CRISI DI GOVERNO E VITTORIA DELLE DESTRE: IN QUALE CONTESTO GLOBALE ?

Su consenso dell’Autore pubblichiamo l’editoriale dell’ultimo numero di Ragione e Conflitti come contributo alla discussione

di Bruno Steri

Proviamo a focalizzare, al di là del chiacchiericcio che caratterizza il nostro teatrino nazionale, il contesto generale in cui si sono prodotte la crisi del governo Draghi e la vittoria delle destre, ottenuta a seguito della convocazione di elezioni estive davvero anomale, sul piano della tempistica e delle garanzie democratiche che andrebbero garantite a tutti i partecipanti. Tre fatti non catalogabili come meri “accidenti della storia” – una pandemia globale, una guerra nel cuore dell’Europa, la sempre più urgente necessità di una transizione ecologica del mondo produttivo – hanno inasprito il carattere “stagflattivo” della già presente crisi capitalistica. Stagflazione: cioè l’indesiderata concomitanza di inflazione e stagnazione (o crescita in calo).

Negli Stati Uniti, per un verso, il calo della produzione di petrolio dovuto alle incertezze rispetto ad un futuro in cui sembrava si profilassero politiche di “transizione ecologica” e, per converso, l’aumento della domanda energetica determinato prima dalla fase di recupero post-covid e poi dalla guerra in Ucraina, avevano indotto il presidente Biden a prendere in considerazione un abbattimento delle tasse per frenare l’impennata della conseguente inflazione: ridurre le tasse e provare per questa via a bloccare l’aumento del prezzo della benzina sarebbe stata tra l’altro una buona notizia per gli americani votanti alle elezioni midterm del prossimo novembre. L’idea tuttavia non è piaciuta ai Repubblicani e nemmeno a parte dei Democratici: la stessa democratica Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Rappresentanti Usa, osservava infatti che la sospensione delle tasse sarebbe andata ad esclusivo beneficio dei già lauti profitti delle compagnie del “Big Oil”, senza passare nelle tasche dei consumatori. Per noi comunisti, davvero una tempesta in un bicchiere d’acqua: è facile commentare che non a caso stiamo parlando del principale Paese capitalistico, di un Paese in cui la gestione dell’economia è piegata agli interessi delle grandi multinazionali private, un Paese imperialista tutt’altro che amante della pace. Infatti, anziché discettare sull’opportunità o meno di una sospensione della tassazione interna, per non incorrere in insostenibili costi economici e sociali sarebbe bastato evitare sul piano internazionale di preparare, alimentare e sostenere economicamente colpi di Stato e guerre in giro per il mondo: vedi l’aggressivo espansionismo verso Est della Nato con la conseguente trappola ucraina – giunta oggi drammaticamente alle soglie di un conflitto nucleare “tattico” – o le provocazioni anticinesi che da ultimo hanno visto protagonista la stessa Pelosi con la sua visita a Taiwan.

Purtroppo l’Europa, fedele valletta degli Usa nei momenti che contano, non se la passa meglio; anzi, subisce ancor più pesantemente le conseguenze del dinamismo bellico statunitense. La stagflazione morde duramente nel nostro continente e l’economia tedesca, per decenni traino di quella europea nel suo complesso, ha cominciato a mostrare inequivocabili segnali di crisi. Per un’economia come quella tedesca, prevalentemente fondata sull’export (come ha ricordato su ‘La Repubblica’ Oscar Giannino, “in Germania un occupato su quattro si deve all’export”), il dato della bilancia commerciale registrato lo scorso maggio è stato un serio campanello d’allarme: per la prima volta dopo 30 anni il surplus si è trasformato in deficit, cioè le importazioni hanno superato le esportazioni (era dal 1991 che non si registrava un deficit commerciale). Dall’inizio del 2021 il surplus tedesco ha iniziato a scendere, in connessione con il calo della produzione industriale (a maggio, -1,4% rispetto a un anno prima). E gli effetti sociali di tale rallentamento non hanno tardato a farsi sentire: secondo il Rapporto sulla povertà 2021 pubblicato quest’anno, circa 20 milioni di tedeschi hanno subito un decremento del reddito, con la prospettiva di un ulteriore peggioramento. Ovviamente, la crisi ucraina e l’aumento dei costi energetici hanno avuto un ruolo preminente, facendo lievitare i costi dell’intera produzione manifatturiera e portando l’inflazione ai massimi livelli dal dopoguerra ad oggi.

La grancassa filoatlantica ha rimproverato Berlino per aver usufruito per due decenni di forniture energetiche convenienti e senza interruzioni, al prezzo di un ininterrotto rapporto con Mosca: quasi che l’aver mantenuto relazioni politicamente costruttive ed economicamente utili con la Russia costituisse un peccato mortale. La verità è che, per lorsignori, si è trattato di un peccato di lesa maestà nei confronti di Washington e delle sue politiche di potenza. Lo stesso cancelliere Olaf Scholz ha sentenziato: “E’ una sfida storica (…). Sarà una crisi di lunga durata, perché l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato tutto” (cfr. Danilo Taino, Un euro vale un dollaro. Fine del modello Merkel ). L’incrinarsi dei rapporti con la Russia e un contestuale rallentamento dei flussi di gas verso l’Europa – secondo il portavoce del Cremlino, dovuto peraltro a problemi di manutenzione del gasdotto Nord Stream 1 – hanno fatto scattare l’allarme e spinto a predisporre con urgenza un Piano di emergenza energetica: segnatamente, la riduzione obbligatoria dei consumi di gas , fino a prevedere scenari di razionamento (soprattutto qualora si concretizzasse la previsione dei più pessimisti di un blocco totale delle forniture da parte della russa Gazprom).

