di Domenico Moro, responsabile Progetto per la formazione di Marx XXI
L’articolo, che pubblichiamo con l’autorizzazione dell’autore, appare nel numero di “Marx XXI” rivista in corso di distribuzione
La nomina del governo Monti e, più in generale, il modo in cui l’Europa sta affrontando la crisi del debito rappresenta un passo avanti nella conclusione del tipo di governo affermatosi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Più correttamente, si potrebbe dire che la crisi del debito solleva il velo sulla natura reale della democrazia borghese, attiva le potenzialità negative insite nel nostro sistema istituzionale, e conduce agli estremi quelle tendenze autoritarie che sono presenti da molto tempo in Italia, nel resto d’Europa e nel cosiddetto Occidente.
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Capitalismo finanziario, di stato e multinazionale
Lo stato non è mai neutrale, è sempre lo stato della classe economicamente dominante. Questo principio è solo un punto di partenza, non potendo prescindere dall’individuazione del modo in cui lo Stato esercita la sua funzione né dalla forma che assume in un certo periodo e in un certo luogo. Forma e modo di funzionamento sono strettamente collegati al tipo di rapporti – di scambio e di forza (a tutti i livelli) tra le classi. Non potremmo, però, capire molto né di questi né dell’evoluzione dello Stato se non capissimo l’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Sebbene ci sia abbondanza di analisi ed interpretazioni della crisi in atto e soprattutto sulla crisi dell’euro, più rare sono le riflessioni sul collegamento tra questa crisi e le modificazioni di lungo periodo attraversate dal capitale. Di conseguenza, spesso le misure proposte – dall’acquisto diretto da parte della Bce di titoli statali europei, alla modifica del ruolo di quest’ultima in prestatore diretto di ultima istanza (sul modello Usa), alla definizione di bilanci e fiscalità veramente comuni fino al ripudio del debito – al di là della validità o meno di questa o quella per tamponare la crisi e stante la giustezza di far pagare il debito ai ricchi e al grande capitale, rimangono legate ad una prospettiva, seppure necessaria, però ancora limitata, difensivista. Soprattutto, sia rispetto all’imperialismo che allo Stato, a me sembra che, in linea di massima, continuiamo a ragionare e a comportarci sul piano politico come se fossimo sostanzialmente in fasi storiche precedenti a quella attuale.
Il modo di produzione capitalistico è arrivato, già tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, alla sua fase suprema, quella imperialista. Con suprema si è voluto intendere “ultima”, in realtà il significato più corretto è quello di fase o livello superiore, di maggiore sviluppo in senso capitalistico. Proprio per questo, sviluppo superiore non vuol dire che questo sviluppo non si evolva continuamente, come in effetti è accaduto. Giovanni Arrighi affrontò tale questione in The Geometry of Imperialim1, proprio partendo dal testo di Hobson sull’imperialismo, base anche per l’elaborazione leninista. Secondo Hobson, che scrive prima della Grande guerra, la forza dirigente dell’imperialismo era l’alta finanza, composta di gruppi capitalistici che investivano la liquidità in eccesso nelle colonie e nel debito statale. Caratteristica del capitalismo finanziario era la mobilità estrema dei capitali, determinata dalla forte mondializzazione raggiunta alla fine del XIX secolo, il periodo della belle époque. Con la Prima guerra mondiale la mondializzazione si interruppe e, al posto dell’alta finanza, presero il sopravvento le grandi imprese, favorite dalle enormi spese belliche. Nel trentennio tra la Prima e la Seconda guerra mondiale si sostituisce al capitalismo finanziario il capitalismo di Stato, che trova la sua forma più sviluppata in Germania ed in Italia. Il capitalismo monopolistico di Stato espresse un processo di integrazione tra capitale pubblico e privato, in cui è quest’ultimo il vero dominatore dell’economia nazionale2. Sia il capitalismo finanziario – l’alta finanza – che il capitalismo di Stato – basato sulle grandi imprese – si poggiavano sullo Stato-nazione, ma mentre il primo era per sua natura transnazionale il secondo era fondamentalmente nazionale. Anche in Usa, con il New Deal di Roosvelt, sembrò affermarsi il capitalismo di Stato. Lo stesso keynesimo, in effetti, assumeva alcune caratteristiche dell’imperialismo nazionalistico. Ma gli Usa presentavano già una differenza importante rispetto all’Europa. Le imprese Usa, operando nella vastità continentale del loro mercato domestico, acquisirono dimensioni e attitudine che le portarono a diventare imprese sovrannazionali, e ad orientarsi verso investimenti produttivi multinazionali. Al contrario, le imprese tedesche rimasero sostanzialmente nazionali, e l’imperialismo tedesco “funzionava interamente sul piano definito dall’espansione dello stato nazione.”3 Negli anni ’20 si ebbe una espansione degli investimenti Usa all’estero che però, a seguito della crisi degli anni ’30, dell’abolizione del golden standard e del protezionismo si interruppe. Con la fine della Seconda guerra mondiale, grazie anche all’affermazione dell’egemonia statale Usa, la spinta verso la transnazionalizzazione delle imprese americane riprese vigore, soprattutto in direzione dell’Europa. Gli investimenti diretti Usa all’estero passarono dai 7,2 miliardi di dollari del 1946 agli 86 miliardi del 1971. Il modello Usa cominciò ad imporsi così anche in Europa, grazie alla restaurazione della convertibilità, al progressivo superamento del capitalismo di stato e all’affermazione di mercati di dimensioni sufficienti ad affermare la produzione di massa e le tecniche di distribuzione già sperimentate dalle aziende giganti negli Usa.
