di Giuliano Cappellini per Marx21.it
La pessima repubblica presidenziale di Renzi
Senza riconoscerlo apertamente, l’Italicum e la “deforma costituzionale” sono l’ultimo tentativo, in ordine di tempo, di introdurre in Italia un ordinamento istituzionale di tipo presidenziale realizzando l’obiettivo che le destre hanno fallito quando erano al governo ma al quale hanno sempre mirato. Per la durata della legislatura, la repubblica presidenziale consegna al governo ed al suo capo – proclamato col ballottaggio finale – il maggior potere decisionale e di controllo dell’opinione pubblica prima della dittatura. L’archetipo dell’ordinamento presidenziale in Europa è quello francese, ma se lo si paragona al progetto di Renzi si notano significative differenze. In Francia il governo può varare leggi contro il parere del Parlamento (come, di recente, per la riforma delle leggi sul lavoro)[1] ma se ne assume in toto la responsabilità e si gioca quell’autorevolezza che, nell’opinione pubblica, dipende, anche, dall’accordo col Parlamento. Se passa la riforma costituzionale voluta da Renzi, questa eventualità non si potrà verificare in Italia perché nel Parlamento il governo avrà sempre la maggioranza assicurata. Infatti, limitando e stravolgendo le competenze del Senato, escludendo l’elezione diretta dei senatori, la riforma istituisce un Senato “addomesticato” i cui pareri e deliberati potranno essere ignorati dall’altro ramo del Parlamento, la Camera dei Deputati, in cui il governo si assicura la maggioranza con una legge elettorale maggioritaria. E sarà una camera “docile”, perché i deputati saranno scelti dagli elettori su liste di candidati che le segreterie dei partiti selezioneranno tra i fedeli del leader, escludendo le minoranze critiche interne del partito. Naturalmente la responsabilità formale delle decisioni impopolari ricadrà, ancora, su un Parlamento ridotto a “foglia di fico” del governo.
Mai, nella storia del Parlamento italiano, neppure dai governi liberali che guidarono il Paese fino all’avvento del fascismo[2], l’istituto della rappresentanza popolare è stato tanto umiliato. Il limite è stato superato solo dal Partito Democratico, che si dice di sinistra ma che, a tutti gli effetti, è l’erede della vecchia e peggiore tradizione liberale. È un caso di trasformismo estremo. Non è difficile capire che la “deforma costituzionale” incentiverà ancor più l’astensionismo elettorale e la crisi del PD.
La crisi degli equilibri internazionali e l’obiettivo della “governabilità”
La riforma su cui si dovrà esprimere l’elettorato è una ulteriore tappa della “normalizzazione” del paese perseguita dal PD fin da quando si chiamava PDS. Essa ormai tocca la Costituzione per la sua “anomalia progressista”. Ma se l’impegno dei costituzionalisti di chiara fama, tutti schierati per il NO nella campagna referendaria, svela la portata dell’aggressione alla Costituzione del governo Renzi, la logica e la coincidenza temporale, insomma la dimensione politica profonda della riforma renziana è una reazione alle grandi crisi internazionali che coinvolgono il nostro Paese. Difficile ordinarle per importanza. Esse si riconducono all’estremo tentativo di riconquistare posizioni politiche, strategiche ed economiche di un Occidente imperialista che vuol riportare indietro le lancette della storia a quando non erano presenti nel mondo nuove e grandi realtà economiche, politiche e militari che non controlla. Dunque si arrocca al punto da giudicare vitale e strategica per la sua sopravvivenza ogni posizione economica, politica e ideologica contesa. Ogni minaccia esaspera una delicata crisi generale che può degenerare in un conflitto globale se degenera solo un solo suo aspetto.
Contro le contraddizioni interne del suo modello economico, l’Europa impone il ricatto della grande finanza internazionale e, sul piano politico e militare sceglie la guida degli Stati Uniti, con la loro predominanza militare, ma anche con il fardello di un debito pubblico esorbitante.
