un interessante contributo
di Dipartimento Esteri FGCI
A trentaquattro anni dai fatti di piazza Tienanmen, torniamo sugli avvenimenti di quei giorni per spiegare gli eventi chiave e riflettere criticamente sulla risonanza che quelle proteste hanno avuto in Occidente, e in che termini.
Partiamo da una narrazione che non è affatto la nostra, probabilmente però tra le più diffuse: il comunicato stampa dell’anno scorso del Segretario di Stato statunitense Antony Blinken.
«Decine di migliaia di manifestanti a favore della democrazia si sono riuniti pacificamente per chiedere democrazia, responsabilizzazione, libertà e stato di diritto. La protesta di 50 giorni si è conclusa bruscamente il 4 giugno 1989, con un brutale assalto da parte dell’esercito della Repubblica popolare cinese (RPC). Innumerevoli sono stati imprigionati e il numero di morti è ancora oggi sconosciuto».[1]
Che gli Stati Uniti e i suoi alleati possano mentire per salvaguardare gli interessi della propria classe dominante non è certo una novità, pertanto è legittimo interrogarsi sulla veridicità delle parole di Blinken: lo faremo utilizzando principalmente fonti insospettabili di simpatie comuniste.
Il primo tema che emerge è quello degli studenti “a favore della democrazia”. La retorica liberale imperante ha come elemento ideologico fondante la mitologia della democrazia e, per quanto quest’ultima rimanga un concetto spesso difficile da definire, è lecito supporre che Blinken intenda lo stile di governo di stampo occidentale. James Kynge, giornalista per Reuters e il Financial Times, nonché presente nella Repubblica Popolare Cinese al tempo delle proteste, in un articolo del 2009 critica espressamente la nozione dei protestanti come “pro-democrazia”: Kynge afferma piuttosto che il malcontento era diretto principalmente al «tradimento degli ideali socialisti» e che «gli studenti in piazza avevano solo la più confusa comprensione della democrazia in stile occidentale».[2]
Non è difficile intuire che i cinesi difficilmente potrebbero essere entusiasti del tipo di governo che, in seguito alle guerre dell’oppio nel diciannovesimo secolo, li ha scaraventati in quello che è divenuto noto come il “secolo dell’umiliazione”, segnato dalla miseria e da una sanguinosa dominazione straniera. Per citare un episodio inglorioso, si può ricordare il comportamento degli eserciti delle “democrazie” in occasione della repressione della rivolta dei Boxer, a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo:
«Ha allora inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran lunga tutti gli eccessi compiuti dai boxer. A Pechino migliaia di uomini vengono massacrati in un’orgia selvaggia: le donne e intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore; tutta la città è messa al sacco, il Palazzo imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato della maggior parte dei suoi tesori».[3]
Seguendo la pista di Kynge, è opportuno approfondire perché parte della popolazione percepiva una sorta di tradimento degli ideali socialisti e come nacquero i primi movimenti di protesta. Durante il periodo della “riforma e apertura”, Deng disse significativamente che «Se si aprono le finestre, entreranno sia l’aria fresca sia le mosche»; e aveva ragione: problemi come l’inflazione e la corruzione non erano infatti mai stati così sentiti dalla popolazione come in quegli anni. La descrizione di un rapporto della CIA del 9 febbraio 1989, adesso parzialmente declassificato, parla chiaro a riguardo:
«Nel 1989 era diventato evidente che c’erano seri problemi con l’ambizioso pacchetto di riforme economiche della Cina. La corruzione del governo era dilagante e i prezzi dei beni di consumo, che erano rimasti fissi fino al 1984, stavano ora salendo alle stelle senza controllo mentre i cinesi, molti per la prima volta in assoluto, sentivano gli effetti dell’inflazione».[4]
Le politiche più aggressivamente a favore dell’apertura al libero mercato erano la principale causa del malcontento. Robert Kuhn nel suo libro su Jiang Zemin riporta una battuta al riguardo:
«”Ogni volta che vedevamo il segretario generale Zhao in televisione”, ha commentato un funzionario cinese, “i suoi capelli erano diventati più bianchi”». I problemi erano però riconosciuti dal Partito Comunista Cinese, che vedeva benevolmente i protestanti considerati “patriottici”. A riconferma di ciò, basti ricordare che, in qualità di portavoce del Consiglio di Stato, Yuan Mu fosse stato invitato dagli studenti manifestanti durante le proteste di piazza Tiananmen a un forum il 29 aprile 1989. Mu ha sottolineato il patriottismo e le buone intenzioni della maggior parte dei manifestanti e ha identificato i loro obiettivi come non diversi dagli obiettivi del governo. Il 20 maggio, a poche settimane dallo sgombero della piazza, durante il discorso col quale si dichiarò la legge marziale, Li Peng sosteneva ancora: «Il nostro partito e il nostro governo hanno sottolineato più e più volte che la grande vastità di giovani studenti è di buon cuore, che soggettivamente non vogliono tumulti, e che hanno fervente spirito patriottico, desiderando di portare avanti le riforme, sviluppare la democrazia e superare corruzione. Ciò è anche in linea con gli obiettivi che il partito e il governo si sono sforzati di realizzare».[5]