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Impatto sullo Stato e sul lavoro salariato della transnazionalità
Il passaggio da capitalismo finanziario e capitalismo di stato a capitalismo multinazionale ebbe un profondo impatto sullo Stato. Secondo Baran e Sweezy: “Queste imprese giganti non sono più preoccupate di promuovere l’interesse nazionale dei paesi avanzati, inclusi quelli nei quali i loro quartier generali sono situati.”4 Secondo Arrighi, si realizza persino un <<conflitto di interesse>> tra le grandi compagnie multinazionali e gli stati-nazione. Dalla fine degli anni ’50 l’emigrazione delle corporazioni giganti aveva gettato in crisi la supremazia finanziaria degli Usa sull’Europa. Nel 1968 il presidente Usa Lindon Jhonson proibì i movimenti di capitali verso l’Europa continentale e i Paesi industrializzati. Questo, però, non bastò a comprimere l’autonomia delle transnazionali Usa e i profitti non rimpatriati causarono le pressioni speculative sul dollaro che avrebbero fatto esplodere il sistema monetario stabilito a Bretton Woods. Proprio a partire dal ’68 il capitale ha riaffermato il mercato come necessaria mediazione delle relazioni inter-statuali, realizzando una svolta di 180° rispetto agli anni ’30, quando ogni forma di circolazione internazionale di denaro, capitale, e merci richiedeva la mediazione delle relazioni inter-statuali, di norma bilaterali, cioè tra singoli Stati. Inoltre, sempre Arrighi sostiene che “il capitalismo finanziario e il capitalismo multinazionale sono concetti non solo distinti ma opposti”, distinguendosi, poi, soprattutto per il diverso rapporto con la divisione internazionale del lavoro. Il primo (l’alta finanza) doveva la sua esistenza alla divisione del mondo in entità separate, ognuna con la sua divisione del lavoro e influenzava la divisione del lavoro in modo indiretto attraverso il mercato e con la mediazione di relazioni inter-statuali. Il secondo influenza direttamente la divisione del lavoro, filtrando attraverso le frontiere territoriali e la divisione in stati e nazioni.
Questi movimenti hanno due importanti conseguenze. In primo luogo, comportano un processo contraddittorio in cui, da una parte, si manifesta la crisi dello Stato-nazione sia nella tendenza ad aggregazioni multinazionali o multistato (sul modello russo o Usa) sia nella tendenza alla decomposizione degli stati nazionali in entità regionali più o meno omogenee. Dall’altra, però, alcuni stati-nazione hanno tratto beneficio della nuova situazione, sfruttando la mediazione del mercato e adattandola alle loro necessità e rafforzandosi a spese degli altri: non solo gli Usa, ma anche la Germania e un gruppo di stati-nazione che ora cercano di soppiantare i vecchi colonizzatori occidentali (Cina, India, Sud Africa, Brasile). In secondo luogo, l’applicazione del modello Usa all’Europa porta ad una trasformazione nei rapporti di forza tra capitale e forza lavoro e alla modificazione nella composizione della classe lavoratrice. Infatti, a partire dal ’68, quello che Arrighi definisce il <<potere sociale>> della classe lavoratrice dei Paesi del centro capitalistico diventa incompatibile con lo sviluppo capitalistico. Attraverso la transnazionalità il capitale di ogni nazione tenta di aggirare, contenere e indebolire il <<potere sociale>> del lavoro del centro. La transnazionalità diventa così caratteristica comune dei Paesi occidentali a partire dalla fine degli anni ’80, portando alla concorrenza con gli Usa e a un sovraffollamento sul mercato mondiale delle grandi imprese. Speculazione finanziaria e riduzione dei costi sono il riflesso di questa situazione. Soprattutto la riduzione dei costi, che si attua con l’immissione massiccia di forza lavoro femminile e immigrata e con le delocalizzazioni. Entrambi questi fenomeni portano, secondo Arrighi, ad una modificazione interna alla classe lavoratrice. In sostanza, si ricrea un esercito industriale di riserva5 di ampie proporzioni e la riproposizione della miseria di massa nei Paesi del centro. Il che fa dire ad Arrighi che “le previsioni del Manifesto [del partito comunista] possono essere sul movimento operaio mondiale più rilevanti nei prossimi 50-60 anni di quanto lo siano state negli ultimi 90-100 anni.”6
