Yemen, un’altra guerra infinita. Motivazioni e prospettive

di Maria Morigi

Prima regola da seguire:

“Non infognarti nello Yemen,

Seconda regola da seguire:

Non infognarti nello Yemen”.

Anonimo “patriota” yemenita

Yemen: un conflitto dopo 7 anni ancora irrisolto e quasi ignorato dai media. Ma partiamo dal retroterra del secolo scorso, dall’intervento di Nasser nel 1962 e dalla rivolta anticoloniale nel sud dello Yemen, appoggiata da Egitto e Unione Sovietica, che portò alla nascita nel 1967 della Repubblica popolare socialista yemenita con capitale Aden. A partire dal 1962 fino al termine della guerra nel 1970, l’occupazione militare egiziana, facendo uso indiscriminato di strumenti di guerra vietati dalla legge internazionale, provocò stragi di migliaia di persone. L’avventura di Nasser in Yemen si risolse in un disastro e fu una delle cause dell’altra disfatta subita dal Cairo nella guerra dei Sei Giorni (1967) che avviò la sistematica occupazione da parte dei sionisti degli spazi territoriali palestinesi.

L’impantanamento nei “killing fields” yemeniti rappresentò la definitiva eclissi dei disegni di espansione di un leader che non aveva saputo valutare l’importanza e il contesto reale dei conflitti etnici – tra le tribù del nord e quelle di matrice marxista del sud  del Paese – che dividevano lo Yemen in due entità politicamente separate. La guerra si concluse con la vittoria della fazione repubblicana e la rinuncia da parte dell’Arabia saudita di restaurare in Yemen una monarchia. Da quel momento e fino all’ingresso nello scenario politico di Ali Abdullah Saleh, lo Yemen conobbe anni di relativa pace e stabilità. 

Dopo l’assassinio del Presidente Ahmad al-Ghashmi, si aprì un nuovo capitolo con l’irruzione nella scena politica del Rais Ali Abdullah Saleh, che, nominato Presidente del Nord Yemen nel 1978, rimase in carica fino al 1990 divenendo il primo Presidente dello Yemen unificato. Abdullah Saleh fu privato del potere nel 2012 dalla spinta popolare e scomparve nel dicembre 2017 nel momento in cui si accingeva a consumare l’ennesimo tradimento a danno degli Houthi, con i quali aveva stretto alleanza in chiave anti-saudita.

Il più importante risultato di Saleh fu quello di aver unificato il Paese. In realtà tale risultato era il frutto di una politica che rifiutava le priorità della defunta monarchia yemenita (difesa di valori identitari e contrasto alle pressioni del Regno Unito e degli USA attraverso il loro storico alleato, l’Arabia saudita), facilitando l’integrazione dello Yemen nel mercato globale. L’autoritarismo di Saleh si fondava sui contatti con i conglomerati finanziari ed industriali angloamericani attraverso i quali sfruttare le ricchezze energetiche del Paese, concentrate nelle province di Marib e di Shabwa (centro e sud dello Yemen). 

Se gli anni precedenti l’unificazione videro mercantilismo, corruzione e  malaffare, la definitiva unità del Nord e del Sud Yemen creò il quadro politico-istituzionale perché potessero avere luogo investimenti cospicui e garantì l’integrazione dell’economia yemenita nel mercato mondiale. Tuttavia si rivelò anche un processo gestito dai globalisti liberali e non fece che provocare disillusioni e acuire ostilità tra gruppi di potere e pulsioni secessioniste specie nel sud-ovest del Paese, sfruttato a beneficio delle regioni del nord. 

Dopo quattro anni (maggio 1994) scoppiò la rivolta armata delle forze del sud, riunite nel movimento indipendentista Hirak (Movimento popolare) di ideologia socialista, che  si concluse dopo tre mesi con una repressione feroce ordinata da Saleh, sostenuto occasionalmente dal potente gruppo islamista di al-Islah (“Riforma”). I cruenti eventi di quell’anno fecero sì che lo schieramento separatista degli Houthi da forza clandestina diventasse una vera formazione politico-militare.  

La Primavera araba nel 2011 e l’occupazione di Sana’a da parte degli Houthi nel 2014 diedero nuovo vigore alle aspirazioni indipendentiste del sud dello Yemen, ma scatenarono anche la guerra civile e l’intervento saudita con massicci bombardamenti. Ed è nell’aprile 2015 (Presidenza Obama) che fu approvata dal Consiglio di Sicurezza ONU la Risoluzione 2216in cui – in piena sintonia con gli interessi sauditi – si imputava l’esclusiva responsabilità del conflitto agli Houthi, destinatari dell’embargo militare, e si autorizzava il blocco navale ed aereo che ha continuato a produrre i suoi deleteri effetti fino ad oggi.

