Xinjiang, colonia penale high-tech e la vita “disumanizzata”

di Maria Morigi

Ci sono persone e studi che mi proiettano nella dimensione Blade Runnerho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi… E così entro in ansia, anche se leggo solo alcune interviste a Darren Byler, Ph.D., Sociocultural Anthropology, University of Washington 2018, Assistant prof. School for International Studies, Simon Fraser University di Vancouver, British Columbia. 

Darren Byler nel suo ultimo “In the Camps” dipinge lo Xinjiang come “colonia penale cinese ad alta tecnologia“, dove la sorveglianza è ovunque e “i campi sono un costante promemoria di ciò che attende chiunque selezioni la casella sbagliata in un algoritmo invisibile”. Il libro utilizza testimonianze di ex-detenuti ed ex-lavoratori nei campi di internamento, nonché documenti governativi. Devo confessare che non avendolo letto integralmente, mi affido all’intervista rilasciata dall’autore a Shannon Tiezzi di The Diplomat[1], in cui si esplicita l’obiettivo finale del libro e cioè: sorveglianza di massa e internamento nello Xinjiang sono un test delle “capacità di condurre una sofisticata invasione, occupazione e trasformazione di spazi che erano ai margini del controllo cinese”. Praticamente un progetto di tipo coloniale.

Poiché un antropologo che vuol dimostrare una tesi mi piace molto meno di uno storico, avrei l’esigenza di 1- individuare una prospettiva storico-tecnico-giuridica credibile; 2- discutere sul metodo di indagine, ovvero l’uso continuo di interviste-testimonianze al fine di avvalorare ipotesi di lavoro e tesi finale. 

Davvero le interviste sono in grado di trattare esaurientemente un problema e soprattutto rispondere a richieste di chiarimento? Che io sappia le interviste sono solo “episodi” parziali di un quadro, possono essere manipolate e adattate. E per rendere chiaro il quadro Xinjiang, ci sarebbe necessità di ben altre informazioni su meccanismi di funzionamento dell’autonomia regionale, etnicità, pratica e libertà religiosa, regolamentazione del lavoro di residenti – migranti – lavoratori occasionali, sistema educativo primario e di alta formazione, programmi e progetti ecologico-ambientali, sistema di sorveglianza e detenzione, leggi antiterrorismo adeguate alle minoranze religiose, ecc… Cioè sarebbe il caso di conoscere quello che da un lato rientra nel processo decisionale democratico esercitato nelle regioni autonome, dall’altro rientra nella strategia governativa cinese per produrre stabilità permanente e alleviamento dalla povertà. 

Premesso che l’obiettivo dell’intervista non è mai “asettico”, ecco che interviste abilmente pilotate – ad esempio, sulla percezione di repressione/controllo di polizia/sicurezza – piuttosto che chiarire il quadro, lo offuscano, facendo emergere esigenze e punti di vista individuali. Né sorprendono i “risultati/scoperte” dell’intervistatore Byler, ovvero che la fiducia degli intervistati di gruppi etnici turchi è sempre stata fuorviata dallo Stato cinese, che solo i funzionari statali di minoranza e il personale di sicurezza possono sentirsi “sicuri”, avendo essi stessi assunto un ruolo attivo nella campagna di internamento di massa. 

Eppure avrei anch’io testimonianze di segno opposto, voci registrate in diretta alle periodiche Conferenze di Pechino sullo stato di cose nella Regione Autonoma Xinjiang. Tutte voci che narrano un’altra storia e smascherano accuse false e pre-costruite, come il genocidio, la sterilizzazione e i lavori forzati.

Ma veniamo al punto di maggior allarme per Byler, costituito dagli strumenti forensi digitali utilizzati per scansionare gli smartphone e acquistati da agenzie di frontiera e aeroporti internazionali in tutto il Paese e persino (orrore!) da dipartimenti di polizia interna nelle aree delle minoranze etniche di Ningxia, Sichuan, Yunnan. In realtà bisognerà arrendersi – diciamo noi che non facciamo gli antropologi con tanta passione- in tutta la Cina hanno sviluppato sistemi di sorveglianza biometrica (scansioni facciali, tracciamento ecc.) per far rispettare le leggi sul traffico, facilitare l’infrastruttura economica e l’attività di polizia. Eppure, a pagare le tristi conseguenze della brutalità poliziesca e a lamentarsi dell’invasività dello Stato nelle vite private, secondo Byler, sembra ci siano solo i malcapitati Uiguri e i Tibetani. 

E qui, di nuovo, ci sarebbe da prestare meno attenzione alla forma piuttosto che ai contenuti, cioè alle origini delle rivendicazioni di autonomia e autodeterminazione di Uiguri e Tibetani. Temi affrontati da Byler con un’ imperdonabile carenza di metodo (le interviste al passato di solito sono immaginarie!), per cui non si indaga su chi finanziava l’ideologia pan-turca e/o pan-russa del Turkestan orientale in anni non lontani, o finanziava il terrorismo di matrice jihadista e l’ esilio del Dalai Lama a Dharamsala. Alla faccia dell’antropologia culturale, emerge incompetenza e superficialità su troppe questioni: Islam politico, fattori ideologici motivanti il multiforme fenomeno del terrorismo, concreti pericoli di secessione, filiazioni di sette religiose radicali… tanto per dirne qualcuna.

