Corte Costituzionale, che da un lato tende, come nel mondo anglosassone, a sanzionare le leggi ordinarie che garantiscono i diritti sociali perché sono “diritti che costano”, ma dall’altro lato non ha potuto esimersi dal riconoscere testualmente che anche le leggi di revisione costituzionale devono applicare senza lesione i Principi supremi dell’ordinamento che appartengono alla sua essenza (Corte Costituzionale l988 n. 1146).

Oltre al rilancio di una lotta culturale che coniughi movimenti di massa e forze sociali e politiche, vanno sin d’ora predisposte le iniziative che a suo tempo potranno tradursi sia nella eccezione di costituzionalità di leggi di spesa che dell’art. 81 nei nuovi termini illegittimi facciano applicazione; sia nel sollevamento di conflitti tra Regioni e Stato a proposito dell’indebita invasione degli ordinamenti autonomi derivanti dalla manomissione dei diritti sociali, e della eguaglianza di tutti i cittadini.

NOTE

1 Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, ed. Einaudi, 1975, q 14 § 64, p. 1724.

2 Gaetano Bucci, “La sovranità popolare nella trappola multilevel”, in Costituzionalismo.it, Archivio 2006-2008, Napoli, 2011.