A due velocità: il mondo verso il progresso e l’Italia verso la restaurazione

di Francesco Maringiò

L’Unione Europea è pronta per la missione Aspides, un’operazione militare che la proietterà bel oltre i confini degli stati membri e dello stesso continente europeo a difesa – così viene detto – dei mercantili nel Mar Rosso. Il governo italiano non ha perso l’occasione di essere in prima linea e, a detta di Tajiani, di “spingere moltissimo” perché l’operazione si faccia. Non siamo mica come quelle mammolette di Spagna ed Irlanda che si sono tirate fuori: il nostro governo, quando Washington chiama sa solo rispondere: presente! Ovviamente, in stile Acca Larentia.

Gli spagnoli hanno addirittura detto di no agli Stati Uniti che li avevano coinvolti nella missione senza neanche sentirli prima ed il primo ministro Sánchez, poi, ha avuto l’ardire di mettere in correlazione la vicenda del Mar Rosso con la guerra a Gaza, sottolineando la necessità di raggiungere un cessate il fuoco permanente e di riprendere al più presto i negoziati per la creazione di uno stato di Palestina. Nel nostro governo, invece, non c’è nessun tentennamento e neanche dalle parti dell’opposizione si levano grandi scudi. Dopo anni al governo con tutti, poverini, devono ancora imparare a fare opposizione. A instillare qualche dubbio ci pensano i militari con l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Camporini, che ci ricorda che dal punto di vista della catena di rifornimento delle armi non siamo proprio messi bene: «tutto quello che potevano dare agli ucraini glielo abbiamo dato: ora – sottolinea Camporini – le nostre scorte logistiche si sono ridotte».

Ma perché l’Unione Europea si proietta nel Mar Rosso? Semplice: per sostenere gli Stati Uniti nell’anacronistica pretesa di controllo dei colli di bottiglia del commercio mondiale. Ma non facciamoci ingannare dalla semantica dei termini utilizzati. Quando gli Usa parlano di difesa, in genere stanno organizzando missioni militari di attacco, come quella del 12 gennaio scorso contro 60 postazioni di Ansar Allah, i combattenti yemeniti più noti col nome di Houthi. Ce lo spiega bene Lucia Annunziata sulle pagine della Stampa mercoledì scorso: «sul Mar Rosso è in gioco la tenuta da potenza globale degli Usa fondata sul suo essere padrone dei mari. Una supremazia costruita dagli americani con la vittoria nella seconda guerra Mondiale»; per questo «il blocco del Mar Rosso da parte degli Houthi, non poteva essere accettato». Ciò che tace la Annunziata è la sostanza delle cose, che pure Sánchez ha saputo disvelare senza tanti giri di parole: gli attacchi degli Houthi alle navi mercantili che passano lo stretto di Bab el-Mandeb riguardano esclusivamente le navi israeliane (o americane) che vanno ad attraccare nei porti della Palestina occupata per alimentare il massacro di Gaza, non gli altri. Tanto è vero che ci sono dichiarazioni puntuali di Muhammad al-Buheiti, portavoce degli Houthi, che al quotidiano russo Izvestia la scorsa settimana ha chiarito che «per quanto riguarda tutti gli altri Paesi, compresi Russia e Cina, la loro navigazione nella regione non è minacciata».

Siamo di fronte, se ancora non ce ne fossimo accorti, alla più grande trasformazione dei rapporti di forza sul piano mondiale dalla sconfitta dell’Urss, con possibilità di trasformazioni più radicali, profonde e durature di quelle avviate nel terribile biennio ’89-’91 del secolo scorso. Ed in questa fase le forze ed i paesi del cosiddetto Sud globale non solo si prendono la scena ma segnano l’agenda della politica mondiale, con gli Usa in affanno nel tentativo antistorico di mantenere intatta una egemonia globale, richiamando l’Unione Europea nel turbinio della sua escalation bellica.

Cos’altro è, se non il segno di un mondo che cambia, la battaglia del Sudafrica per il rispetto dei diritti umani a Gaza, contro il genocidio in corso, ricorrendo anche alla Corte Internazionale di Giustizia? E cos’è, di converso, il silenzio della nostra opinione pubblica ed il rovesciamento della realtà da parte dei mass media occidentali se non il tentativo di contrastare questi cambiamenti nel mondo, sulla pelle dei popoli coloniali? È in questo iato che si gioca tutto lo spazio della politica nel nostro tempo.

Veniamo all’Italia. Nel tardo pomeriggio di martedì l’autonomia differenziata è passata in prima lettura al Senato con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 3 astenuti. Ora il provvedimento andrà alla Camera ed anche lì si prevede un’approvazione record, per dare alle Lega (ed al Governo) la medaglietta da esibire in campagna elettorale per le europee. La modifica è pessima e nei fatti interviene sugli assetti dello Stato che devolverà alla Regioni 23 materie e 500 funzioni essenziali previste dall’altrettanto pessima riforma del Titolo V della Costituzione. Come sempre, la strada alle peggiori riforme (dal lavoro alla Costituzione) è stata aperta dal centrosinistra ed anche in questo caso, la destra affonda su un terreno aperto dai così detti progressisti nel 2001.

Ciò che è peggio è che la torsione presidenzialista dell’attuale governo, unita a questa riforma, certificherà l’irrilevanza formale ad oltranza del parlamento, trasformato in un raduno di peones acchiappavoti che, anziché legiferare, marcheranno stretto il territorio (al nord come al sud) e lasceranno al solo esecutivo, ridotto a gruppo di supporto di un premier eletto, il compito della politica e delle leggi. Uno stravolgimento totale non solo della Costituzione ma della stessa democrazia. Già oggi, del resto, il 55% dell’azione legislativa è fatto di conversione di decreti. Non siamo ancora al “discorso del bivacco” del 1922 ma la strada sembra prendere pericolosamente la stessa china.

Siamo di fronte ad un scambio politico nella maggioranza: l’autonomia (che è nei fatti una secessione) alla Lega, in cambio del premierato per Fratelli d’Italia che così archivia definitivamente questo fardello della Costituzione scritta dai resistenti e che prevedeva un equilibrio tra pubblico e privato. La Svimez ha chiarito che: «il finanziamento del Sistema sanitario nazionale non è la somma del costo dei Lea, ma è determinato a monte nella programmazione del bilancio pubblico». Quel poco che era rimasto della programmazione pubblica e del potere dello Stato, dopo le trasformazioni dei primi anni ’90, viene quindi cancellato.

E mentre nel mondo si chiude il ciclo regressivo avviato nel post ’89, qui nel nostro paese si tenta una sua restaurazione culturale, politica ed istituzionale. C’è poco da stare allegri, perché è il rovesciamento della guerra mondiale a pezzi sul piano domestico. E l’unica cosa che resta da fare è organizzare una grande resistenza popolare. Qui ci giochiamo la tenuta stessa del paese.

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