In tutta l’Unione Europea si è tornati così a respirare l’aria dell’austerity. Anche in Italia – la cui manifattura, non va dimenticato, è fortemente interconnessa con quella tedesca – il governo Draghi, prima delle sue dimissioni, aveva predisposto misure di emergenza in caso di blocco dei flussi di gas russi: interruzione delle forniture per un tempo determinato alle industrie “energivore”, contenimento dei consumi privati e pubblici (riduzione delle ore e dell’intensità del riscaldamento nelle abitazioni private e negli uffici pubblici, limitazione dell’illuminazione pubblica della rete stradale urbana ed extraurbana ecc). Non a caso, Mario Draghi è stato il più ligio nell’applicare le direttive atlantiche e si è contraddistinto nel cercare attivamente alternative all’indesiderata dipendenza dagli idrocarburi di Putin. Poco prima di dimettersi, è andato in Israele a contrattare il trasporto di gas naturale in Italia: dal Leviathan, giacimento israeliano off-shore, all’Egitto attraverso il “gasdotto della Pace”; e dall’Egitto in Italia, spedito per nave dopo esser stato liquefatto (e con ciò capiamo come mai non cessa il ricorso a rigassificatori e termovalorizzatori). Inoltre, lo stesso Draghi ha pensato bene, in alternativa all’uso del gas, di riaccendere le sei centrali a carbone presenti nel nostro Paese: impianti, produttori di energia con il più inquinante dei fossili, che avrebbero dovuto essere spenti entro il 2025 e che invece sono tornati in funzione alla grande, con buona pace della “transizione ecologica”. Del resto è l’estremista filo-Nato Mario Draghi che si è contraddistinto nel sollecitare l’imposizione ai russi di un “price cap”, un meccanismo teso a porre un tetto al prezzo del gas da parte dei compratori: proposta che Bruxelles ha sin qui evitato di prendere in considerazione per evitare di irrigidire ulteriormente Putin. Ora Mario Draghi ha passato la mano; e siamo in attesa di leggere in dettaglio gli orientamenti programmatici – al di là delle mirabolanti promesse elettorali – del nuovo governo delle destre. Ma, dal profluvio di dichiarazioni della pseudo-sovranista Giorgia Meloni, è già del tutto chiara l’impronta atlantista del suo governo. Da Draghi a Meloni, nulla di nuovo sotto il sole (anche se a bassa voce e lontano da orecchie indiscrete si intona “faccetta nera”).

A costo di risultare ripetitivi, ribadiamo che un tale sconquasso economico-sociale è il frutto non di un destino cinico e baro ma delle ciniche – queste sì – e irresponsabili scelte dei nostri governanti e della loro acquiescenza ai diktat di Usa e Nato, alle aggressive imposizioni di un mondo unipolare che l’avanzare sulla scena internazionale della Cina e le relazioni di quest’ultima con la Russia – in sinergia con le aspirazioni di tutti i Paesi cosiddetti “emergenti” – hanno da tempo rimesso in questione.

Davanti al rincaro dei prezzi dell’energia e all’inasprirsi della congiuntura economica, la Bce – il cui prioritario mandato istituzionale è, come è noto, il controllo dei prezzi – ha recentemente deciso di intervenire con misure tese a comprimere la domanda interna e a raffreddare l’impennata inflattiva nel continente europeo. In tal senso, ha varato a più riprese un consistente rialzo dei tassi di interesse: cresce dunque l’onere pagato dalle banche dell’Eurozona per prendere soldi in prestito dalla Bce; e conseguentemente aumenta per famiglie e imprese il costo di prestiti e mutui a tasso variabile. Inoltre, per scongiurare un eccesso di glaciazione economica, la Bce ha anche previsto un nuovo programma di acquisto dei titoli pubblici dei Paesi più in difficoltà, che cioè presentino un incremento del famigerato spread (nel caso del nostro Paese, del differenziale tra i rendimenti dei Buoni del Tesoro Poliennali e i cosiddetti Bund, i titoli di Stato tedeschi). Ovviamente, tale aiutìno non sarà affatto gratuito: per averne titolo occorrerà infatti mettere la testa a posto e attuare politiche in linea con “i conti in regola”, ossia niente deficit eccessivi, sostenibilità del debito, rispetto degli impegni presi col PNRR (il Piano di ripresa e resilienza).

Questo è il contesto in cui ‘Il Sole 24 Ore’, il giornale padronale, faceva minacciosamente presente che nel nostro Paese 100 mila imprese, con 831 mila addetti e 107 miliardi di indebitamento, “sono a rischio fallimento”; e Il ‘Corriere della Sera’ invitava a decidere senza troppe storie “Salario minimo o contratto?”, lasciando intendere che l’uno non è economicamente compatibile con l’altro (così come, qualche decennio fa, ci si diceva che la “scala mobile” non è conciliabile con i contratti nazionali di lavoro). Chissà, forse anche in considerazione di un simile clima, per giunta in via di peggioramento, Mario Draghi ha pensato che convenisse non restare col cerino in mano e quindi passare la mano. In ogni caso, anche per il governo di Giorgia Meloni la strada è da lorsignori segnata. Per contrastare un tale prevedibile tsunami (di cui la tragica impennata delle bollette è l’effetto più visibile) avremo bisogno di una ricostituita sinistra di classe e di un forte partito comunista: obiettivi da perseguire con indomabile tenacia e lungimiranza.

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