Battersi per la Costituzione. Battersi per il proporzionale!

di Andrea Catone

Editoriale del n. 1/2 2017 di MarxVentuno 

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1. L’anomalia italiana: la Costituzione di democrazia economico-sociale

Questo quaderno di “MarxVentuno” è dedicato alla lotta per la Costituzione. E quando parliamo di Costituzione, intendiamo precisamente la Carta licenziata a fine dicembre 1947 dall’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946 con un sistema elettorale proporzionale puro. Quell’assemblea che, in continuità con la Resistenza e la lotta di Liberazione, rappresenta la fase conclusiva della rivoluzione democratica italiana (1943-1947), anzi, credo si possa dire, democratico-popolare. Infatti, non si tratta solo di sottolineare giustamente e correttamente il carattere antifascista e di rottura che la Costituzione operò, nel passaggio da sudditi a cittadini [1], con tutto il passato della storia dello stato unitario. La Costituzione è antifascista, ma va oltre la bandiera dell’antifascismo sollevata anche dalle liberaldemocrazie occidentali nella guerra contro la Germania hitleriana: nei suoi principi e fondamenti, nella sua struttura, nel suo impianto, è profondamente diversa dalle altre costituzioni dell’Occidente per il carattere sociale che l’azione dei comunisti e dei socialisti, ma anche dei popolari democristiani, vi impresse. Negli altri paesi dell’Europa occidentale, invece, prevalsero costituzioni liberaldemocratiche; anche in Francia, dove la borghesia riuscì a rovesciare la prima costituzione postbellica e ad imporne un’altra contro i comunisti, per non parlare della Germania federale, dove i comunisti furono messi al bando e tutta l’architettura costituzionale fu influenzata dai vincitori-occupatori angloamericani.

La Costituzione italiana di democrazia economico-sociale è l’unica che pensi in termini sostanziali la democrazia fondata sui lavoratori, sul lavoro e non sul capitale, che ponga vincoli al diritto assoluto di proprietà, proponendo lo stato non come guardiano notturno, ma promotore e organizzatore di imprese economiche finalizzate allo sviluppo sociale e non esclusivamente orientate al profitto. In essa vi sono i germi di una possibile transizione verso il socialismo [2]. È questa l’anomalia italiana nel secondo dopoguerra. Per questo è stata ed è attaccata dai rappresentanti del grande capitale interno e internazionale, da J.P. Morgan a Goldman Sachs, come dagli ideologi liberal-liberisti.

La lotta sulla Costituzione italiana ha segnato la storia della repubblica, ed è stata lotta di classe, anche lì dove poteva apparire una questione di mera tecnica istituzionale. Intorno alla Costituzione si sono scontrati capitale e lavoro, privilegio e diritti universali, interessi parassitari e allargamento dei diritti e dei poteri del proletariato e delle classi subalterne. La lotta per la difesa e l’attuazione della Costituzione del 1948 – che, scritta in una fase in cui i rapporti di forza, grazie alla Resistenza antifascista e al ruolo in essa avuto dai comunisti e dall’URSS, erano certo più favorevoli al proletariato, è oggi un presidio fondamentale per la classe lavoratrice – non è solo una giusta lotta democratica, contro il maggioritario, il presidenzialismo, il potere dell’esecutivo sottratto alla direzione parlamentare, ma è anche, con essa intimamente legata, una lotta sociale.

La scrittura della Carta rappresenta l’ultimo atto del fronte unito antifascista, rotto a livello internazionale col discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” (5 marzo 1946), cui fa seguito in Italia la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) e l’estromissione delle sinistre (PCI e PSI) dal governo (maggio 1947). Ma la Costituente, anche nell’ultima fase dei suoi lavori, riesce a mantenere sostanzialmente lo spirito unitario del fronte e non porta la Carta sul binario della liberaldemocrazia.

Vita e vitalità della Costituzione italiana sono intimamente legate al movimento operaio e democratico, alle sue fasi di ascesa e avanzata e a quelle di riflusso e ritirata. 

2. Il decennio “glorioso” dell’ascesa del movimento operaio e di attuazione della Costituzione

Il periodo di maggiore vitalità della Costituzione [3] è quello della grande stagione di lotte tra la metà degli anni 1960 e 1970, tra il ‘68 (preceduto dalle lotte operaie contro le gabbie salariali) e il 1977-78.

Sono gli anni in cui quell’idem sentire che aveva ispirato la scrittura della Costituzione […] riacquista forza, e si fa consenso intorno ad un disegno di sviluppo sociale e (con meno chiarezza) di sviluppo politico. L’attuazione della Costituzione si pone come problema attinente alla realizzazione di un insieme di politiche e al progressivo abbandono della conventio ad excludendum. I partiti dell’arco costituzionale vedono nella Costituzione non più solo un insieme di regole armistiziali che disciplinano lo svolgimento della lotta politica, ma un modello complessivo di società (sono gli anni che vanno dalla riforma pensionistica del 1969, dallo statuto dei lavoratori e dall’attuazione delle regioni del 1970, al nuovo diritto di famiglia del 1975 e alla realizzazione del servizio sanitario nazionale del 1978) [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006].

L’avanzata del movimento operaio e popolare, l’ascesa elettorale del PCI, che alle elezioni nel 1976 ottiene il 34,4% alla Camera e il 34,2% al Senato, preoccupano seriamente il grande capitale internazionale, che non ha mai cessato di vedere nella Costituzione del 1947 un pericolo per la tenuta degli assetti del potere borghese e un ostacolo per la sua illimitata espansione. Nel 1975 si riunisce la Commissione Trilaterale, un’organizzazione fondata nel 1973 per iniziativa dell’influente oligarca USA David Rockefeller, ex presidente della Chase Manhattan Bank, e diretta da Zbigniew Brzezinski. Nel rapporto della Commissione si evidenzia come la democrazia sociale tra gli anni 1967-75 sia a tal punto cresciuta da minacciare il sistema capitalistico, a difesa del quale si propone di schierare l’arma ideologica della “governabilità”. La traduzione italiana delle indicazioni della Trilateral è costituita dal Piano della Loggia massonica P2, il cosiddetto Piano di rinascita democratica, fatto scoprire a bella posta nel 1981 all’aeroporto di Fiumicino, in un doppiofondo di facilissima individuazione, dalla figlia di Licio Gelli. Data di stesura del testo: inizio 1976. Il piano Gelli prefigura la formazione di due poli entrambi moderati, liberal-conservatore l’uno e democratico-laburista l’altro, che sostituiscano la “partitocrazia”. E disegna un sistema politico affatto estraneo all’idea di democrazia conflittuale pensata dai costituenti: riduzione dei poteri del parlamento, presidenzialismo, limitazione del diritto di sciopero, criminalizzazione della conflittualità sociale. Sul piano ideologico, ma con forte valore politico, vi è la rottura con l’atto di nascita della Costituzione: la Resistenza. Esso inoltre – e qui è evidente la sua matrice amerikana in concorrenza con il progetto europeista – si propone di far uscire l’Italia dalla Comunità europea [GINSBORG 1998, p. 272].

3. Anni 80: Rivoluzione conservatrice e attacco alla Costituzione

Il decennio di lotte sociali e politiche, in cui si erano realizzate importanti avanzate per il movimento operaio e democratico, si chiude con una progressiva messa nell’angolo delle forze operaie e con l’avvio della controffensiva capitalistica generalizzata a livello internazionale e nazionale, mentre ritorna, dopo la breve parentesi dell’appoggio esterno del PCI al governo durante la crisi del rapimento e delitto Moro, la conventio ad excludendum [4] verso il PCI.

Tra la fine degli anni 70 – così intensi di lotte sociali diffuse e di crescita del movimento operaio, che non riesce però a darsi una strategia coerente e uno sbocco politico adeguato [5] – e gli anni 80, prende sempre più piede una cultura politica che rompe di fatto con la rivoluzione democratico-popolare degli anni della Resistenza e della Costituente, mentre mettono radici “le suggestioni della rivoluzione passiva reaganiana e thatcheriana e le parallele suggestioni maggioritarie e leaderistiche. Le une in polemica con il modello di welfare tardivamente realizzato nel decennio precedente; e le altre (la grande riforma craxiana [6]) in polemica con l’evoluzione parlamentare del medesimo decennio, che avrebbe inevitabilmente portato in modo stabile il PCI nell’area delle forze di governo” [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006]. 