Quanto sta accadendo oggi all’Europa è la conseguenza di questa linea di sviluppo durata decenni e che si è manifestata anticipatamente negli Usa. In un mio precedente articolo7 facevo notare come l’esportazione di capitali avvenisse in modo diverso all’inizio del XX secolo rispetto agli ultimi venti anni, cioè allora verso investimenti infrastrutturali nelle colonie dei singoli stati, ed ora verso gli investimenti produttivi nella manifattura in tutto il mondo. Lo spostamento crescente della produzione e la deindustrializzazione relativa dei Paesi centrali riduce la crescita del Pil, produce uno squilibrio crescente nella bilancia commerciale e delle partite correnti, e aumenta le uscite dello stato, riducendone le entrate. Senza contare che il debito sovrano diventa strumento per attirare capitali stranieri in una situazione in cui l’afflusso di capitali produttivi dall’estero non compensa il deflusso di capitali verso l’estero, determinando un deficit anche di parte finanziaria nelle partite con l’estero. In sintesi, lo spostamento della produzione verso la periferia crea nel centro debiti e deficit pubblici sempre maggiori – in assoluto e in percentuale sul Pil – e rende più difficile rifinanziarli. Il ruolo dello Stato-nazione, quindi, sembrerebbe indebolirsi a causa della transnazionalizzazione del capitale. Fra l’altro, il capitale tende alla costruzione di livelli sovrannazionali europei, cui sono trasferite alcune funzioni e prerogative dello Stato-nazione. Allo stesso tempo, però, il capitale impone allo Stato-nazione di rientrare in gioco per assumersi il peso degli oneri causati dalla crisi del capitale stesso, accentuando le funzioni di sostegno all’accumulazione. Senza contare il rafforzamento dello Stato-nazione sul piano del controllo sociale e dell’esercizio della forza all’interno e all’esterno, sotto forma di guerre ricorrenti. La risultante è un movimento contraddittorio caratterizzato da spinte in direzioni diverse, tutte, però, determinate e funzionali al capitale. Il carattere dominante di questo movimento è, comunque, univoco: il rafforzamento del ruolo di classe dello Stato.
Ci sarà un collasso della Ue e dell’area euro? La transnazionalizzazione rende necessari sia la Ue che l’euro al capitale multinazionale europeo. Il modo in cui è stata realizzata l’unione valutaria – senza una vera unità di bilancio e statuale – crea contraddizioni molto forti, che mettono oggettivamente a dura prova Ue ed euro, soprattutto l’euro, come abbiamo osservato in più occasioni. Al tempo stesso entrambe le costruzioni sono la conseguenza del processo che abbiamo descritto. È vero che la Germania è proiettata a livello mondiale, in Cina e nelle Americhe, grazie ad aziende sempre più transnazionali e grazie alla maggiore produttività e alla migliore organizzazione commerciale. Ma è altrettanto vero che la sua capacità di reggere, nella fase storica che si è ormai aperta, la concorrenza di colossi continentali – Usa, Cina, Brasile, India – riposa soprattutto sull’ampiezza del suo retroterra domestico, che non è da identificare con il mercato e la base produttiva tedeschi, ma con quelli dell’Europa occidentale. Non a caso una parte consistente del capitale tedesco, in particolare il settore automobilistico, è preoccupata per l’eventuale fine dell’euro e non vede di buon occhio un euro nordico8. La base di una potenza mondiale deve essere sufficientemente ampia – come dimostrano i fallimenti della Germania nell’assalto al potere mondiale nella prima metà del XX secolo9 – e solo l’Europa occidentale continentale si presta a questo scopo. Semmai, questa base va coordinata e subordinata alle esigenze tedesche. Però, l’egemonia tedesca nei confronti delle altre frazioni della borghesia e del capitale europei potrebbe funzionare solo in senso <<gramsciano>>, cioè come capacità della Germania di prospettare agli altri imperialismi un assetto adeguato allo scontro mondiale in atto. Per queste frazioni la Germania sarebbe il nocciolo duro cui agganciarsi in una fase di mondializzazione, in cui il potere economico e politico di stati imperialisti quali Francia, Italia, Spagna, Belgio è drasticamente ridimensionato. La fine dell’euro e del mercato europeo metterebbe questi Stati e le frazioni del capitale che vi hanno base in una situazione ancora più difficile. Sebbene sia sempre possibile un crollo della moneta unica per le sue contraddizioni interne, è improbabile un abbandono spontaneo dell’euro. Il punto, per il capitale europeo, non è se stare o meno nell’alleanza con la Germania o nel sistema euro, il punto è come starci, cioè quale posizione gerarchica occupare e quale grado di potere e autonomia riuscire a spuntare nella negoziazione con la potenza tedesca. Dunque, siamo di fronte a una lotta che si svolge a vari livelli, in cui l’alleato in un livello diventa concorrente e finanche avversario in un livello diverso. Il primo livello oppone l’Occidente (Usa e Ue), cioè il centro del sistema