Al di là della divisa

di Livio Pepino | da il Manifesto

diaz arrestiDunque la Corte di cassazione ha deciso e ora quel che già sapevamo, nella accezione pasoliniana del termine, è verità giudiziaria. Molte sensazioni si rincorrono. Mi tornano alla mente le parole di Sepulveda il giorno dell’arresto del generale Pinochet: «Scrivo queste righe perché non so fare altro. Abbraccio mia moglie e tutti e due piangiamo. Piangiamo il pianto liberatorio di quanti non abbiamo mai dimenticato, di quelli che non hanno mai smesso di credere nel giorno della minima giustizia. Carmen ed io usciremo a fare un passeggiata, e sentiremo che la pioggia sui nostri volti comincia finalmente a lavare le vecchie ferite». È questo il primo pensiero. La condanna non solo degli esecutori materiali del massacro della Diaz ma anche dei funzionari che hanno coordinato le operazioni e sono ricorsi al falso per giustificare la mattanza è la vittoria delle vittime che non hanno mai smesso di credere che un minimo di giustizia poteva essere assicurato anche in questo disgraziato Paese. Di quelle vittime e di chi le ha assistite e sostenute.

Il secondo pensiero va ai pubblici ministeri che – spesso soli, osteggiati, isolati nel loro stesso ufficio – hanno continuato, ostinatamente a cercare la verità. Senza di loro oggi avremmo solo il proscioglimento per prescrizione degli autori materiali. Al pensiero si accompagna una riflessione che dovremmo ricordare sempre. Nella nostra storia i frammenti di verità sulle vicende oscure delle istituzioni del Paese sono emersi sempre grazie all’intervento contrastato di alcuni piccoli giudici o pubblici ministeri, mentre gli apparati depistavano.

Il terzo pensiero va al fatto che la decisione dei giudici si è dovuta fermare di fronte alle lesioni per l’intervento della prescrizione. Fatto non casuale ma frutto della scelta della politica di evitare l’introduzione del reato di tortura, pur richiesto dall’Europa e dalle disposizioni internazionali. Si tratta di una responsabilità della politica che non sarà lavata dalle lacrime delle vittime di fronte alla sentenza.

Detto questo, va aggiunto che ora tocca al governo fare la sua parte. Le condanne dei funzionari portano con sé la pena accessoria della interdizione dei pubblici uffici.

Ciò significa che la catena di comando della polizia sarà decimata o comunque toccata in punti nevralgici. Ciò che la politica non ha voluto fare, pur a fronte delle richieste di tutti i democratici, è ora imposto da una sentenza. Guai se la politica cercasse di ricorrere ad escamotages per evitarlo. Sarebbe un atteggiamento eversivo.

Al contrario, i cambiamenti imposti dalle condanne dovranno essere l’occasione per un intervento riformatore della polizia. I fatti della Diaz non sono stati un “incidente” ma l’esito di una strategia e di una concezione dell’ordine pubblico che è tuttora assai radicata. Attendiamo dal Governo un intervento immediato e profondo. Sono in gioco le sorti della nostra democrazia. E, ancora una volta, c’è voluto un giudice per ricordarlo!