Le proposte di revisione della forma di governo vengono ora anche da settori che gravitano intorno alla sinistra. 

Il dispositivo del discorso costruito per smantellare la Costituzione repubblicana – ampiamente utilizzato dalla “sinistra” senza sostanziali variazioni fino ai giorni nostri – si basa in primis sulla separazione tra Prima Parte, intesa come un preambolo di principi e valori fondamentali, che si giura e spergiura di non voler modificare, e Seconda Parte, che sarebbe di carattere tecnico, procedurale, su cui quindi si può, anzi, si deve, intervenire per introdurvi i necessari aggiornamenti: una razionalizzazione funzionale. La forma di governo parlamentare, che solo sul proporzionale può basarsi, è intesa qui come mero strumento, che non intaccherebbe i valori della Prima Parte e può perciò ben essere sostituito da altri e più aggiornati strumenti – maggioritario, presidenzialismo – che evitino l’ingovernabilità [7], imputata – vecchio leit Motiv del pensiero liberal-conservatore, ma non solo – al proporzionale.

Nel 1983 si dà vita a due comitati parlamentari presieduti da Ritz e Bonifacio, i cui lavori si concludono con la predisposizione di una sorta di inventario dei problemi più rilevanti da affrontare in chiave riformatrice. Ed è proprio nel 1983 che nel PCI – in quella che è considerata la sua ala sinistra, con Ingrao, che presiede il Centro di Riforma dello Stato (CRS) – si afferma una linea volta a dare al potere di vertice del governo una forza istituzionale pari a quella che il Parlamento aveva conseguito con la centralità degli anni 1970-75. La forza politica che maggiormente aveva contribuito alla stesura della Costituzione del 1948, e che di essa era stata il principale baluardo nei difficili anni 50 e nel decennio di intense lotte tra gli anni 60 e 70, cede ora all’ideologia della governabilità, sostiene il rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento. E lo fa non solo con gli esponenti tradizionali della destra interna al partito, rappresentata da Giorgio Napolitano, ma con il leader storico della sinistra, e con l’autorevole imprimatur del Centro per la riforma dello Stato, organismo sostenuto e diretto dal PCI. L’erosione delle idee costituzionali della Resistenza è andata molto avanti.

Nella IX legislatura (1983-1987) si costituisce la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, la cosiddetta Commissione Bozzi (cui partecipano per il PCI anche Giorgio Napolitano e Augusto Barbera), che conclude i propri lavori con una proposta di modifica di ben 52 articoli della Costituzione. Nella relazione conclusiva (presentata il 29 gennaio 1985 e approvata da DC, PSI, PRI, PLI, con l’astensione dei rappresentanti dei gruppi comunista e socialdemocratico, il voto contrario di MSI-DN, Sinistra indipendente, Democrazia proletaria e Union Valdotaine) si prevede, tra l’altro, la riduzione del numero dei parlamentari e la modifica del bicameralismo paritario. 

4. Dal PCI al PDS, dalla centralità del parlamento al maggioritario

Sui processi di erosione e logoramento ideologico della Costituzione del 1948, che attraversano con sempre maggiore intensità e protervia la cultura politica italiana degli anni 80, impattano, con la forza travolgente di una valanga, gli eventi che tumultuosamente, tra il 1989 e il 1991, portano alla caduta rovinosa dei governi socialisti dell’Europa dell’Est e alla dissoluzione dell’URSS. Il crollo del “socialismo reale” in Europa favorisce e accelera i processi già in corso, dà alla classe capitalistica mondiale e alle sue diverse frazioni nazionali la vertigine del successo, la spinge a liquidare rapidamente nei propri paesi le conquiste sociali che la classe operaia aveva strappato.

All’interno di questo quadro mondiale va collocata anche la vicenda italiana, con le sue specificità. Essa vive di una propria autonoma storia di lotte operaie e popolari che, sul finire degli anni 70 e per tutto il decennio 1980, conoscono una battuta d’arresto e un arretramento rispetto alla fase del movimento di lotte del decennio 1967-78. Il proletariato e le classi subalterne italiane subiscono l’offensiva liberista, la cui ideologia penetra fortemente all’interno del principale partito operaio, il PCI, e nei sindacati, contribuendo al loro arretramento sul fronte culturale, sociale, sindacale, istituzionale. Il dogma della governabilità si impone a spese della valorizzazione della conflittualità sociale, che la strategia togliattiana della democrazia progressiva presupponeva. 

La storia del movimento operaio italiano e quella del socialismo mondiale procedono di pari passo, intersecandosi con rapporti reciproci significativi. Quando nel 1989, con la fine dei regimi socialisti in Europa, l’allora segretario del PCI Achille Occhetto esplicita il progetto di liquidazione del partito, storia nazionale e storia mondiale si ricongiungono nell’annuncio di un evento dal grande valore simbolico.

La nuova situazione mondiale (piena vittoria USA nella “guerra fredda” e ridimensionamento del ruolo geopolitico dell’Italia come baluardo mediterraneo dell’Occidente) ed europea (unificazione della Germania, con conseguente riduzione del peso politico dell’Italia nella CEE) contribuisce a rendere il capitalismo italiano meno autonomo e più subordinato ai grandi centri del capitalismo mondiale. In questo passaggio di fase, la classe dei capitalisti italiani si dimostra fondamentalmente inadeguata ad affrontare i nuovi compiti, al pari della sua nomenclatura politica, i partiti, che dovrebbero rappresentarne gli interessi strategici complessivi. In obbedienza alla tendenza dominante del capitalismo mondiale, tutti i governi succedutisi alla guida del paese a partire dai primi anni 90, da Amato a Ciampi, da Berlusconi a Dini, da Prodi a D’Alema, da Monti a Renzi, perseguono la politica di privatizzazione e svendita delle imprese a partecipazione statale anche in settori di grande rilevanza strategica come l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, le tecnologie avanzate. 

L’attacco del capitale contro il lavoro si muove, nella nuova fase, lungo diverse direttrici. Si tratta prima di tutto, sull’onda della sconfitta epocale del “socialismo reale”, di privare le classi operaie di una rappresentanza politica organizzata, di eliminare dalla scena politica i partiti di classe, che si propongono quali difensori degli interessi di classe, e di sostituirli con partiti non tanto interclassisti, quanto ridotti a mere consorterie, la cui ideologia e la cui struttura aboliscano ogni riferimento a classi sociali e a questioni sociali, sul modello dei partiti statunitensi democratico e repubblicano.

Il PCI, nonostante l’involuzione nell’ideologia e nella pratica politica degli anni 80 – e ormai molto lontano dal partito comunista degli anni della Resistenza e delle grandi lotte operaie, bracciantili, contadine, popolari, dei primi anni della repubblica – non ha tagliato i ponti con i riferimenti di classe, né ha cancellato dai suoi programmi la possibilità dell’alternativa al sistema capitalistico, né, pur senza risparmiare critiche e anatemi al “socialismo reale”, rotto i rapporti coi partiti comunisti e con i movimenti antimperialisti e anticoloniali (da Cuba al Vietnam, dalla Palestina al Sud-Africa).

Per il suo passato, le sue tradizioni, la sua storia, i suoi simboli e i suoi miti, il vissuto dei suoi militanti, esso rappresenta un’anomalia nella nuova fase capitalistica che si apre con la vittoria unilaterale degli USA nella guerra fredda. Il collasso del “socialismo reale” fornisce l’occasione per distruggere il PCI, sostituendolo con un partito che nei suoi fondamenti ideologici e programmatici, operi una cesura radicale con la storia, la tradizione, la cultura del comunismo e del marxismo, e sostituisca al lavoratore, al proletariato, alla classe operaia, il cittadino, indipendentemente dal fatto che sia possidente o nullatenente, capitalista o salariato; un partito che non abbia più un progetto di società fondata sui produttori associati, a prescindere dalla strada – riformatrice gradualista o di rottura rivoluzionaria – che si propone di percorrere, ma che assuma la gestione del sistema capitalistico come orizzonte entro il quale collocare definitivamente il proprio agire politico.

L’operazione è condotta egregiamente in porto tra il 1989 e il 1991 da Occhetto e dalla maggioranza del gruppo dirigente del PCI, che dà vita ad un nuovo partito che fuoriesce dalla stessa tradizione socialista e socialdemocratica, come rivela già la scelta del nome, “Partito democratico della sinistra”, e che sfocerà più tardi nel “Partito democratico” tout court. 