economico mondiale, alla periferia degli emergenti, il secondo oppone l’Area euro agli Usa, e l’ultimo vede l’accendersi della conflittualità all’interno dell’Area euro stessa. In realtà, il quadro è ancora più complesso perché, ad esempio in Europa, il fronte filo-americano non è così nettamente differenziato da quello filo-euro. In aggiunta, si giocano altri conflitti all’interno dei singoli stati-nazione. Conflitti fra classi, e fra settori delle stesse classi. Quindi, nei singoli stati si determina un processo contraddittorio che è a un tempo di crescente lotta interna e di tendenza al compattamento in faccia al <<nemico>> esterno. Oggi, in particolare, è quest’ultima a predominare, nella forma di tendenza al governo di emergenza nazionale, all’<<unione sacra>>. Come in tempo di guerra, assimilato, come vedremo, al tempo di crisi economica. Del resto, crisi strutturale e guerra fredda e calda, interna ed esterna, sono da sempre strettamente intrecciati nella storia europea.
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Dalla “lotta di classe democratica” allo stato d’eccezione
L’elemento più importante è il fatto che muta il terreno in cui si svolge la lotta di classe. Muta a livello economico, politico e istituzionale. Nell’analisi di Marx l’accumulazione capitalistica, mediante la sostituzione di forza lavoro con macchine e tecnologia, crea una sovrappopolazione relativa di lavoratori, che produce un esercito industriale di riserva10. Tale esercito di riserva serve a mantenere bassi i salari, costringere al lavoro straordinario e, di conseguenza, a mantenere alti i profitti. In effetti, la creazione di una sovrappopolazione relativa è considerata da Marx uno dei fattori più importanti di contrasto della caduta del saggio di profitto, che, proprio grazie a questi, ha carattere tendenziale. La legge generale dell’accumulazione, che Marx deriva dalla sovrappopolazione relativa, dice che accanto all’accumulazione di ricchezza si ha una parallela e proporzionale accumulazione di povertà. L’ideale per il capitale è disporre di working poor, poveri che lavorano, disponibili ad accettare i salari stabiliti dal capitale. In realtà, lo stesso Marx dice che la lotta operaia conferisce a questa legge un carattere tendenziale. Infatti, l’aumento della produttività può tradursi, in caso di una forte opposizione operaia, invece che in esercito industriale di riserva, in riduzione dell’orario di lavoro e/o in aumento dei salari reali, anche in caso di diminuzione del salario relativo, cioè di aumento del divario tra salari e profitti. Altri fattori che hanno ridotto l’efficacia della legge generale sono stati la suddivisione tra centro e periferia del sistema imperialista e il colonialismo, che hanno svolto il ruolo di alimentare quella che Lenin chiamava <<aristocrazia operaia>>. La vittoria del socialismo in Urss ha svolto un ruolo aggiuntivo, rafforzando la tendenza al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori del centro capitalistico, specie in Europa, in modo da togliere spinta ad eventuali emulazioni rivoluzionarie. Nella fase post Seconda guerra mondiale lo sviluppo del welfare state ha così attutito fortemente la capacità delle continue ristrutturazioni, seguite alle crisi, di comprimere il salario. L’aggravarsi della tendenza alla caduta del saggio di profitto ha, però, spinto il capitale a riattivare la legge generale dell’accumulazione. Cosa che, però, non sarebbe stata possibile senza due fattori intervenuti nel frattempo e collegati tra di loro: la creazione del mercato mondiale e il crollo dell’Urss. Il processo non si è ancora completato, perché non è facile nel giro di due decenni modificare quello che si è sedimentato in oltre 80 anni di lotte. Le crisi del debito sovrano e dell’euro sono viste dal capitale come l’occasione giusta per dare un’altra spallata al welfare e alla residua regolamentazione del mercato del lavoro. Significativa è la motivazione di rompere la distinzione tra <<privilegiati>>, con contratti a tempo indeterminato, e precari. Infatti, “Nella visione di Marx esercito attivo e di riserva sono costituiti dalle stesse persone, che si assumeva passassero continuativamente dall’uno all’altro.”11 Per l’accumulazione di capitale è essenziale ristabilire pienamente questo meccanismo, non solo per contrastare la caduta del saggio di profitto, ma anche perché l’andamento del mercato è ciclico e il capitale vuole poter essere libero di assumere e dismettere forza lavoro a seconda delle necessità produttive. Facendo un ragionamento di più lungo periodo possiamo dire che nel periodo tra 189612 