Contro l’antipolitica per salvare la democrazia

di Francesco Francescaglia, responsabile organizzazione PdCI

camera-w300I progetti di riforme istituzionali ed elettorali di cui si discute in questi giorni sono pericolosissimi, perché vanno nel senso di una democrazia sempre più plebiscitaria e populista. Sono venduti agli italiani come il modo per ridurre i costi della politica e reintrodurre il potere di scegliere i propri rappresentanti, ma in realtà su questi due temi non c’è nulla. Usano il grimaldello dell’antipolitica per scardinare un sistema e produrne uno nuovo ancor più funzionale ai loro interessi. L’antipolitica, però, è sempre di destra: produce populismi e invoca il salvatore della patria. Il PD deve sapere che gioca con il fuoco. Noi diciamo che dietro il termine riforme si nasconde ormai da decenni lo smantellamento dei diritti del lavoro e dello stato sociale. Non sono riforme, ossia aumento progressivo dei diritti. Sono l’esatto contrario.

Lo stesso vale per le riforme istituzionali. Non servono per osare più democrazia, ma per comprimerla, ridurla e andare verso la personalizzazione, la spettacolarizzazione e il populismo. I comunisti in Italia hanno sempre difeso il carattere parlamentare della nostra Repubblica. E con esso il ruolo dei partiti come “democrazia che si organizza”. Contro, dunque, ogni ipotesi presidenzialista, che sottende il superamento della forma partito con quella leaderistica. Del resto l’Italia è avvezza all’uomo forte che salva la Patria. Dopo Mussolini e il fascismo imparammo la lezione: la nostra Costituzione fa di tutto per non riprodurre nella sostanza, oltre che nella forma, ogni accentramento di potere nelle mani di una sola persona per conferirlo, invece, ad organi collegiali, con un sistema di bilanciamenti, di pesi e contrappesi.
 

La crisi della politica ha prodotto Craxi, Berlusconi e i governi apparentemente a-politici dei tecnici. Non solo Monti: negli ultimi vent’anni tutti i governi – tranne uno: quello D’Alema – erano o sono stati spacciati come governi tecnici (Amato, Ciampi, Dini), o come governi di uomini fuori dai partiti (Prodi e Berlusconi). La seconda repubblica, dunque, è la repubblica della crisi della politica. Bisogna vedere se la terza sarà quella della fine definitiva della politica o, come noi auspichiamo, di una ripresa del valore forte della politica.
 

Ci dicono che il presidente del consiglio deve avere più poteri. Che bisogna porre l’accento sui poteri decisionali del governo, piuttosto che su quelli legislativi e democratici delle assemblee elettive. E molti anni di disastrose riforme negli enti locali (elezione diretta di sindaci e presidenti di provincia e di regione, svuotamento delle funzioni dei consigli, nomina diretta degli assessori…) hanno contribuito a cambiare la cultura del nostro paese. Per fare cosa? Per non avere impedimenti, lentezze e rotture di scatole. Da parte di chi? È ovvio, della politica critica, del conflitto, dei cittadini che si organizzano, del dissenso e della partecipazione diretta. E poter, dunque, procedere speditamente nell’attuare politiche neoliberiste e antisociali. Le riforme istituzionali non servono a null’altro che a questo. Per poterle fare c’è bisogno di una spinta forte che venga dal basso. Non c’è nulla di meglio che l’antipolitica per raggiungere l’obiettivo. Sarà mica un caso che a soffiare sul fuoco dell’antipolitica è il maggior quotidiano del conservatorismo, il Corriere della Sera? No, non è un caso. L’antipolitica serve alla classe dirigente (casta) per fare quello che non potrebbe fare: darsi più poteri. Il populismo è sempre di destra. E l’antipolitica è populismo all’ennesima potenza. In questi giorni il parlamento discute di questo: calo del numero dei parlamentari, bicameralismo non più perfetto, sfiducia costruttiva, poteri del capo del governo.