Il nuovo partito si appresta a muoversi in uno scenario che presuppone una radicale modifica dell’assetto costituzionale, con il passaggio al sistema maggioritario e al bipolarismo. Il modello anglosassone diviene a tal punto egemone nella cultura del nuovo partito che Occhetto prende l’iniziativa di scimmiottarlo con la formazione, nel 1991, di un fantomatico “governo ombra”. 

Ma c’è di peggio. Nella breve fase di transizione dal PCI al PDS sono già impresse forti svolte in direzione del presidenzialismo e del sistema maggioritario. Il partito che era stato fino alla metà degli anni 70 il più sollecito difensore della Costituzione italiana, ad aprile 1990 presenta un progetto di legge per la riforma elettorale nei comuni, che prevede: abolizione delle preferenze, elezione diretta del sindaco, estensione del sistema maggioritario, premio per le liste collegate. A dicembre, in opposizione alla proposta del PSI di elezione diretta del capo dello stato, propone l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (il che va ancor più in direzione di un disegno di rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento). La china anticostituzionale degli eredi del partito, che con Togliatti e il gruppo dirigente emerso dalla clandestinità antifascista e dalla Resistenza aveva dato un contributo fondamentale alla stesura della Costituzione più anomala dell’Occidente capitalistico, diverrà nel corso degli anni successivi sempre più ripida e scoscesa. 

5. L’imperativo dopo il 1989-91: superare l’anomalia italiana

Tutto l’insieme dei processi di trasformazione della struttura economico-sociale italiana, delle classi e della loro nomenclatura partitica si relaziona dialetticamente con lo smantellamento della Costituzione repubblicana. La storia delle trasformazioni costituzionali del periodo post 1989 va letta alla luce della relazione marxiana tra struttura e sovrastruttura. Non si tratta di una relazione meccanica, lineare, univoca, né di un riflesso senza mediazioni dell’azione della struttura sulla sovrastruttura (per cui le modificazioni nella struttura economica produrrebbero direttamente trasformazioni nella sovrastruttura istituzionale). Vi è, piuttosto, un’interrelazione profonda tra i diversi piani delle diverse storie – dell’economia, della lotta politica e partitica, dell’ideologia, delle riforme costituzionali – che si svolgono, ciascuna con le proprie peculiarità e una propria relativa autonoma logica. Così, i mutamenti del capitalismo – globalizzazione e sviluppo del mercato mondiale, con l’esigenza di rompere i vincoli economici posti dagli stati nazionali, privatizzando tutto il possibile del settore pubblico – spingono a superare l’anomalia italiana di una Costituzione democratico-sociale e il suo sistema storico di partiti; il mutamento del sistema politico incide profondamente sul volto del capitalismo italiano, con uno straordinario smantellamento del settore di economia pubblica. Le trasformazioni costituzionali sono il prodotto e al contempo il motore – interagiscono – dell’attacco capitalistico contro il lavoro e il settore dell’economia pubblica, in funzione dell’integrazione subalterna nell’Unione europea e nel mercato mondiale.

Per ottenere il pieno e assoluto comando del capitale sul lavoro occorre smantellare anche quelle costruzioni giuridiche che, nel corso dei decenni precedenti, la lotta di classe ha contribuito ad edificare, occorre agire sulla sovrastruttura giuridica e politica della società, intervenendo sulla legislazione del lavoro, ma, soprattutto, sulla legge fondamentale, sulla Costituzione nata dalla Resistenza, che fa dell’Italia, unico paese del mondo capitalistico dell’Occidente, una “repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

La fine del campo socialista accelera il processo di superamento dell’anomalia italiana. Occorre omologare la Costituzione nata dalla Resistenza a quelle liberal-democratiche dell’Occidente e cancellare qualsiasi prospettiva di democrazia progressiva e di superamento del capitalismo. 

È proprio dalla massima carica dello stato che parte l’affondo più velenoso. Il 26 maggio 1991 Francesco Cossiga invia un messaggio alle Camere, evocando la possibilità di eleggere un’Assemblea costituente, poiché il mutamento dello scenario geopolitico dopo la caduta del Muro di Berlino avrebbe reso antiquata la Costituzione redatta nel dopoguerra. 

6. La strategia referendaria di aggressione al sistema elettorale proporzionale

L’appello di Cossiga per la nuova costituente, con rigoroso tempismo, precede di qualche settimana il voto per i referendum del 9-10 giugno 1991 proposti da Mario Segni, il primo dei quali, chiedendo l’abolizione della preferenza multipla, è implicitamente favorevole alla preferenza unica ed è interpretato come un voto per il maggioritario e il cambiamento del sistema politico dominato dalla “partitocrazia”. L’azione di Segni, avviata nel febbraio 1990, trova sostegno organizzativo e politico in un ampio schieramento trasversale, che va dalle ACLI al MSI, ed ha l’apporto determinante dell’organizzazione del PCI-PDS [GINSBORG 1998, p. 328]. Il quorum è abbondantemente superato e sul 62,5% di elettori, il 95,6% si esprime per l’abolizione della preferenza multipla. A livello di massa non si comprende che si tratta dell’introduzione subdola di un meccanismo che avrebbe portato qualche anno dopo al gravissimo vulnus della Costituzione del 1948: l’introduzione del maggioritario.

La mutazione genetica del PCI in PDS (poi DS, poi PD) non significa solo un definitivo e assoluto rigetto dell’esperienza comunista del XX secolo, dell’Ottobre sovietico e delle democrazie popolari, ma anche di una visione effettivamente democratica e progressiva della società. Alla crisi delle società socialiste il gruppo dirigente del PCI non risponde ora con una proposta di ampliamento della democrazia (come era stato negli anni 60 e nei primi anni 70, quando criticava i “tratti illiberali” dell’URSS e delle democrazie popolari), ma con un’idea – e una nuova ideologia – restrittiva della democrazia, ridotta a tecnica di governo, a governabilità. Il PCI che nel 1952-53 lottò con le unghie e con i denti contro la “legge truffa” che assegnava il 65% dei seggi (380) alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti, nel 1990 si fa promotore di un referendum che ripropone il maggioritario.

L’inchiesta di “Mani pulite” è utilizzata e strumentalizzata dai referendari. Essa serve a tuonare contro la “partitocrazia” [8], vecchio leit Motiv reazionario, già cavalcato nei primi anni della repubblica dal movimento dell’Uomo Qualunque di Giannini, e ripescato negli anni 70-80 da Marco Pannella. Dietro l’attacco alla “partitocrazia” si cela l’attacco al sistema dei partiti, uno dei pilastri della Costituzione italiana che vide in esso uno strumento essenziale della partecipazione democratica. 

La leva per scardinare il governo parlamentare previsto dalla Costituzione del 1948 è fornita dal referendum sostenuto da Segni e Occhetto volto all’abolizione del sistema proporzionale, che la corte costituzionale, contravvenendo la norma referendaria, dichiara ammissibile, anche se il quesito ripropone, senza sostanziali modifiche, quello già respinto qualche anno prima. 

Quella Corte rovesciando improvvisamente la sua giurisprudenza, diede prova di incredibile miopia. Quella di non prefigurarsi e non valutare gli effetti che quel referendum avrebbe prodotto sul piano della forma di governo e delle garanzie politiche, privando l’ordinamento costituzionale del sostrato su cui reggeva la sua dinamica, il sostrato cioè di una rappresentanza politica che, recettiva delle domande della democrazia, fossero o non fossero compatibili col sistema economico di produzione e di scambio, rispecchiasse la società così com’è, con i suoi conflitti, i suoi bisogni, il suo strutturale pluralismo [FERRARA 2006]. 

7. Attacco contestuale contro il proporzionale e contro l’intervento pubblico in economia

Ma il referendum pro maggioritario si accompagna ad altri quesiti referendari quali la richiesta di abolire il ministero delle Partecipazioni statali, le competenze delle Usl, il finanziamento pubblico ai partiti, il ministero dell’Agricoltura. Combinati insieme – sull’onda degli attacchi feroci allo “statalismo”, condivisi anche dalla grande maggioranza della sinistra – suggeriscono che l’intervento pubblico in economia e nei servizi sociali genera la corruzione di “tangentopoli” e l’ingovernabilità. 