Mi soffermo ora sul gruppo etnico e militante degli Houthi (in arabo: al-Ḥūthiyyūn) dipinti dalla stampa come i maggiori responsabili di atrocità, mentre cala il silenzio sui massacri perpetrati dall’Arabia saudita e nessun giornalista si interessa a formazione, ideologia e motivazioni del gruppo stesso. Gli Houthi sono un movimento armato sciita zaydita che si definisce “Partigiani di Dio” o “Gioventù credente”, nato nel 1994 ma diventato attivo in funzione anti-governativa dopo il 2004. Si caratterizzano per un’ ideologia antioccidentale, antisionista (ma non antisemita), incline al nazionalismo e alla giustizia sociale, ma soprattutto filo-iraniana. Per maggiore chiarezza: lo zaydismo è una delle varianti dello sciismo islamico e diffuso nel solo Yemen con una dottrina ricca d’implicazioni  sociali; quest’ultima componente lo rende pericoloso -agli occhi del potere islamico sunnita prevalente negli Stati del Golfo-  per la presenza di elementi giudicati dal sunnismo “estremistici” o “esagerati”. Lo zaydismo infatti, insieme al movimento sciita-kharigita, propone la deposizione dell’Imam in caso d’inadempienza, prescrive che il potere legittimo sia esercitato solo da chi dimostri di saper guidare i musulmani contro usurpatori e oppressori.

Tali sommarie informazioni sul movimento militante Houthi inducono a considerare quanto poco gli strateghi della geopolitica sappiano delle forze / fazioni in campo e quanto poco conoscano la natura dello scontro in atto nel mondo islamico. Procedere per semplificazioni di comodo e dividere la realtà tra “buoni” (alleati con gli USA) e “cattivi” (alleati con l’Iran) non renderà facile trovare soluzione per la crisi yemenita, così come non ha portato alcuna soluzione per l’Afghanistan. 

Ed è singolare che, prima dell’aggressione saudita, ci fosse assonanza tra i comandi militari USA e gli Houthi nell’azione di contenimento della locale branca di al-Qaeda, per cui ancora di più stupisce che il “Joint Statement” (sottoscritto in marzo 2021 da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania ed Italia) condanni la milizia Houthi per l’aggressione all’Arabia saudita e l’offensiva di Marib iniziata nel marzo 2021, ma non menzioni affatto i bombardamenti aerei indiscriminati di Riyadh che hanno massacrato civili e distrutto luoghi di raccolta di derrate alimentari.

Ora ci si deve porre l’obiettivo di come lo Yemen possa non solo recuperare la propria configurazione territoriale, ma anche creare le condizioni per un percorso autosufficiente affrancato dai condizionamenti e dalle interferenze esterne. Ma tutti gli sforzi negoziali sembra siano ad un “punto morto”: anche il nuovo inviato ONU per lo Yemen, Hans Grundberg, non è approdato ad alcun concreto risultato. Tuttavia la strada da percorrere sarà inevitabilmente quella diplomatica: porre freno all’escalation militare con la fine del blocco aereo e navale, che è la causa della catastrofe umanitaria e non produce risultati dal punto di vista militare; coinvolgere gli Houthi nel processo di pace, rendendoli co-responsabili di esso; avviare un percorso di accordo con l’Iran sul dossier nucleare; avviare un processo di definitiva revisione della Risoluzione 2216 dell’ONU. Inoltre nel processo di riabilitazione dello Yemen dovranno impegnarsi quegli stessi Paesi che, in veste di occupanti, hanno acquisito vantaggi strategici ed economici.

Citando Nader Hashemi, Direttore del Centro Studi Medio Oriente dell’Università di Denver, l’ex diplomatico Angelo Travaglini, che attualmente si occupa del quadro politico del MENA (Middle East North Africa) per l’area della Penisola arabica e del Levante,  sostiene: “lo Yemen, se perdurasse questa situazione, finirebbe per diventare un’area infestata dalla militanza jihadista, includendovi il terrorismo dell’ISIS, Il che potrebbe fare di quel Paese una sorta di Baluchistan della Penisola arabica, fonte di perenne instabilità per la regione sulle  sponde del Mar Rosso. Si assisterebbe  ad uno scontro senza fine tra la galassia sunnita nelle sue varie ramificazioni, interne ed esterne, e la resistenza degli Houthi, determinati a preservare il loro ruolo di autentica forza nazionale…”. Parere che, alla luce di quanto conosco su Islam, militanze armate e integralismi, mi sento di condividere pienamente