e 1948 la condizione dei lavoratori in Europa Occidentale vide un ampliamento dei salari reali e del potere sociale dei lavoratori. Nei decenni successivi al 1948 il proletariato industriale statunitense ed europeo occidentale conobbe un benessere economico senza pari. Secondo Arrighi questa fu la base sociale dell’affermazione in Europa occidentale della posizione del revisionista Bernstein, cioè socialdemocratica, di legarsi ai settori più forti della classe lavoratrice. Tale posizione si concretizzava nella prodigiosa espansione del potere dei rappresentanti del proletariato industriale nel contesto, però, della quasi scomparsa di una vocazione autonoma del proletariato stesso, cioè di una aspirazione alla conquista del potere statale. Viceversa la posizione comunista di Lenin si affermò maggiormente e con più successo nella periferia, dove l’accumulazione capitalistica continuava a produrre povertà. Come abbiamo detto, questo contesto si è andato e sta andando modificandosi velocemente, riaffermando la povertà non solo relativa ma anche assoluta e di massa, sebbene in modo molto differenziato, nei vari centri del capitalismo mondiale. Quello che appare chiaro è che i partiti ed i sindacati di sinistra sono in crisi dovunque in Occidente13, perché non riescono ad arrestare la crescita della miseria e troppo spesso operano come se si stesse ancora nella fase storica precedente. Del resto, non è facile, pur essendo necessario, liberarsi di ideologie, tattiche e approcci politici e istituzionali maturati nel corso di un secolo ed ormai inadeguati.
Quella in atto è una aggressione frontale alla classe lavoratrice, mediante un attacco al salario diretto, indiretto, e differito. In questo quadro deve mutare anche la cornice istituzionale e politica, la forma statuale, se non formalmente almeno sostanzialmente. Dalla fine dell’800, e, in modo più esteso, nell’Europa occidentale post Seconda guerra mondiale, si era affermata nel capitalismo maturo quella che è stata chiamata la <<lotta di classe democratica>>: “Il conflitto tra borghesia e lavoratori si civilizza: perde le forme drammatiche e violente della rivoluzione e della reazione controrivoluzionaria, per assumere le forme pacifiche e regolate dalla legge del confronto elettorale e parlamentare tra partiti politici che esprimono gli interessi delle classi in conflitto.”14 Si tratta di un quadro abbastanza idillico che solo a fatica può essere adattato alla realtà storica, visto che i fenomeni di sospensione della lotta di classe democratica e il passaggio ad altre forme più violente è avvenuto, ad esempio, negli anni ’20 e ’30. Ma non vanno sottaciuti neanche episodi come la <<strategia della tensione>> nel secondo dopoguerra in Italia, e il golpe gaullista del ’6115, per limitarci all’Europa occidentale. In pratica, ogni qualvolta la classe lavoratrice dava l’impressione di poter o voler contare qualcosa, la democrazia veniva sospesa con grande disinvoltura, e non da forze estranee al sistema istituzionale, bensì proprio dal capo dello stato stesso. Fu il re d’Italia a permettere a Mussolini di prendere il potere e fu sempre lui ad estrometterlo. L’ascesa di Hitler in Germania non sarebbe stata possibile se la Germania non si fosse trovata da quasi tre anni in regime di <<dittatura del presidente>> della Repubblica, von Hindenburg. Né in Italia né in Germania, in seguito alla vittoria fascista, le rispettive Costituzioni vennero abolite, se non solamente dopo un certo periodo di tempo, continuando a rimanere formalmente in vigore, in una situazione che le contraddiceva radicalmente. Qual era la giustificazione dello stato di eccezione e della sospensione della Costituzione? L’esistenza di una situazione di emergenza, di pericolo nazionale. In questa situazione deve intervenire un commissario, in base a quella che Carl Schmidt, già presidente dei giuristi nazisti, chiama dittatura commissaria, distinguendola dalla dittatura sovrana (dittatura del proletariato)16. La differenza starebbe nel fatto che la prima difenderebbe la costituzione e la seconda la abolirebbe per affermarne un’altra. Secondo Giorgio Agamben, che alla questione dello stato d’eccezione ha dedicato un agile ed utile libro17, la dittatura commissaria non può, però, essere paragonata all’istituto della dittatura esistente a Roma, che era una magistratura, prevista dalle leggi repubblicane. La dittatura commissaria è, invece, non è prevista dalle leggi. In effetti, anche se De Gaulle nel 1961 fece ricorso all’articolo 16 della Costituzione, che stabiliva che il Presidente potesse prendere misure d’emergenza necessarie, e