L’attacco alla Costituzione del 1948 è contestuale e funzionale alla svolta neoliberista e privatizzatrice. Vi è, infatti, nella strategia referendaria del 1993, in nome della piena affermazione del mercato, una strettissima connessione tra attacco al sistema elettorale proporzionale, che è parte fondante e nient’affatto accessoria del disegno della Costituzione del 1948, e attacco alla democrazia sociale, al settore dell’economia a partecipazione statale, al ruolo della mano pubblica nei servizi sociali essenziali. Poche le voci che si levano contro.

E così, favoriti dalla campagna di propaganda dei referendum, passano provvedimenti che vanno nel senso della privatizzazione (il decreto legislativo 29/93 sulla riforma del pubblico impiego privatizza il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici), del presidenzialismo plebiscitario e del bipolarismo maggioritario. 

La legge n. 81 del 25 marzo 1993, approvata solo tre settimane prima dei referendum promossi da Segni e Occhetto, stabilisce l’elezione a suffragio universale e diretto del sindaco e del presidente della provincia; un premio in seggi alla coalizione vincente; giunta e sindaco rispondono all’elettorato e non al consiglio comunale; gli assessori sono nominati direttamente dal sindaco, dotato di un nuovo potere monocratico, rispetto al quale i cittadini hanno pochi mezzi di controllo, mentre il consiglio comunale e provinciale sono ridotti alla funzione di meri ratificatori.

Il 17-18 aprile 1993 si svolgono i referendum, tra cui quello per abrogare la legge elettorale per il senato. Sul 75% di votanti, i Sì sono la stragrande maggioranza: 82,7%. La vittoria dei referendum è accolta con fragorose e roboanti dichiarazioni che la assumono come il consenso di massa, plebiscitario e popolare, al cambiamento della Costituzione in direzione del bipolarismo maggioritario e del presidenzialismo sostenuto da Segni. Il trionfalistico editoriale di Eugenio Scalfari all’indomani del voto è a tal riguardo illuminante: 

È crollato il palazzo. Quanto agli altri referendum – scontato quello che abolisce il finanziamento pubblico dei partiti – c’è stato un plebiscito per quelli che vanno in direzione del libero mercato economico e contro la pratica delle lottizzazioni. Così si legge (e come altro si potrebbe?) il voto sulle Usl, quello sull’abolizione delle Partecipazioni statali, quello sulle nomine bancarie. La massiccia espressione del Sì anche da parte degli elettori di simpatie pidiessine dimostra ancora una volta che l’unità d’intenti ha superato steccati e residue ideologie [SCALFARI 1993].

Il 3 agosto 1993 il parlamento approva la nuova legge maggioritaria. È un sistema ibrido, in base al quale si applica il maggioritario a turno unico per 2/3 dei seggi, 472 alla Camera e 238 al Senato, mentre i restanti 158 e 77 vengono assegnati col proporzionale. Viene così abbandonata l’autonomia del parlamento dal governo, come portato di un pluralismo imperniato sul sistema elettorale proporzionale, che prima del 1993 risultava applicato a tutti i tipi di elezioni, escluse quelle riguardanti i piccoli comuni.

LEGGI LA SECONDA PARTE

NOTE

1. Cfr. in particolare il libro di Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, nonché la sua relazione all’assemblea nazionale del 21 gennaio 2017 dei comitati del No, riportata in questo volume.

2. Sull’unicità della Costituzione italiana nel panorama delle costituzioni occidentali e sul suo carattere di democrazia economico-sociale, cfr. in questo volume, Salvatore d’Albergo, La Costituzione di democrazia economico-sociale.

3.  In un saggio di alcuni anni fa – pubblicato all’indomani dell’approvazione della riscrittura in senso fortemente presidenzialistico, ad opera del governo Berlusconi III (2005), del titolo V della Costituzione – Mario Dogliani e Ilenia Massa Pinto propongono una condivisibile periodizzazione della storia costituzionale italiana: 1. Armistizio fragile (1943-1955), in cui “la Costituzione venne attuata solo nelle parti che disciplinano lo scheletro della democrazia: le regole di coesistenza che rendevano possibile il non ricorso alla guerra civile”. 2. Armistizio consolidato (1956-1968): “Le prime attuazioni della Costituzione testimoniano che non era più in gioco la sua revoca”. 3. Disgelo (1969-1978), ovvero gli anni più fecondi di attuazione della Costituzione. 4. Nuova glaciazione (1979-1993): il referendum del ‘93 e la legge elettorale maggioritaria “Mattarella” sanciscono che “la Costituzione del ‘48 aveva cessato di rappresentare lo strumento essenziale di un equilibrio strategico vitale”. 5. Il passaggio dalla “lotta sulla Costituzione” alla “lotta per la Costituzione”, tuttora in corso [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006].

4. Il XIV Congresso della DC (1980) elegge segretario il leader dell’area conservatrice Flaminio Piccoli e approva un “Preambolo”, che esclude un’alleanza con il PCI.

5. È, questa, materia estremamente complessa su cui i comunisti in Italia, oggi ridotti al lumicino, dovrebbero riprendere una riflessione attenta e approfondita.

6. Il 27 settembre 1979 Bettino Craxi, sostenuto da Giuliano Amato, lancia dalle colonne dell’“Avanti!” la “Grande Riforma dello Stato”.

7.  Il dispositivo del discorso può essere ben illustrato dai numerosi articoli che tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 pubblica su riviste e quotidiani di grande tiratura Salvatore Sechi, solerte e convinto propagandista del presidenzialismo e della modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Cfr. S. Sechi, Non è detto che sia sempre legge truffa, “L’Espresso”, 22 aprile 1979, pp. 79-88. ID., Il dibattito per la riforma dello stato. Repubblica presidenziale: alcune proposte concrete, “Corriere della sera”, 23 ottobre 1979, p. 2. ID., Da François Mitterrand una lezione per la sinistra italiana. Esecutivo forte, legge maggioritaria, “Il Messaggero”, 6 luglio 1981, p. 2. ID., Attenzione al “conservatorismo” dei partiti, “Il Messaggero”, 14 agosto 1982, p. 2. ID., Si possono modificare le tecniche mantenendo inalterati i valori. La Costituzione non è un tabù, “Il Giorno”, 31 agosto 1982, p. 2. ID., Il sovrano mancato, “L’Opinione”, 13 marzo 1984, p. 2. ID., Riforma istituzionale. Proporzionale questo mostro sacro, “Il Giorno”, 24 luglio 1984, p. 2. ID., Le indicazioni per un esecutivo più forte. Dare uno scettro al principe, “Corriere della sera”, 12 novembre 1985, p. 2. ID., Riforme istituzionali per garantire stabilità di governo, “Il Secolo XIX”, 12 novembre 1985, p. 2. ID., Riforme istituzionali. Idee per cambiare le regole del gioco, “Il Resto del Carlino”, 12 dicembre 1986, p. 4.

8. Il termine “partitocrazia” ha una lunga storia. Nell’infuriare della polemica antipartitocratica del 1992-93, funzionale al passaggio al maggioritario, accade anche di registrare, nel dibattito parlamentare sulla legge elettorale “Mattarella”, una disputa sulla sua primogenitura tra il deputato leghista Luigi Rossi, che, a sostegno della legge, evoca lo spettro di Weimar e inveisce contro “40 anni di centralismo partitocratico” e Carlo Tassi, neofascista del MSI, che rivendica orgogliosamente la paternità di Mussolini nella coniazione della parola: «Scusate, richiamiamo un piccolo marchio di fabbrica: il termine “partitocrazia”; non è stato inventato dai tedeschi; si tratta infatti di un neologismo di chiara marca mussoliniana. L’Italia non ha avuto bisogno di tradurre dal tedesco, come ha detto l’onorevole Rossi, la parola “partitocrazia”; la disse Mussolini su questi banchi al tempo in cui per primo soppresse l’appellativo di “onorevole” e, nel novembre 1922, si rivolse ai colleghi chiamandoli signori». In Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura. Resoconto stenografico. Seduta del 14 giugno 1993, p. 14629.

Battersi per la Costituzione

Battersi per il proporzionale!

 

Andrea Catone

 

Sommario

 

1. L’anomalia italiana: la Costituzione di democrazia economico-sociale.

2. Il decennio “glorioso” dell’ascesa del movimento operaio e di attuazione della Costituzione.

3. Anni 80: Rivoluzione conservatrice e attacco alla Costituzione.

4. Dal PCI al PDS, dalla centralità del parlamento al maggioritario.

5. L’imperativo dopo il 1989-91: superare l’anomalia italiana.

6. La strategia referendaria di aggressione al sistema elettorale proporzionale.

7.  Attacco contestuale contro il proporzionale e contro l’intervento pubblico in economia.

8. Attacco al lavoro.

9. La prima ondata di stravolgimento della Costituzione: 1993-2001.

10. La riforma presidenzialistica di Berlusconi non passa.

11. La nuova offensiva contro la Costituzione nella fase della crisi finanziaria e limitazione della sovranità nazionale.

