di Giulio Chinappi
da https://giuliochinappi.wordpress.com
Lo scorso 6 ottobre si sono tenute in Tunisia le elezioni presidenziali, che hanno confermato Kaïs Saïed alla guida del Paese. Nonostante il boicottaggio dei principali partiti e le critiche da parte dell’opposizione, Saïed ha ottenuto un’ampia vittoria.
Lo scorso 6 ottobre si sono tenute in Tunisia le elezioni presidenziali, che rappresentavano un importante test per il sistema politico tunisino, segnando la prima consultazione elettorale dalla promulgazione della Costituzione del 2022 voluta dall’attuale presidente Kaïs Saïed. La tornata elettorale ha visto la conferma del presidente in carica, al vertice dello Stato dal 2019, in un contesto politico segnato da polemiche, proteste e accuse di repressione.
Il processo elettorale tunisino è stato fortemente criticato sia a livello interno sia internazionale. Solo tre candidati sono infatti stati autorizzati a competere nella corsa presidenziale: Kaïs Saïed, il nazionalista di sinistra Zouhair Magzhaoui, rappresentante del Movimento Popolare Echaab, considerato da molti un candidato di facciata che sostiene l’attuale governo, e Ayachi Zammel, leader del partito Azimoun, attualmente incarcerato. La gran parte degli esponenti politici che avevano espresso l’intenzione di candidarsi non ha superato la selezione della Commissione Elettorale Indipendente, che diversi osservatori ritengono essere diventata un’estensione del potere esecutivo di Saïed.
La Commissione ha infatti dichiarato non idonei 14 dei 17 candidati che avevano presentato la loro candidatura. Tuttavia, tre di questi – tra cui ex ministri e leader dell’opposizione – sono riusciti a vincere il ricorso davanti al Tribunale Amministrativo. Nonostante ciò, la Commissione ha ignorato la sentenza del tribunale e ha confermato la lista dei tre candidati approvati. Secondo gli osservatori, questo episodio ha rappresentato uno dei tanti segnali della progressiva erosione dell’indipendenza giudiziaria nel Paese. Pochi giorni dopo, il parlamento tunisino, controllato dalle forze favorevoli a Saïed, ha approvato una legge che ha tolto al Tribunale Amministrativo ogni autorità elettorale, eliminando di fatto qualsiasi forma di supervisione giudiziaria indipendente sul processo elettorale.
Il presidente in carica, Kaïs Saïed, è dunque stato il protagonista indiscusso di queste elezioni. Ex docente di diritto costituzionale, è stato eletto presidente nel 2019 con un programma incentrato sulla lotta alla corruzione e sulla giustizia sociale. Tuttavia, a partire dal luglio 2021, Saïed ha adottato un approccio meno democratico, sciogliendo il parlamento, destituendo il primo ministro e governando per decreto. Queste azioni hanno portato alla redazione di una nuova costituzione, che ha consolidato il suo potere e limitato notevolmente le prerogative del parlamento.
La seconda candidatura rilevante, come detto, è stata quella di Ayachi Zammel, leader del partito liberale Azimoun. Nonostante la sua detenzione, Zammel ha mantenuto il diritto a partecipare alle elezioni. Tuttavia, la sua campagna elettorale è stata fortemente limitata a causa delle accuse di falsificazione dei documenti elettorali, che Zammel e i suoi sostenitori hanno definito politicamente motivate.
Il terzo candidato, Zouhair Magzhaoui, leader del movimento Echaab, è considerato vicino al presidente Saïed. Magzhaoui ha sostenuto le riforme costituzionali promosse da Saïed, affermando che erano necessarie per salvaguardare lo Stato dalla corruzione. Secondo gli osservatori, dunque, la sua candidatura non ha rappresentato un reale elemento di competizione, contribuendo ad alimentare le critiche verso il processo elettorale.