Il calo del numero dei parlamentari è una cosa inutile e demagogica. O meglio utile a ridurre il peso delle forze più piccole aumentando di fatto le soglie di sbarramento (proprio come è stato fatto nei comuni e nelle provincie, dove per eleggere, nei comuni più piccoli serve il 6-7%). Si vuole risparmiare? Benissimo, invece di dimezzare i parlamentari si proceda a dimezzare il loro stipendio (nel caso degli enti locali il risparmio è stato sostanzialmente nullo). Le altre ipotesi vanno tutte nella direzione di un rafforzamento dei poteri del Presidente del consiglio, verso uno pseudo presidenzialismo o un cancellierato alla tedesca. E noi dobbiamo batterci contro ogni ipotesi che comprime la collegialità e rafforza i poteri dei singoli
alterando gli equilibri non a caso sanciti dalla Costituzione.
 

Alle riforme istituzionali si accompagna l’idea di modificare la legge elettorale. Modificare il porcellum è un dovere. L’attuale legge ha due aspetti pessimi. Uno è notorio: produce il cosiddetto parlamento dei nominati. L’altro – assai meno dibattuto – è che il porcellum è una vera e propria legge truffa. Anzi, peggiore della legge truffa del ’53. Allora il meccanismo era di riconoscere il 65% dei seggi alla lista che avesse superato il 50% dei voti. Era un premio di maggioranza riconosciuto a chi riusciva comunque ad ottenere la maggioranza assoluta. Com’è noto il meccanismo non scattò (per soli 54.000 voti) e la legge fu poi abrogata. Il porcellum, invece, ha un premio di maggioranza per la coalizione o la lista che ottiene la maggioranza relativa. Vengono, infatti, riconosciuti 340 seggi (il 55% del totale) a chi ottiene un voto in più di qualsiasi altra coalizione o lista. Non c’è soglia da superare per ottenere il premio, basta la maggioranza relativa. Una legge truffa al cubo. Il porcellum, contrariamente a quanto comunemente si pensa, è una legge proporzionale, solo che ha un correttivo maggioritario che è una truffa. Basterebbe eliminare quel meccanismo per avere una legge proporzionale pura e per ridare ai cittadini il pieno potere di scegliersi gli eletti. Il proporzionale è l’unico meccanismo che garantisce la pienezza del dettato costituzionale del voto “uguale” sancito dall’art. 48. Il maggioritario, infatti, è un meccanismo ancora più truffaldino di quello del porcellum e che, inoltre, riduce ancora di più la possibilità per l’elettore di scegliere il proprio rappresentante rispetto alla legge attuale. Con il maggioritario, infatti, può accadere (nel caso ipotetico di voto uniforme sul territorio) che chi ha il 51% dei voti, ottenendo questo risultato in tutti i collegi, elegga tutti i deputati. Oppure (nel caso più probabile di voto non uniforme nel territorio) può succedere che chi ha più voti a livello nazionale non riesca ad ottenere la maggioranza dei seggi. Quindi il maggioritario non può garantire che chi prende più voti elegge più deputati. E questo è il contrario della democrazia. Inoltre il maggioritario non dà più scelta all’elettore, che è costretto a votare, sostanzialmente, tra due candidati decisi dalle segreterie dei partiti (e da chi altri sennò?). C’è addirittura meno scelta dell’attuale porcellum!
 

Dal punto di vista della “democrazia dei numeri” ogni sistema maggioritario è meno democratico del proporzionale, che è l’unico sistema che garantisce la piena corrispondenza tra voti ed eletti.
 

Poi c’è la sostanza della politica, l’unica che viene tenuta in considerazione da quando in Italia lo sport preferito è modificare le leggi elettorali. Il ragionamento per scardinare il proporzionale è: garantire la governabilità riducendo la frammentazione. Un falso storico. Nella prima repubblica i governi cadevano prevalentemente per problemi interni alla DC e la frammentazione delle correnti interne di partito non si può eliminare con una legge elettorale. Nella seconda repubblica si è votato con il Mattarellum (maggioritario) tre volte (1994, 1996, 2001). La governabilità non ne ha tratto benefici: nel primo caso la legislatura si chiuse addirittura con elezioni anticipate. Nel secondo caso ci fu la caduta del governo Prodi. E nel terzo caso in pochi si ricordano ci fu la crisi del Berlusconi II e la nascita del Berlusconi III dopo l’uscita dalla maggioranza dell’UDC.
 