12. L’età del bipolarismo italiano: 1994-2013

13. 2013-2016. “Renzismo” e attacco alla Costituzione.

14. Battersi per la Costituzione, battersi per il proporzionale!

 

1. L’anomalia italiana:

la Costituzione di democrazia economico-sociale

 

Questo quaderno di “MarxVentuno” è dedicato alla lotta per la Costituzione. E quando parliamo di Costituzione, intendiamo precisamente la Carta licenziata a fine dicembre 1947 dall’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946 con un sistema elettorale proporzionale puro. Quell’assemblea che, in continuità con la Resistenza e la lotta di Liberazione, rappresenta la fase conclusiva della rivoluzione democratica italiana (1943-1947), anzi, credo si possa dire, democratico-popolare. Infatti, non si tratta solo di sottolineare giustamente e correttamente il carattere antifascista e di rottura che la Costituzione operò, nel passaggio da sudditi a cittadini[1], con tutto il passato della storia dello stato unitario. La Costituzione è antifascista, ma va oltre la bandiera dell’antifascismo sollevata anche dalle liberaldemocrazie occidentali nella guerra contro la Germania hitleriana: nei suoi principi e fondamenti, nella sua struttura, nel suo impianto, è profondamente diversa dalle altre costituzioni dell’Occidente per il carattere sociale che l’azione dei comunisti e dei socialisti, ma anche dei popolari democristiani, vi impresse. Negli altri paesi dell’Europa occidentale, invece, prevalsero costituzioni liberaldemocratiche; anche in Francia, dove la borghesia riuscì a rovesciare la prima costituzione postbellica e ad imporne un’altra contro i comunisti, per non parlare della Germania federale, dove i comunisti furono messi al bando e tutta l’architettura costituzionale fu influenzata dai vincitori-occupatori angloamericani. La Costituzione italiana di democrazia economico-sociale è l’unica che pensi in termini sostanziali la democrazia fondata sui lavoratori, sul lavoro e non sul capitale, che ponga vincoli al diritto assoluto di proprietà, proponendo lo stato non come guardiano notturno, ma promotore e organizzatore di imprese economiche finalizzate allo sviluppo sociale e non esclusivamente orientate al profitto. In essa vi sono i germi di una possibile transizione verso il socialismo[2]. È questa l’anomalia italiana nel secondo dopoguerra. Per questo è stata ed è attaccata dai rappresentanti del grande capitale interno e internazionale, da J.P. Morgan a Goldman Sachs, come dagli ideologi liberal-liberisti.

La lotta sulla Costituzione italiana ha segnato la storia della repubblica, ed è stata lotta di classe, anche lì dove poteva apparire una questione di mera tecnica istituzionale. Intorno alla Costituzione si sono scontrati capitale e lavoro, privilegio e diritti universali, interessi parassitari e allargamento dei diritti e dei poteri del proletariato e delle classi subalterne. La lotta per la difesa e l’attuazione della Costituzione del 1948 – che, scritta in una fase in cui i rapporti di forza, grazie alla Resistenza antifascista e al ruolo in essa avuto dai comunisti e dall’URSS, erano certo più favorevoli al proletariato, è oggi un presidio fondamentale per la classe lavoratrice – non è solo una giusta lotta democratica, contro il maggioritario, il presidenzialismo, il potere dell’esecutivo sottratto alla direzione parlamentare, ma è anche, con essa intimamente legata, una lotta sociale.

La scrittura della Carta rappresenta l’ultimo atto del fronte unito antifascista, rotto a livello internazionale col discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” (5 marzo 1946), cui fa seguito in Italia la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) e l’estromissione delle sinistre (PCI e PSI) dal governo (maggio 1947). Ma la Costituente, anche nell’ultima fase dei suoi lavori, riesce a mantenere sostanzialmente lo spirito unitario del fronte e non porta la Carta sul binario della liberaldemocrazia.

Vita e vitalità della Costituzione italiana sono intimamente legate al movimento operaio e democratico, alle sue fasi di ascesa e avanzata e a quelle di riflusso e ritirata.

 

 

2. Il decennio “glorioso” dell’ascesa del movimento operaio

e di attuazione della Costituzione

 

Il periodo di maggiore vitalità della Costituzione[3] è quello della grande stagione di lotte tra la metà degli anni 1960 e 1970, tra il ‘68 (preceduto dalle lotte operaie contro le gabbie salariali) e il 1977-78.

Sono gli anni in cui quell’idem sentire che aveva ispirato la scrittura della Costituzione […] riacquista forza, e si fa consenso intorno ad un disegno di sviluppo sociale e (con meno chiarezza) di sviluppo politico. L’attuazione della Costituzione si pone come problema attinente alla realizzazione di un insieme di politiche e al progressivo abbandono della conventio ad excludendum. I partiti dell’arco costituzionale vedono nella Costituzione non più solo un insieme di regole armistiziali che disciplinano lo svolgimento della lotta politica, ma un modello complessivo di società (sono gli anni che vanno dalla riforma pensionistica del 1969, dallo statuto dei lavoratori e dall’attuazione delle regioni del 1970, al nuovo diritto di famiglia del 1975 e alla realizzazione del servizio sanitario nazionale del 1978) [Dogliani – Massa Pinto 2006].

 

L’avanzata del movimento operaio e popolare, l’ascesa elettorale del PCI, che alle elezioni nel 1976 ottiene il 34,4% alla Camera e il 34,2% al Senato, preoccupano seriamente il grande capitale internazionale, che non ha mai cessato di vedere nella Costituzione del 1947 un pericolo per la tenuta degli assetti del potere borghese e un ostacolo per la sua illimitata espansione. Nel 1975 si riunisce la Commissione Trilaterale, un’organizzazione fondata nel 1973 per iniziativa dell’influente oligarca USA David Rockefeller, ex presidente della Chase Manhattan Bank, e diretta da Zbigniew Brzezinski. Nel rapporto della Commissione si evidenzia come la democrazia sociale tra gli anni 1967-75 sia a tal punto cresciuta da minacciare il sistema capitalistico, a difesa del quale si propone di schierare l’arma ideologica della “governabilità”. La traduzione italiana delle indicazioni della Trilateral è costituita dal Piano della Loggia massonica P2, il cosiddetto Piano di rinascita democratica, fatto scoprire a bella posta nel 1981 all’aeroporto di Fiumicino, in un doppiofondo di facilissima individuazione, dalla figlia di Licio Gelli. Data di stesura del testo: inizio 1976. Il piano Gelli prefigura la formazione di due poli entrambi moderati, liberal-conservatore l’uno e democratico-laburista l’altro, che sostituiscano la “partitocrazia”. E disegna un sistema politico affatto estraneo all’idea di democrazia conflittuale pensata dai costituenti: riduzione dei poteri del parlamento, presidenzialismo, limitazione del diritto di sciopero, criminalizzazione della conflittualità sociale. Sul piano ideologico, ma con forte valore politico, vi è la rottura con l’atto di nascita della Costituzione: la Resistenza. Esso inoltre – e qui è evidente la sua matrice amerikana in concorrenza con il progetto europeista – si propone di far uscire l’Italia dalla Comunità europea [Ginsborg 1998, p. 272].

 

 

3. Anni 80: Rivoluzione conservatrice e attacco alla Costituzione

 

Il decennio di lotte sociali e politiche, in cui si erano realizzate importanti avanzate per il movimento operaio e democratico, si chiude con una progressiva messa nell’angolo delle forze operaie e con l’avvio della controffensiva capitalistica generalizzata a livello internazionale e nazionale, mentre ritorna, dopo la breve parentesi dell’appoggio esterno del PCI al governo durante la crisi del rapimento e delitto Moro, la conventio ad excludendum[4] verso il PCI.