Oltre all’esclusione di ben quattordici candidati, il contesto elettorale è stato caratterizzato da un clima di crescente repressione. Molti dei principali esponenti dell’opposizione sono stati arrestati, inclusi i leader di partiti storici come Ennahda (Ḥarakat al-Nah
a, lett. Movimento della Rinascita). In particolare, l’opposizione ha messo sotto la lente d’ingrandimento il decreto 54, che criminalizza i discorsi online ritenuti falsi, ed ha portato all’arresto di numerosi giornalisti e critici del governo.
L’atmosfera di tensione ha portato a un ritorno delle proteste nelle strade di Tunisi nelle settimane precedenti le elezioni. Manifestanti provenienti da diversi schieramenti politici hanno richiesto elezioni libere e trasparenti e la fine della repressione nei confronti dei dissidenti. Tuttavia, queste proteste non hanno raggiunto una massa critica sufficiente per influenzare l’esito elettorale.
I risultati preliminari hanno infatti indicato una vittoria schiacciante di Kaïs Saïed, con il 90,7% dei voti, ma con un’affluenza alle urne pari a solamente il 28,8% degli aventi diritto. Secondo gli osservatori, questo dato sottolinea la profonda divisione all’interno della società tunisina e la diffusa disillusione verso la politica elettorale. La bassa partecipazione riflette non solo il boicottaggio da parte di molti partiti politici, ma anche la disillusione di larga parte della popolazione nei confronti delle istituzioni e della democrazia rappresentativa.
Il discorso di Saïed dopo la vittoria ha dato un assaggio di ciò che potrebbe essere il suo secondo mandato. Il presidente ha promesso di continuare la “rivoluzione” e di “purificare il Paese dai corrotti, dai traditori e dai cospiratori“, una retorica che ha preoccupato ulteriormente gli osservatori internazionali e gli oppositori interni, che temono che questa retorica possa essere un preludio a una nuova ondata di repressione contro le forze contrarie all’attuale governo.
Contestualizzando le recenti elezioni presidenziali nell’ambito della storia recente del Paese sudafricano, ricordiamo che dopo le rivolte del 2011, che aveva portato alla caduta del regime di Zine El-Abidine Ben Ali e inaugurato un periodo di transizione democratica, la Tunisia era stata considerata l’unico “successo” delle cosiddette “primavere arabe”. Tuttavia, la situazione economica e sociale del Paese, caratterizzata da alti tassi di disoccupazione e da una crisi economica persistente, ha ben presto alimentato il malcontento popolare e la sfiducia nei confronti dei partiti politici tradizionali.
Il potere di Kaïs Saïed è stato visto da molti come una risposta a questa crisi di legittimità della classe politica tunisina. Tuttavia, la sua gestione autoritaria del potere e la repressione delle libertà fondamentali hanno sollevato preoccupazioni sul futuro della democrazia nel Paese. Molti osservatori si chiedono se la Tunisia sia destinata a tornare a una situazione simile a quella precedente il 2011, con un leader carismatico in grado di mantenere le redini del potere per lungo tempo, senza margine di manovra per l’opposizione.
In questo contesto dobbiamo inserire anche il ruolo dell’Unione Europea, che ha mantenuto una posizione ambigua riguardo alle elezioni tunisine. Da un lato, l’UE ha continuato a fornire supporto finanziario alla Tunisia, in particolare per contrastare la migrazione irregolare verso il nostro continente. Dall’altro, le critiche ufficiali nei confronti della gestione autoritaria di Saïed sono state rare, riflettendo una preoccupazione maggiore per la stabilità del Paese e per la gestione delle rotte migratorie rispetto alla promozione della “democrazia” e dei “diritti umani”, stendardi che vengono sventolati sempre e solo a convenienza da parte delle potenze occidentali.
Sebbene non sia nella situazione della Libia, la Tunisia ospita decine di migliaia di migranti e rifugiati provenienti dall’Africa subsahariana, molti dei quali vivono in condizioni di estrema difficoltà mentre attendono la possibilità di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa. In questo contesto, la priorità dei leader europei sembra essere quella di garantire la cooperazione con il governo tunisino per controllare i flussi migratori, anche a costo di chiudere un occhio sull’attuale situazione politica del Paese.
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