i governi di Weimar fecero riferimento all’articolo 48, proclamando lo stato d’eccezione ed emanando decreti d’urgenza in 250 occasioni, “la dichiarazione dello stato d’eccezione viene sostituita da una generalizzazione senza precedenti del paradigma della sicurezza come tecnica normale di governo.”18 In questa tendenza l’esecutivo – governo e presidente della Repubblica – assumono un potere ed una preminenza sempre maggiore nei confronti dei parlamenti, il cui ruolo declina in tutti i Paesi avanzati proprio negli ultimi decenni. Il decreto legge, ad esempio in Italia, si è affermato come preminente strumento di legislazione e, secondo Agamben, “il parlamento si limita a ratificare i decreti emanati dal potere esecutivo. In senso tecnico, la Repubblica non è più Parlamentare ma governamentale.”19 Inoltre, lo stato d’eccezione, che trae origine dallo stato d’assedio in tempo di guerra, nell’epoca contemporanea tende “a far coincidere emergenza politico-militare con la crisi economica.”20, stabilendo “una implicita assimilazione fra guerra ed economia.”21 Lo stesso New Deal fu realizzato attraverso la delega di poteri straordinari a Roosvelt, che, nell’assumere il suo incarico nella lotta contro la crisi del ’29, fece largo uso di un linguaggio da emergenza bellica.
Nella nomina di Monti a Presidente del Consiglio dei ministri, si riscontrano molte analogie con quanto illustrato da Agamben. In primo luogo, la nomina di Monti sospende il normale funzionamento della democrazia borghese formale. Monti non è eletto da nessuno, è nominato dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Viene preso dal mondo della tecnocrazia, e la sua nomina a senatore poco prima del varo del governo è una foglia di fico che non vale a nascondere la sua nomina irregolare. Del resto, la definizione che si attaglia maggiormente al governo Monti non è quella di governo tecnico, ma di governo del Presidente. Il dominus della situazione è Napolitano. L’uomo del Colle, sin dall’inizio del 2011, ha progressivamente accentuato il suo protagonismo. Mentre la figura del Presidente del Consiglio diventava sempre più evanescente, quella del Presidente della Repubblica assumeva contorni sempre più profilati. Napolitano ha determinato la partecipazione italiana alla guerra Nato contro la Libia, a dispetto del trattato Italia-Libia, e che Berlusconi era riluttante a fare. Ha sollecitato l’accordo tra sindacati e Confindustria. Ha assunto un ruolo sempre più esecutivo, anzi il ruolo esecutivo. È come se l’Italia fosse passata – ed è effettivamente passata – dalla forma, stabilita dalla Costituzione, di governo repubblicano-parlamentare ad una forma semipresidenziale o addirittura presidenziale. A dirlo non siamo noi, bensì La Stampa in un editoriale di Gian Enrico Rusconi: “L’espressione di <<governo del Presidente>>, certamente estranea al linguaggio dei costituenti, rispecchia questa nuova situazione, che potrebbe rivelarsi come una risorsa per la Repubblica, sin qui non valorizzata. Un esecutivo che governa e un Parlamento che vigila sembrano quasi alludere ad un semipresidenzialismo.”22 L’azione di Napolitano è al di fuori della forma e della sostanza della Costituzione. Il Titolo II della Costituzione ed in particolare gli articoli 87 e 88, che regolano le funzioni del Presidente, non prevedono nulla di ciò che è stato fatto. Il presidente non ha la facoltà di nominare chicchessia a suo piacimento al governo, bensì ha la facoltà di sciogliere le Camere e di indire nuove elezioni. Ha un ruolo di controllo e garanzia della Costituzione, non esecutivo. L’anomalia della situazione è risultata chiara anche a quei mass media, come il confindustriale Sole24ore, che pure chiedevano da tempo a gran voce una soluzione <<tecnica>>, e che si sono affrettati a trovare giustificazioni all’azione del Presidente della Repubblica. Clementi sostiene che l’azione del Presidente sarebbe conforme alla Costituzione, perché coerente con le modifiche in senso bipolare dell’ordinamento della forma di governo, che favoriscono, in caso di necessità, una pratica bipartisan fra gli schieramenti politici23. Parole che, semmai, rivelano quanto il bipolarismo sia in conflitto con la Costituzione. Roberto D’Alimonte si spinge ancora più avanti: “In realtà i sostenitori della presunta illegittimità democratica del governo Monti confondono la sospensione della democrazia con la sospensione della competizione. La competizione tra partiti e tra schieramenti è una modalità del funzionamento della democrazia ma non è la democrazia.”24 Così, in un sol colpo, D’Alimonte si rimangia quanto ci era stato predicato per decenni, soprattutto in contrapposizione ai Paesi socialisti, e cioè che l’anima della democrazia era la competizione tra partiti. Senza contare che la concezione di D’Alimonte è in palese contrasto con l’articolo 49 della Costituzione, che definisce come centrale il ruolo dei partiti. Malgrado tutto questo, a sinistra quasi nessuno si è permesso di criticare il Presidente della Repubblica. Se tutto questo fosse venuto da un presidente vicino a Berlusconi sarebbe stato lo stesso?