Tra la fine degli anni 70 – così intensi di lotte sociali diffuse e di crescita del movimento operaio, che non riesce però a darsi una strategia coerente e uno sbocco politico adeguato[5] – e gli anni 80, prende sempre più piede una cultura politica che rompe di fatto con la rivoluzione democratico-popolare degli anni della Resistenza e della Costituente, mentre mettono radici “le suggestioni della rivoluzione passiva reaganiana e thatcheriana e le parallele suggestioni maggioritarie e leaderistiche. Le une in polemica con il modello di welfare tardivamente realizzato nel decennio precedente; e le altre (la grande riforma craxiana[6]) in polemica con l’evoluzione parlamentare del medesimo decennio, che avrebbe inevitabilmente portato in modo stabile il PCI nell’area delle forze di governo” [Dogliani – Massa Pinto 2006].

Le proposte di revisione della forma di governo vengono ora anche da settori che gravitano intorno alla sinistra.

Il dispositivo del discorso costruito per smantellare la Costituzione repubblicana – ampiamente utilizzato dalla “sinistra” senza sostanziali variazioni fino ai giorni nostri – si basa in primis sulla separazione tra Prima Parte, intesa come un preambolo di principi e valori fondamentali, che si giura e spergiura di non voler modificare, e Seconda Parte, che sarebbe di carattere tecnico, procedurale, su cui quindi si può, anzi, si deve, intervenire per introdurvi i necessari aggiornamenti: una razionalizzazione funzionale. La forma di governo parlamentare, che solo sul proporzionale può basarsi, è intesa qui come mero strumento, che non intaccherebbe i valori della Prima Parte e può perciò ben essere sostituito da altri e più aggiornati strumenti – maggioritario, presidenzialismo – che evitino l’ingovernabilità[7], imputata – vecchio leit Motiv del pensiero liberal-conservatore, ma non solo – al proporzionale.

Nel 1983 si dà vita a due comitati parlamentari presieduti da Ritz e Bonifacio, i cui lavori si concludono con la predisposizione di una sorta di inventario dei problemi più rilevanti da affrontare in chiave riformatrice. Ed è proprio nel 1983 che nel PCI – in quella che è considerata la sua ala sinistra, con Ingrao, che presiede il Centro di Riforma dello Stato (CRS) – si afferma una linea volta a dare al potere di vertice del governo una forza istituzionale pari a quella che il Parlamento aveva conseguito con la centralità degli anni 1970-75. La forza politica che maggiormente aveva contribuito alla stesura della Costituzione del 1948, e che di essa era stata il principale baluardo nei difficili anni 50 e nel decennio di intense lotte tra gli anni 60 e 70, cede ora all’ideologia della governabilità, sostiene il rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento. E lo fa non solo con gli esponenti tradizionali della destra interna al partito, rappresentata da Giorgio Napolitano, ma con il leader storico della sinistra, e con l’autorevole imprimatur del Centro per la riforma dello Stato, organismo sostenuto e diretto dal PCI. L’erosione delle idee costituzionali della Resistenza è andata molto avanti.

Nella IX legislatura (1983-1987) si costituisce la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, la cosiddetta Commissione Bozzi (cui partecipano per il PCI anche Giorgio Napolitano e Augusto Barbera), che conclude i propri lavori con una proposta di modifica di ben 52 articoli della Costituzione. Nella relazione conclusiva (presentata il 29 gennaio 1985 e approvata da DC, PSI, PRI, PLI, con l’astensione dei rappresentanti dei gruppi comunista e socialdemocratico, il voto contrario di MSI-DN, Sinistra indipendente, Democrazia proletaria e Union Valdotaine) si prevede, tra l’altro, la riduzione del numero dei parlamentari e la modifica del bicameralismo paritario.

 

 

4. Dal PCI al PDS, dalla centralità del parlamento al maggioritario

 

Sui processi di erosione e logoramento ideologico della Costituzione del 1948, che attraversano con sempre maggiore intensità e protervia la cultura politica italiana degli anni 80, impattano, con la forza travolgente di una valanga, gli eventi che tumultuosamente, tra il 1989 e il 1991, portano alla caduta rovinosa dei governi socialisti dell’Europa dell’Est e alla dissoluzione dell’URSS. Il crollo del “socialismo reale” in Europa favorisce e accelera i processi già in corso, dà alla classe capitalistica mondiale e alle sue diverse frazioni nazionali la vertigine del successo, la spinge a liquidare rapidamente nei propri paesi le conquiste sociali che la classe operaia aveva strappato.

All’interno di questo quadro mondiale va collocata anche la vicenda italiana, con le sue specificità. Essa vive di una propria autonoma storia di lotte operaie e popolari che, sul finire degli anni 70 e per tutto il decennio 1980, conoscono una battuta d’arresto e un arretramento rispetto alla fase del movimento di lotte del decennio 1967-78. Il proletariato e le classi subalterne italiane subiscono l’offensiva liberista, la cui ideologia penetra fortemente all’interno del principale partito operaio, il PCI, e nei sindacati, contribuendo al loro arretramento sul fronte culturale, sociale, sindacale, istituzionale. Il dogma della governabilità si impone a spese della valorizzazione della conflittualità sociale, che la strategia togliattiana della democrazia progressiva presupponeva.

La storia del movimento operaio italiano e quella del socialismo mondiale procedono di pari passo, intersecandosi con rapporti reciproci significativi. Quando nel 1989, con la fine dei regimi socialisti in Europa, l’allora segretario del PCI Achille Occhetto esplicita il progetto di liquidazione del partito, storia nazionale e storia mondiale si ricongiungono nell’annuncio di un evento dal grande valore simbolico.

La nuova situazione mondiale (piena vittoria USA nella “guerra fredda” e ridimensionamento del ruolo geopolitico dell’Italia come baluardo mediterraneo dell’Occidente) ed europea (unificazione della Germania, con conseguente riduzione del peso politico dell’Italia nella CEE) contribuisce a rendere il capitalismo italiano meno autonomo e più subordinato ai grandi centri del capitalismo mondiale. In questo passaggio di fase, la classe dei capitalisti italiani si dimostra fondamentalmente inadeguata ad affrontare i nuovi compiti, al pari della sua nomenclatura politica, i partiti, che dovrebbero rappresentarne gli interessi strategici complessivi. In obbedienza alla tendenza dominante del capitalismo mondiale, tutti i governi succedutisi alla guida del paese a partire dai primi anni 90, da Amato a Ciampi, da Berlusconi a Dini, da Prodi a D’Alema, da Monti a Renzi, perseguono la politica di privatizzazione e svendita delle imprese a partecipazione statale anche in settori di grande rilevanza strategica come l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, le tecnologie avanzate.

L’attacco del capitale contro il lavoro si muove, nella nuova fase, lungo diverse direttrici. Si tratta prima di tutto, sull’onda della sconfitta epocale del “socialismo reale”, di privare le classi operaie di una rappresentanza politica organizzata, di eliminare dalla scena politica i partiti di classe, che si propongono quali difensori degli interessi di classe, e di sostituirli con partiti non tanto interclassisti, quanto ridotti a mere consorterie, la cui ideologia e la cui struttura aboliscano ogni riferimento a classi sociali e a questioni sociali, sul modello dei partiti statunitensi democratico e repubblicano.

Il PCI, nonostante l’involuzione nell’ideologia e nella pratica politica degli anni 80 – e ormai molto lontano dal partito comunista degli anni della Resistenza e delle grandi lotte operaie, bracciantili, contadine, popolari, dei primi anni della repubblica – non ha tagliato i ponti con i riferimenti di classe, né ha cancellato dai suoi programmi la possibilità dell’alternativa al sistema capitalistico, né, pur senza risparmiare critiche e anatemi al “socialismo reale”, rotto i rapporti coi partiti comunisti e con i movimenti antimperialisti e anticoloniali (da Cuba al Vietnam, dalla Palestina al Sud-Africa).

Per il suo passato, le sue tradizioni, la sua storia, i suoi simboli e i suoi miti, il vissuto dei suoi militanti, esso rappresenta un’anomalia nella nuova fase capitalistica che si apre con la vittoria unilaterale degli USA nella guerra fredda. Il collasso del “socialismo reale” fornisce l’occasione per distruggere il PCI, sostituendolo con un partito che nei suoi fondamenti ideologici e programmatici, operi una cesura radicale con la storia, la tradizione, la cultura del comunismo e del marxismo, e sostituisca al lavoratore, al proletariato, alla classe operaia, il cittadino, indipendentemente dal fatto che sia possidente o nullatenente, capitalista o salariato; un partito che non abbia più un progetto di società fondata sui produttori associati, a prescindere dalla strada – riformatrice gradualista o di rottura rivoluzionaria – che si propone di percorrere, ma che assuma la gestione del sistema capitalistico come orizzonte entro il quale collocare definitivamente il proprio agire politico.