In ultima analisi, la destabilizzazione del quadro internazionale induce le classi dirigenti di molti paesi a mettere mano agli assetti istituzionali nazionali pur di adeguarsi ai processi di omologazione imposti dall’integrazione economica e politica referente a classi dominanti come l’alta finanza internazionale, le grandi multinazionali e le lobby degli armamenti. Ma, tali omologazioni finiscono per sacrificare gli interessi nazionali dei paesi più deboli a favore di quelli dei paesi più forti e predominanti, che si preoccupano dei loro interessi strategici di piccole potenze regionali e, in particolare, della grande potenza degli Stati Uniti. Naturalmente, nel mondo occidentale omologazione significa pieno ossequio agli USA. Anche le classi dirigenti politiche del nostro paese, in particolare il PD, superata la fase della normalizzazione, che significò la partecipazione a tutti i conflitti suscitati dagli americani nel mondo e al rilancio di una nuova guerra fredda contro la Russia e la Cina, intendono ora perseguire la fase successiva, quella dell’omologazione e in modo tanto radicale e servile che si scontra, ormai apertamente, con la coscienza democratica del Paese.
Nella campagna referendaria in corso emergono due modi di sostenere le riforme costituzionali e la legge elettorale del Governo. Una è quella demagogica e populista del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che cavalca l’antipolitica, parla della necessità di snellire le procedure di governo contro il potere di invadenti corporazioni (sindacati, giornalisti, politici di mestiere, ecc.), che si gioverebbero di un regime parlamentare per impedire al governo di governare per far crescere il Paese. L’altra è quella del console americano in Italia, che non è solo un intervento indebito nelle questioni interne italiane[3], ma che esprime la predilezione dell’amministrazione statunitense per un sistema di governo simile a quello di un centro di comando militare pronto a eseguire gli ordini del quartier generale americano, come si conviene ad un Paese che ospita il maggior numero di bombe nucleari americane in Europa, disponibili all’uso 24 ore su 24[4]! Un centro di comando tutelato da leggi che ne garantiscano la sopravvivenza contro l’impopolarità dei suoi atti. Il console americano scopre il più importante obiettivo della “governabilità”!
All’origine della crisi della democrazia italiana
Quanto mai pregnante è l’osservazione di Domenico Losurdo sulla impossibilità di affrontare la realtà senza rispettarne l’unità: “Giudicare un paese (e il suo ordinamento politico) – egli dice[5] – facendo astrazione dalla sua politica internazionale e dalla sorte da esso riservata ai popoli coloniali o di origine coloniale, come ancora oggi continua a fare l’ideologia dominante, significa mutilare la realtà e non tener conto del grande detto di Hegel (ben noto a Marx e a Engels): «La verità è l’intero» ”. E, d’altronde, se si riflette sulla crisi della democrazia parlamentare in Italia, ci si accorge che essa accelera proprio a partire dai cosiddetti interventi umanitari e dalla guerra mai dichiarata contro la Serbia di Milosevic (riabilitato post morte da quel Tribunale Penale Internazionale sulla Yugoslavia che, in fin dei conti, è una creazione dell’imperialismo[6]). In quella precisa occasione, infatti, il Parlamento italiano fu esautorato con un colpo di mano, dalla competenza di dichiarare lo stato di guerra che gli assegna l’articolo 78 della Costituzione Italiana. Un escamotage per evitare il pericolo di una crisi di governo che è diventato il modus operandi normale per tutti i successivi governi, sicché l’Italia, pur partecipando alla distruzione di due paesi amici la Yugoslavia prima, la Libia poi (per citarne solo due), può ipocritamente sostenere che quelli furono semplicemente interventi umanitari, certamente non guerre perché non dichiarate (e, allo stesso titolo, può ora sbarcare contingenti militari in Libia).
Gli interessi del Parlamento italiano furono, allora, ridotti alle questioni meramente nazionali? Neppure a queste, se si considerano i diktat che subisce la politica economica e sociale da parte dell’Unione Europea. Al massimo il Parlamento è diventato una funzione di supporto alle politiche di governo che favorisce questa o quella articolazione di un capitalismo “domestico” i cui interessi puzzano spesso di malaffare, di collusioni mafiose e che, tuttavia, sollecita sempre nuove regalie dallo Stato.
Anche i principi dell’ONU vengono ormai bellamente disattesi e nessuno li ricorda in Parlamento. I nostri governi possono, quindi, intervenire negli affari interni di altre nazioni fomentando discordie interne per supportare con armi ed addestratori le fazioni, anche estremiste o terroriste, che svendono all’Occidente l’indipendenza del loro paese. Ma ciò non è sufficiente, la palude della politica nazionale non dà certezze assolute sulla tenuta di qualificanti maggioranze parlamentari, soprattutto dal punto di vista della continuità degli impegni internazionali del Paese e delle servitù militari e strategici degli Stati Uniti, quindi si interviene modificando la Costituzione e sacrificando il ruolo del Parlamento.