Quella a cui assistiamo è l’<<apocalisse>> della democrazia. Sia nell’accezione di <<rivelazione>> di cosa stia dietro la democrazia borghese, sia in quella figurata di <<distruzione>> della democrazia stessa. Il governo Monti è un governo di classe in forma pura, richiesto a gran voce dai centri del grande capitale italiano, molto prima che dall’Europa, con l’annullamento delle mediazioni di classe. Il governo tecnico serve a fare ciò che nessuno schieramento o partito può permettersi di fare, perché significherebbe pagare un forte scotto alle prossime elezioni. Quindi, meglio sospendere la democrazia e i partiti stessi. Magari per recuperarli più avanti, pronti ad essere riutilizzati. Ma così, sospendendo la democrazia, si rivela il potere del capitale sulla società. Si rivela quello che Marx diceva del sistema politico della società divisa in classi, cioè essere sempre la dittatura della classe economicamente dominante. Quello che è accaduto con il governo Monti ha una importanza che va al di là del contingente. Sebbene negli ultimi decenni forme di stato d’eccezione come i decreti legge si siano affermate nella pratica corrente, mai si era verificata una accelerazione di questo tipo. Il fatto è che la fase è cambiata. In effetti, il governo dello stato di eccezione è sempre un governo di guerra. E oggi è in atto una guerra vera e propria contro i lavoratori, cui si aggiungono guerre esterne sempre più frequenti e violente, come dimostra la vicenda della Libia. In ogni caso la “lotta di classe democratica” è finita. Il punto è che con essa è finita la tattica e la strategia che i lavoratori e la sinistra avevano definito e seguito per decenni. L’appello continuo alla difesa della Costituzione, allo stesso modo della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, assomiglia sempre di più alla situazione di una guarnigione che si rinserri nel suo castello, mentre l’esercito nemico è libero di devastare e saccheggiare le campagne intorno. Anzi, mentre il nemico è già all’interno della prima cerchia delle mura e i difensori si rifugiano nel mastio. Questo, ovviamente, non significa che la difesa della Costituzione e dell’articolo 18 debbano essere abbandonate. Tutt’altro. Significa che il contesto è cambiato e non possiamo più continuare a giocare solo in difesa. Significa che limitare al berlusconismo il pericolo per la democrazia in Italia vuol dire avere una visione parziale delle dinamiche in gioco. L’opposizione al <<cavaliere>> di tanta parte del grande capitale italiano e dei quotidiani ad esso legati – dal Sole24ore al Corriere della Sera, alla Stampa e alla Repubblica – va vista in chiave di competizione tra frazioni interne al capitale italiano. Inoltre, il Pd ed i suoi antecedenti sono pienamente responsabili del progressivo smantellamento della democrazia dei padri costituenti, a partire dal referendum sul maggioritario di 21 anni fa. Così come sono responsabili di aver sempre offerto scappatoie a Berlusconi, proprio in ottemperanza di un bipolarismo, ritenuto la <<linea del Piave>> da difendere ad ogni costo. Evidentemente perché utile a eliminare chiunque si ponga alla propria sinistra. Oggi, Pdl e Pd, oltre a stare nella medesima maggioranza parlamentare a sostegno di Monti, sono anche promotori di una proposta di legge bipartisan di riforma dei regolamenti parlamentari, che rafforzerà il potere del governo proprio per quanto riguarda la decretazione d’urgenza25. Se è vero che il sistema elettorale pone dei vincoli stretti alla sinistra di classe è, però, altrettanto vero che oggi i margini di mediazione, all’interno del sistema, sono gravemente compromessi ed il quadro in cui si esercitava il <<potere politico>> della classe lavoratrice nel dopoguerra è semidistrutto. Non tenerne conto può portare al dissolvimento in maniera non molto diversa dagli esiti della legge elettorale. Al contrario, la nuova fase storica che si è aperta determina la possibilità e la necessità di riprendere la pratica dell’autonomia di classe. Neanche una realistica politica delle alleanze può prescinderne, risultandone anzi rafforzata.