L’operazione è condotta egregiamente in porto tra il 1989 e il 1991 da Occhetto e dalla maggioranza del gruppo dirigente del PCI, che dà vita ad un nuovo partito che fuoriesce dalla stessa tradizione socialista e socialdemocratica, come rivela già la scelta del nome, “Partito democratico della sinistra”, e che sfocerà più tardi nel “Partito democratico” tout court.

Il nuovo partito si appresta a muoversi in uno scenario che presuppone una radicale modifica dell’assetto costituzionale, con il passaggio al sistema maggioritario e al bipolarismo. Il modello anglosassone diviene a tal punto egemone nella cultura del nuovo partito che Occhetto prende l’iniziativa di scimmiottarlo con la formazione, nel 1991, di un fantomatico “governo ombra”.

Ma c’è di peggio. Nella breve fase di transizione dal PCI al PDS sono già impresse forti svolte in direzione del presidenzialismo e del sistema maggioritario. Il partito che era stato fino alla metà degli anni 70 il più sollecito difensore della Costituzione italiana, ad aprile 1990 presenta un progetto di legge per la riforma elettorale nei comuni, che prevede: abolizione delle preferenze, elezione diretta del sindaco, estensione del sistema maggioritario, premio per le liste collegate. A dicembre, in opposizione alla proposta del PSI di elezione diretta del capo dello stato, propone l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (il che va ancor più in direzione di un disegno di rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento). La china anticostituzionale degli eredi del partito, che con Togliatti e il gruppo dirigente emerso dalla clandestinità antifascista e dalla Resistenza aveva dato un contributo fondamentale alla stesura della Costituzione più anomala dell’Occidente capitalistico, diverrà nel corso degli anni successivi sempre più ripida e scoscesa.

 

 

5. L’imperativo dopo il 1989-91: superare l’anomalia italiana

 

Tutto l’insieme dei processi di trasformazione della struttura economico-sociale italiana, delle classi e della loro nomenclatura partitica si relaziona dialetticamente con lo smantellamento della Costituzione repubblicana. La storia delle trasformazioni costituzionali del periodo post 1989 va letta alla luce della relazione marxiana tra struttura e sovrastruttura. Non si tratta di una relazione meccanica, lineare, univoca, né di un riflesso senza mediazioni dell’azione della struttura sulla sovrastruttura (per cui le modificazioni nella struttura economica produrrebbero direttamente trasformazioni nella sovrastruttura istituzionale). Vi è, piuttosto, un’interrelazione profonda tra i diversi piani delle diverse storie – dell’economia, della lotta politica e partitica, dell’ideologia, delle riforme costituzionali – che si svolgono, ciascuna con le proprie peculiarità e una propria relativa autonoma logica. Così, i mutamenti del capitalismo – globalizzazione e sviluppo del mercato mondiale, con l’esigenza di rompere i vincoli economici posti dagli stati nazionali, privatizzando tutto il possibile del settore pubblico – spingono a superare l’anomalia italiana di una Costituzione democratico-sociale e il suo sistema storico di partiti; il mutamento del sistema politico incide profondamente sul volto del capitalismo italiano, con uno straordinario smantellamento del settore di economia pubblica. Le trasformazioni costituzionali sono il prodotto e al contempo il motore – interagiscono – dell’attacco capitalistico contro il lavoro e il settore dell’economia pubblica, in funzione dell’integrazione subalterna nell’Unione europea e nel mercato mondiale.

Per ottenere il pieno e assoluto comando del capitale sul lavoro occorre smantellare anche quelle costruzioni giuridiche che, nel corso dei decenni precedenti, la lotta di classe ha contribuito ad edificare, occorre agire sulla sovrastruttura giuridica e politica della società, intervenendo sulla legislazione del lavoro, ma, soprattutto, sulla legge fondamentale, sulla Costituzione nata dalla Resistenza, che fa dell’Italia, unico paese del mondo capitalistico dell’Occidente, una “repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

La fine del campo socialista accelera il processo di superamento dell’anomalia italiana. Occorre omologare la Costituzione nata dalla Resistenza a quelle liberal-democratiche dell’Occidente e cancellare qualsiasi prospettiva di democrazia progressiva e di superamento del capitalismo.

È proprio dalla massima carica dello stato che parte l’affondo più velenoso. Il 26 maggio 1991 Francesco Cossiga invia un messaggio alle Camere, evocando la possibilità di eleggere un’Assemblea costituente, poiché il mutamento dello scenario geopolitico dopo la caduta del Muro di Berlino avrebbe reso antiquata la Costituzione redatta nel dopoguerra.

 

 

6. La strategia referendaria di aggressione

al sistema elettorale proporzionale

 

L’appello di Cossiga per la nuova costituente, con rigoroso tempismo, precede di qualche settimana il voto per i referendum del 9-10 giugno 1991 proposti da Mario Segni, il primo dei quali, chiedendo l’abolizione della preferenza multipla, è implicitamente favorevole alla preferenza unica ed è interpretato come un voto per il maggioritario e il cambiamento del sistema politico dominato dalla “partitocrazia”. L’azione di Segni, avviata nel febbraio 1990, trova sostegno organizzativo e politico in un ampio schieramento trasversale, che va dalle ACLI al MSI, ed ha l’apporto determinante dell’organizzazione del PCI-PDS [Ginsborg 1998, p. 328]. Il quorum è abbondantemente superato e sul 62,5% di elettori, il 95,6% si esprime per l’abolizione della preferenza multipla. A livello di massa non si comprende che si tratta dell’introduzione subdola di un meccanismo che avrebbe portato qualche anno dopo al gravissimo vulnus della Costituzione del 1948: l’introduzione del maggioritario.

La mutazione genetica del PCI in PDS (poi DS, poi PD) non significa solo un definitivo e assoluto rigetto dell’esperienza comunista del XX secolo, dell’Ottobre sovietico e delle democrazie popolari, ma anche di una visione effettivamente democratica e progressiva della società. Alla crisi delle società socialiste il gruppo dirigente del PCI non risponde ora con una proposta di ampliamento della democrazia (come era stato negli anni 60 e nei primi anni 70, quando criticava i “tratti illiberali” dell’URSS e delle democrazie popolari), ma con un’idea – e una nuova ideologia – restrittiva della democrazia, ridotta a tecnica di governo, a governabilità. Il PCI che nel 1952-53 lottò con le unghie e con i denti contro la “legge truffa” che assegnava il 65% dei seggi (380) alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti, nel 1990 si fa promotore di un referendum che ripropone il maggioritario.

L’inchiesta di “Mani pulite” è utilizzata e strumentalizzata dai referendari. Essa serve a tuonare contro la “partitocrazia”[8], vecchio leit Motiv reazionario, già cavalcato nei primi anni della repubblica dal movimento dell’Uomo Qualunque di Giannini, e ripescato negli anni 70-80 da Marco Pannella. Dietro l’attacco alla “partitocrazia” si cela l’attacco al sistema dei partiti, uno dei pilastri della Costituzione italiana che vide in esso uno strumento essenziale della partecipazione democratica.

La leva per scardinare il governo parlamentare previsto dalla Costituzione del 1948 è fornita dal referendum sostenuto da Segni e Occhetto volto all’abolizione del sistema proporzionale, che la corte costituzionale, contravvenendo la norma referendaria, dichiara ammissibile, anche se il quesito ripropone, senza sostanziali modifiche, quello già respinto qualche anno prima.

 

Quella Corte rovesciando improvvisamente la sua giurisprudenza, diede prova di incredibile miopia. Quella di non prefigurarsi e non valutare gli effetti che quel referendum avrebbe prodotto sul piano della forma di governo e delle garanzie politiche, privando l’ordinamento costituzionale del sostrato su cui reggeva la sua dinamica, il sostrato cioè di una rappresentanza politica che, recettiva delle domande della democrazia, fossero o non fossero compatibili col sistema economico di produzione e di scambio, rispecchiasse la società così com’è, con i suoi conflitti, i suoi bisogni, il suo strutturale pluralismo [Ferrara 2006].