La crisi delle istituzioni rappresentative è un problema reale che non si risolve navigando a vista
La battaglia referendaria rimanda al declino delle istituzioni rappresentative. Il problema non è quello di sapere chi subentrerà a Renzi se, come ci si auspica, vincerà il NO al referendum d’autunno, ma se sarà ancora possibile ripristinare nel Parlamento l’esercizio delle funzioni legislativa e di controllo sugli atti del governo che gli competono. Non si può, ad esempio, non sottolineare la bassa levatura intellettuale e la mancanza di autorevolezza dei suoi componenti (effetto non secondario delle leggi elettorali maggioritarie) che, per quel che riguarda i partiti al governo, non sono capaci di riflettere sulla inefficacia di ogni “riforma” che hanno votato e varano proposte di modifica costituzionale illeggibili dal punto di vista lessicale; oppure, se appartengono agli schieramenti dell’opposizione, sono abili a dire mezze verità arrestandosi di fronte alla sensibilità di Hillary Clinton o del mainstream mediatico filo-atlantico. Poiché il ricordo rimanda ai Parlamenti in cui sedevano deputati e senatori comunisti, socialisti e dell’arco costituzionale, bisognerà partire, almeno, da una seria critica ai criteri di selezione di quelli attuali. Nei Parlamenti di un’epoca, che pare così lontana, c’erano donne ed uomini che, eredi della guerra di Liberazione, partecipavano alla lotta delle classi popolari e perciò, erano riconosciuti, quasi uno per uno, dalle “masse” alle quali fornivano gli indispensabili strumenti ideologici e politici per portare avanti la lotta generale di progresso ed emancipazione sociale garantita dalla Costituzione italiana. Ed entravano, così, in forte sintonia con le “masse”.
Anche questo è un nodo che la battaglia referendaria finisce per scoprire. Già l’asprezza dello scontro referendario fa maturare nuove e più vivaci personalità politiche nello spento panorama politico nazionale. È un inizio ancora debole ma positivo.
Matteo Renzi è isolato all’interno del Paese, all’interno del suo partito e in Europa. Se non lo ha già capito, dovrà presto accorgersi della solitudine che colpisce il leader di un gruppo di incapaci totalmente avulsi dagli interessi popolari e nazionali mentre l’establishment politico europeo che ha diretto la Controriforma liberale si sta inesorabilmente sfaldando assieme ai dogmi su cui ha basato la sua egemonia. Naviga a vista, senza bussola e carte nautiche, perciò è un pericolo per il Paese. Più che un modo per garantirsi una lunga vita da premier, la “deforma costituzionale” di Renzi (come, peraltro tutte le sue “riforme”) è un modo per prendere tempo sperando che il futuro gli sia propizio. Ma intanto, finisce per mettere il dito su una piaga potenzialmente letale che non si cura con leggi e modifiche costituzionali.
NOTE
[1] Sia in Francia che in Inghilterra i governi possono aggirare i pronunciamenti del Parlamento: nel 2013, interpretando l’opposizione popolare alla guerra, il Parlamento inglese votò contro ogni impegno militare della Gran Bretagna in Siria, ma l’Inghilterra continua le operazioni militari in quel paese; nel 2005, il Parlamento francese respinse la proposta di Costituzione europea, che però fu assunta nei trattati di Maastricht sottoscritti dal governo francese.
[2] Allora in regime monarchico-costituzionale e sotto la raccomandazione del capo di gabinetto, il re interveniva a dirimere le questioni e, se non vi riusciva (o per altri motivi meno nobili), sostituiva il governo con personalità del suo “entourage”.. Fino alla fine del predominio liberale, i governi cambiavano molto più frequentemente di quanto comunemente si pensa, perché si cercava di mantenere la continuità degli indirizzi politici con cui si era aperta la legislatura.
[3] Che il Presidente della Repubblica non lo condanna, ma ipocritamente, giustifica.
[4] Cfr. i documentati articoli di Manlio Dinucci su Pandoratv.it ed altrove
[5] Intervista rilasciata a Matteo Gargani “Una teoria generale del conflitto sociale” [www.filosofia-italiana.net].
[6] Oggi la Commissione Affari Esteri del Parlamento Britannico riabilita, sempre post morte, nel caso atroce, il colonnello Gheddafi!