Anche le ipotesi che stanno discutendo ora vanno nella direzione di più maggioritario (anche se fanno finta che è il contrario). E noi, invece, dobbiamo sostenere ogni ipotesi che produce più proporzionale. Anche perché in molti paesi dove vige il proporzionale si sono prodotti i migliori sistemi di welfare state, come ad esempio nei paesi scandinavi. Anche in Italia il proporzionale ha favorito la creazione di un forte stato sociale. Mentre il modello maggioritario anglosassone a comportato lo smantellamento dello stato sociale. È ovvio che c’è una correlazione stretta tra sistema elettorale e modello sociale. È chiarissimo che negli Stati Uniti l’impossibilità di fare la riforma della sanità, ad esempio, derivi anche dal fatto che il maggioritario esclude dalla rappresentanza i neri e gli strati più poveri della popolazione. Quindi: più proporzionale per avere più diritti e più stato sociale.
 

In Italia la frammentazione politica è un dato di fatto acquisito storicamente. Ciò ha reso la vita difficile alla governabilità? Certo che si, ma non ha mai impedito, qualora ve ne sia stata la volontà politica, di approvare leggi importanti sia nel senso riformatore che in quello conservatore.

Pensare di eliminare la frammentazione politica per legge produce fenomeni antidemocratici. Facciamo alcuni esempi. Con lo sbarramento al 5% nel 2006 e nel 2008 l’Italia dei Valori sarebbe rimasta fuori dal parlamento e nel 2006 non avrebbe eletto nessun deputato la Lega Nord (4,6%).
 

Nel 2008, su 36,5 milioni di votanti ben 3,5 milioni di voti non hanno avuto rappresentanza, pari al 9,5 % dei votanti. Con lo sbarramento al 5% sarebbero rimasti fuori dal Parlamento l’IDV e l’MPA e i voti senza rappresentanza sarebbero diventati 5,5 milioni, pari al 15% dei voti validi.
 

Nel 2006, su oltre 38 milioni di votanti solo 1,3 milioni di voti non hanno avuto rappresentanza parlamentare, pari al 3,4% dei votanti. Con lo sbarramento al 5% sarebbero rimasti fuori dal Parlamento: PdCI, Verdi, Rosa nel Pugno, IDV, Lega Nord e UDEUR. I voti senza rappresentanza sarebbero diventati 7,1 milioni, pari al 18,6% dei votanti, quasi ¼ dell’elettorato avrebbe “sprecato” il proprio voto.
 

Si potrebbe obiettare a quest’accademia che con una soglia di sbarramento più alta i partiti si aggregano in liste unitarie e, dunque, il numero di voti “dispersi” sarebbe inferiore. Non sembra essere un’obiezione fondata. Nel 2008 l’aggregazione della Sinistra Arcobaleno non ha comunque superato lo sbarramento e l’IDV sarebbe dovuta andare in lista con il PD per eleggere in caso di soglia al 5%. In ogni caso, nel 2008 rispetto al 2006 avevamo meno liste (lista dell’arcobaleno, radicali con il PD, nascita del PDL), ma il numero dei voti che non hanno concorso all’elezione di alcun deputato è quasi triplicato. Evidentemente i raggruppamenti non servono a difendere la proporzionalità del voto e a garantire il diritto democratico del voto uguale.
 

A cosa serve una soglia di sbarramento? A ridurre la frammentazione, a garantire stabilità e via dicendo. Fandonia enorme. Nel 2008 solo 7 liste hanno eletto deputati (PD, IDV, UDC, PDL, Lega, MPA, SVP). Ad oggi tra gruppi parlamentari e componenti del misto ci sono 16 formazioni, più del doppio. Ed una di queste, Popolo e territorio, ha 6 sotto-componenti (il sottobosco dei “responsabili”). Per evitare questi fenomeni in tanti propongono una modifica dei regolamenti parlamentari per impedire la formazione di nuovi gruppi. Geniale: come se un gruppo parlamentare potesse porre un vincolo di mandato al deputato! Basta vedere i radicali, stanno nel gruppo del PD, ma votano come ritengono più opportuno. Non c’è regolamento o legge elettorale che tenga. Lo sbarramento serve solo a far eleggere più deputati ai partiti maggiori e a fargli avere una quota maggiore del rimborso elettorale.
 

La democrazia non la si difende inseguendo l’antipolitica. Noi dobbiamo difendere la forma parlamentare e proporzionale della nostra repubblica sempre.