 

 

7. Attacco contestuale contro il proporzionale

e contro l’intervento pubblico in economia

 

Ma il referendum pro maggioritario si accompagna ad altri quesiti referendari quali la richiesta di abolire il ministero delle Partecipazioni statali, le competenze delle Usl, il finanziamento pubblico ai partiti, il ministero dell’Agricoltura. Combinati insieme – sull’onda degli attacchi feroci allo “statalismo”, condivisi anche dalla grande maggioranza della sinistra – suggeriscono che l’intervento pubblico in economia e nei servizi sociali genera la corruzione di “tangentopoli” e l’ingovernabilità.

L’attacco alla Costituzione del 1948 è contestuale e funzionale alla svolta neoliberista e privatizzatrice. Vi è, infatti, nella strategia referendaria del 1993, in nome della piena affermazione del mercato, una strettissima connessione tra attacco al sistema elettorale proporzionale, che è parte fondante e nient’affatto accessoria del disegno della Costituzione del 1948, e attacco alla democrazia sociale, al settore dell’economia a partecipazione statale, al ruolo della mano pubblica nei servizi sociali essenziali. Poche le voci che si levano contro.

E così, favoriti dalla campagna di propaganda dei referendum, passano provvedimenti che vanno nel senso della privatizzazione (il decreto legislativo 29/93 sulla riforma del pubblico impiego privatizza il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici), del presidenzialismo plebiscitario e del bipolarismo maggioritario.

La legge n. 81 del 25 marzo 1993, approvata solo tre settimane prima dei referendum promossi da Segni e Occhetto, stabilisce l’elezione a suffragio universale e diretto del sindaco e del presidente della provincia; un premio in seggi alla coalizione vincente; giunta e sindaco rispondono all’elettorato e non al consiglio comunale; gli assessori sono nominati direttamente dal sindaco, dotato di un nuovo potere monocratico, rispetto al quale i cittadini hanno pochi mezzi di controllo, mentre il consiglio comunale e provinciale sono ridotti alla funzione di meri ratificatori.

Il 17-18 aprile 1993 si svolgono i referendum, tra cui quello per abrogare la legge elettorale per il senato. Sul 75% di votanti, i sono la stragrande maggioranza: 82,7%. La vittoria dei referendum è accolta con fragorose e roboanti dichiarazioni che la assumono come il consenso di massa, plebiscitario e popolare, al cambiamento della Costituzione in direzione del bipolarismo maggioritario e del presidenzialismo sostenuto da Segni. Il trionfalistico editoriale di Eugenio Scalfari all’indomani del voto è a tal riguardo illuminante:

 

È crollato il palazzo. Quanto agli altri referendum – scontato quello che abolisce il finanziamento pubblico dei partiti – c’è stato un plebiscito per quelli che vanno in direzione del libero mercato economico e contro la pratica delle lottizzazioni. Così si legge (e come altro si potrebbe?) il voto sulle Usl, quello sull’abolizione delle Partecipazioni statali, quello sulle nomine bancarie. La massiccia espressione del anche da parte degli elettori di simpatie pidiessine dimostra ancora una volta che l’unità d’intenti ha superato steccati e residue ideologie [Scalfari 1993].

 

Il 3 agosto 1993 il parlamento approva la nuova legge maggioritaria. È un sistema ibrido, in base al quale si applica il maggioritario a turno unico per 2/3 dei seggi, 472 alla Camera e 238 al Senato, mentre i restanti 158 e 77 vengono assegnati col proporzionale. Viene così abbandonata l’autonomia del parlamento dal governo, come portato di un pluralismo imperniato sul sistema elettorale proporzionale, che prima del 1993 risultava applicato a tutti i tipi di elezioni, escluse quelle riguardanti i piccoli comuni.



[1] Cfr. in particolare il libro di Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, nonché la sua relazione all’assemblea nazionale del 21 gennaio 2017 dei comitati del No, riportata in questo volume.

 

[2] Sull’unicità della Costituzione italiana nel panorama delle costituzioni occidentali e sul suo carattere di democrazia economico-sociale, cfr. in questo volume, Salvatore d’Albergo, La Costituzione di democrazia economico-sociale.

 

[3] In un saggio di alcuni anni fa – pubblicato all’indomani dell’approvazione della riscrittura in senso fortemente presidenzialistico, ad opera del governo Berlusconi III (2005), del titolo V della Costituzione – Mario Dogliani e Ilenia Massa Pinto propongono una condivisibile periodizzazione della storia costituzionale italiana: 1. Armistizio fragile (1943-1955), in cui “la Costituzione venne attuata solo nelle parti che disciplinano lo scheletro della democrazia: le regole di coesistenza che rendevano possibile il non ricorso alla guerra civile”. 2. Armistizio consolidato (1956-1968): “Le prime attuazioni della Costituzione testimoniano che non era più in gioco la sua revoca”. 3. Disgelo (1969-1978), ovvero gli anni più fecondi di attuazione della Costituzione. 4. Nuova glaciazione (1979-1993): il referendum del ‘93 e la legge elettorale maggioritaria “Mattarella” sanciscono che “la Costituzione del ‘48 aveva cessato di rappresentare lo strumento essenziale di un equilibrio strategico vitale”. 5. Il passaggio dalla “lotta sulla Costituzione” alla “lotta per la Costituzione”, tuttora in corso [Dogliani – Massa Pinto 2006].

 

[4] Il XIV Congresso della DC (1980) elegge segretario il leader dell’area conservatrice Flaminio Piccoli e approva un “Preambolo”, che esclude un’alleanza con il PCI.

 

[5] È, questa, materia estremamente complessa su cui i comunisti in Italia, oggi ridotti al lumicino, dovrebbero riprendere una riflessione attenta e approfondita.

 

[6] Il 27 settembre 1979 Bettino Craxi, sostenuto da Giuliano Amato, lancia dalle colonne dell’“Avanti!” la “Grande Riforma dello Stato”.

 

[7] Il dispositivo del discorso può essere ben illustrato dai numerosi articoli che tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 pubblica su riviste e quotidiani di grande tiratura Salvatore Sechi, solerte e convinto propagandista del presidenzialismo e della modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Cfr. S. Sechi, Non è detto che sia sempre legge truffa, “L’Espresso”, 22 aprile 1979, pp. 79-88. ID., Il dibattito per la riforma dello stato. Repubblica presidenziale: alcune proposte concrete, “Corriere della sera”, 23 ottobre 1979, p. 2. ID., Da François Mitterrand una lezione per la sinistra italiana. Esecutivo forte, legge maggioritaria, “Il Messaggero”, 6 luglio 1981, p. 2. ID., Attenzione al “conservatorismo” dei partiti, “Il Messaggero”, 14 agosto 1982, p. 2. ID., Si possono modificare le tecniche mantenendo inalterati i valori. La Costituzione non è un tabù, “Il Giorno”, 31 agosto 1982, p. 2. ID., Il sovrano mancato, “L’Opinione”, 13 marzo 1984, p. 2. ID., Riforma istituzionale. Proporzionale questo mostro sacro, “Il Giorno”, 24 luglio 1984, p. 2. ID., Le indicazioni per un esecutivo più forte. Dare uno scettro al principe, “Corriere della sera”, 12 novembre 1985, p. 2. ID., Riforme istituzionali per garantire stabilità di governo, “Il Secolo XIX”, 12 novembre 1985, p. 2. ID., Riforme istituzionali. Idee per cambiare le regole del gioco, “Il Resto del Carlino”, 12 dicembre 1986, p. 4.

 

[8] Il termine “partitocrazia” ha una lunga storia. Nell’infuriare della polemica antipartitocratica del 1992-93, funzionale al passaggio al maggioritario, accade anche di registrare, nel dibattito parlamentare sulla legge elettorale “Mattarella”, una disputa sulla sua primogenitura tra il deputato leghista Luigi Rossi, che, a sostegno della legge, evoca lo spettro di Weimar e inveisce contro “40 anni di centralismo partitocratico” e Carlo Tassi, neofascista del MSI, che rivendica orgogliosamente la paternità di Mussolini nella coniazione della parola: «Scusate, richiamiamo un piccolo marchio di fabbrica: il termine “partitocrazia”; non è stato inventato dai tedeschi; si tratta infatti di un neologismo di chiara marca mussoliniana. L’Italia non ha avuto bisogno di tradurre dal tedesco, come ha detto l’onorevole Rossi, la parola “partitocrazia”; la disse Mussolini su questi banchi al tempo in cui per primo soppresse l’appellativo di “onorevole” e, nel novembre 1922, si rivolse ai colleghi chiamandoli signori». In Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura. Resoconto stenografico. Seduta del 14 giugno 1993, p. 14629.