Domenico Moro
2 Cfr. G. Amendola, Saggio introduttivo, in P. Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, Mazzotta, Milano 1975.
4 P. A. Baran and P. M. Sweezy, ‘Notes on the Theory of Imperialism’, cit. in G. Arrighi, op. cit., pag. 137.
6 G. Arrighi, “Marxist Century, American Century: The making and remaking of the world labour movement”, New Left review I/179, January-February 1990. Traduzione italiana in Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, manifestolibri, Roma 2010, pag. 95.
7 D. Moro, Le cause del debito europeo e il che fare, “Marx ventuno”, n.5 2011 – anno XIX. Vedi anche D. Moro, Non solo debito, “il manifesto”, 28 dicembre 2011.
8 “Proprio l’avvento della valuta comune è tra i fattori che hanno permesso negli ultimi dieci anni a Volkswagen, Bmw, e Daimler di mettere alle corde la concorrenza del Sud Europa e di respingere quella asiatica.” In A. Malan, All’auto made in Germany piace l’euro, “Il Sole24 ore”, 6 gennaio 2012.
9 “… la sconfitta tedesca (…) era l’inevitabile risultato di aver voluto combattere una guerra globale senza essere una potenza globale.” N. Ferguson, Impero, Mondadori, Milano 2009, p.257.
10 K. Marx, Il capitale, Libro I, capitolo XXIII. “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”. Newton Compton, Roma 1996.
12 Il 1896 è l’anno della fine della grande crisi del 1873-1896. La fine della crisi diede luogo ad un nuovo periodo di espansione del capitale, al fenomeno dell’imperialismo e vide anche l’affermazione della socialdemocrazia e dei sindacati, soprattutto in Germania.
13 Il numero degli iscritti non solo ai partiti ma anche ai sindacati si riduce drasticamente negli ultimi 20 anni. Fanno eccezione la Svezia e i paesi scandinavi, dove il sindacato gestisce pezzi del welfare. In Italia si passa da un tasso di sindacalizzazione del 49,6% nel 1980 al 33,7% nel 2003. Cfr. Paolo Feltrin, Il sindacato tra arene politiche e arene delle relazioni industriali: equilibri instabili o sabbie mobili?, “Quaderni di rassegna sindacale”, n.4 – 2006.
14 G. Ballarino, H. Schaedee, e C. Vezzoni, Classe sociale e voto in Italia, 1972-2006, “Rivista italiana di scienza politica”, n. 2 agosto 2009, p. 263.
15 “… il presidente della repubblica Coty fa sapere di essersi rivolto attraverso i presidenti delle due Camere a De Gaulle per chiedergli la disponibilità a formare un nuovo governo. In un messaggio alle Camere il presidente si giustifica: “Debbo forse rinunciare a fare appello all’uomo la cui incomparabile integrità morale può assicurare la salvezza della Patria?”. In L. Canfora, La Democrazia, storia di una ideologia, Laterza, Bari 2006, p. 307.
22 G. E. Rusconi, L’incognita del consenso contrattato, “La Stampa”, 19 novembre 2011. Il corsivo è mio.
24 R. D’Alimonte, Ora sacrifici bipartisan, “Il Sole24ore”, 17 novembre 2011. Il corsivo nel virgolettato è mio.
25 La proposta di riforma dei regolamenti parlamentari ha come primi firmatari i senatori Quagliariello (Pdl) e Zanda (Pd). Prevede un iter rapido di 30 giorni per i provvedimenti dichiarati urgenti, la “blindatura” della Legge di stabilità (ex finanziaria) con tetto agli emendamenti e divieto di introdurre materie nuove nel corso del dibattito in Parlamento.