Nel libro “In the Camps”, un dibattito più interessante è relativo all’etica della tecnologia d’avanguardia e alla complicità delle aziende tecnologiche statunitensi nei crimini contro l’umanità. In effetti, le aziende cinesi hanno imparato dagli Stati Uniti, sia attraverso l’osservazione, sia tramite partnership dirette. Le tecnologie utilizzate in Xinjiang sono in gran parte le stesse utilizzate nei contesti di confine in America e i cinesi non stanno facendo qualcosa di insolito, al contrario, seguono gli stessi standard etici delle aziende che, con sede negli Stati Uniti, assistono l’esercito e la polizia statunitensi. Byler si domanda quindi quale sia la relazione tra tecnologia di sorveglianza automatizzata e potere statale. Ma questo è un problema che, a ragion veduta, non investe il solo Xinjiang, anzi sarebbe degno di una trattazione del tutto super partes.

Infine, per motivi etici, accenno ad un articolo [2] di Darren Byler e Ivan Franceschini (27 dicembre 2021) dal significativo titolo “Primo Levi, la questione del potere nei campi e il capitalismo del terrore: una conversazione con Darren Byler” in cui Franceschini chiede “Cosa può dire lo scrittore Primo Levi, sopravvissuto all’Olocausto, sui campi di rieducazione nel Xinjiang di oggi? Che ruolo ha il lavoro in queste strutture? Cos’è il capitalismo del terrore e in che modo è collegato alle altre frontiere del capitalismo globale? Può esistere una sorveglianza “benevola”? [….]l’antropologo Darren Byler è diventato una voce di primo piano nel documentare la detenzione di massa degli Uiguri e delle altre minoranze musulmane del Nord-ovest della Cina” (Quali “altre”?. Visto che, Hui a parte, non mi risulta ce ne siano “altre” e che tutte vivano in piena distensione n.d.r.)

Colpisce il gratuito paragone storico, ma soprattutto colpisce che si scomodi la memoria di Primo Levi per ricercare modelli comuni tra gli internati nei campi in Xinjiang e l’ esperienza di Levi nei lager nazisti. 

Lascia senza parole l’utilizzo improprio – ma senz’altro efficace – del tema della “disumanizzazione del prigioniero”, applicato disinvoltamente ad una situazione del tutto difforme, lontana nel tempo e nello spazio geografico. Ma tant’è al nostro giovane antropologo viene chiesto: “Questo processo di disumanizzazione come si manifesta oggi nei campi del Xinjiang?. Non riuscendo a dare risposte coerenti con la Storia, si immagina che la Cina sia impedita a mantenere il sistema-campi a causa della crescente e umanitaria pressione internazionale sul tema dei Diritti. Oggi infatti in Xinjiang – azzarda Byler – si è passati da una fase di “detenzione di massa attiva” a una fase di “incarcerazione di massa formale e incarichi di lavoro in fabbriche cartolarizzate”. Per di più sarebbe in atto una cancellazione delle prove sia materiali che digitali del sistema dei campi, nascondendo ex detenuti e facendo finta che non sia successo nulla. 

Si approda infine alla certezza ad uso e consumo dell’Occidente: “in Xinjiang è in atto un PROCESSO DI ESPROPRIAZIONE COLONIALE e questo sistema di DOMINIO INESORABILE e INTIMO provoca un trauma che a lungo sarà sentito dalle generazioni future”. Di fronte a tante consolidate verità antropologiche e a tanta congruenza conclusiva, che cosa resta mai da dire a noi sbalorditi lettori e osservatori???

Note:

  1. https://thediplomat.com/2021/10/darren-byler-on-life-in-xinjiang-chinas-high-tech-penal-colony/?_x_tr_sl&_x_tr_tl&_x_tr_hl https://www.dinamopress.it/news/primo-levi-la-questione-del-potere-nei-campi-e-il-capitalismo-del-terrore-una-conversazione-con-darren-byler/?fbclid=IwAR06_i36F8OY9MoIPaJu0fjV4GRusEmTTVumGaC9QuA5rB_n3N9hQpJbTAU
  2. Ivan Franceschini: Marie Curie Fellow all’Università Ca’ Foscari di Venezia e all’Australian Centre on China in the World di Canberra con un progetto sul lavoro cinese in prospettiva globale (2019). Dal 2006 al 2015 ha vissuto in Cina, dove ha condotto ricerche sui temi del lavoro e della società civile e ha collaborato a vari progetti di cooperazione sui diritti dei lavoratori migranti.