Nonostante la presenza di tali gruppi patriottici e filogovernativi, non mancavano tuttavia nei moti di protesta anche elementi reazionari e controrivoluzionari, collaboratori di ONG e servizi sotto copertura britannici e statunitensi. Perché no, coinvolti allora nelle proteste non furono soltanto elementi patriottici e a favore del governo, men che meno soltanto studenti. È importante a questo punto ricordare che
«nel contesto cinese del tempo, gli studenti sono un gruppo di persone estremamente privilegiato, che molti, soprattutto altri giovani, invidiano. La Cina era un paese del Terzo Mondo, in cui 20 milioni di persone dipendono dai sussidi di grano dello stato per evitare la fame. Solo una quantità limitata delle risorse della nazione poteva essere destinata all’istruzione superiore o anche secondaria. Di conseguenza, solo un piccolo numero di coloro che desideravano proseguire gli studi aveva la possibilità di farlo in un ambiente universitario».[6]
Le preoccupazioni sui prezzi correlati all’inflazione per gli studenti più benestanti non erano infatti strettamente legate all’affrancamento da una propria condizione di miseria:
«Le lamentele erano fortemente sfumate di elitarismo. Studenti e abitanti delle città non erano contenti di vedere contadini e agricoltori stare così bene rispetto a loro. Questa ansia economica si era manifestata un anno prima a Nanchino, dove gli studenti colpiti dai tagli ai sussidi per le tasse scolastiche avevano sfogato la loro rabbia sugli studenti africani in scambio. […] Dal dicembre 1988 al gennaio 1989, gli studenti di Nanchino, in Cina, hanno condotto violente proteste contro gli studenti africani in visita. Alcune delle scritte sui cartelli dei manifestanti erano rivelatrici: come la maggior parte degli studenti stranieri, gli africani godevano di migliori standard di vita in Cina e frequentavano alcune donne locali. Tra i segni nella folla a Hehai alla vigilia di Natale del 1988 c’erano cartelli che chiedevano maggiore democrazia insieme a quelli che proclamavano “morte ai diavoli neri”».[7]
Il carattere elitista di alcune frange studentesche è ulteriormente illustrato da alcune citazioni tratte da manifesti e volantini degli studenti, raccolti da Deng Liqun per la Segreteria del Partito, come: «Che diritto ha la classe operaia di esercitare la leadership su tutti gli altri? […] Ora in Cina le persone non si differenziano per classe sociale ma per livello di istruzione. Chi ha la capacità ha il diritto di guidare». E ancora: «Qual è la via d’uscita della Cina? Il sistema della proprietà privata! La proprietà privata di un’economia libera e di una società basata su un’economia libera!».[8] Non solo parole: l’ostilità verso la classe operaia si articolava anche attraverso azioni dirette in piazza. Difatti, dinanzi alla mobilitazione di alcune organizzazioni operaie a supporto delle proteste di quelle settimane, esse in certi casi sono state accolte con disprezzo dalle frange studentesche più oltranziste. Così gli attivisti della Federazione Autonoma dei Lavoratori di Pechino hanno subito lo stesso trattamento riservato al Sindacato dei Lavoratori Edili: gli studenti erano riluttanti a incontrarli, picchetti studenteschi li allontanavano sempre. Nonostante dunque le formali alleanze “di piazza”, nei fatti le differenze educative e di classe ostacolavano continuamente il moto di protesta generale tanto difeso in Occidente; connotandolo politicamente. Dopotutto gli studenti non erano “lao baixing” (persone comuni), e la loro condizione privilegiata li spingeva ad assumere una certa diffidenza nei confronti delle richieste economiche avanzate dai manifestanti della classe operaia. Come se non bastasse, ad un certo punto si pose pure un problema di leadership sul movimento di protesta: e allora fu ancora più chiaro come gli studenti più elitisti volessero mantenere il movimento esclusivamente sotto il proprio controllo. Lungi dall’essere una falsa accusa, questa è stata proprio la constatazione felicemente confermata da Wang Dan, leader studentesco all’epoca dei fatti di Piazza Tienanmen, in un’intervista del 1989 al New York Times: «Il movimento non è pronto per la partecipazione dei lavoratori perché la democrazia deve prima essere assorbita dagli studenti e dagli intellettuali prima che possano diffonderla ad altri».[9] Nei primi giorni di protesta, gli studenti arrivarono persino a isolare le loro stesse frange affinché la “plebe” non potesse protestare con loro. Testimoni oculari raccontano la loro esperienza:
«I manifestanti alla periferia della parata tenevano dello spago da imballaggio di colore rosa che circoscriveva i manifestanti. Doveva escludere chiunque altro. Se non eri uno studente di quella particolare scuola, non potevi semplicemente unirti alla loro marcia. Non volevano nemmeno che nessuno marciasse accanto a loro: forse ho camminato per un isolato, facendo domande su quali fossero le loro richieste e cosa sperassero di ottenere, e in pratica mi è stato detto di andarmene».[10]
Ma varie spaccature all’interno del movimento di protesta si cominciano a insinuare anche a seguito di alcuni comportamenti schizofrenici assunti proprio dalle frange studentesche più oltranziste nella lotta, incomprensibili a quella parte di manifestanti scesa in piazza per delle chiare ragioni. Si prenda in considerazione tale passaggio:
«[la Federazione Autonoma dei Lavoratori di Pechino] ha iniziato a perdere la pazienza quando gli studenti sulla piazza hanno cominciato a cambiare atteggiamento nei confronti del [Segretario Generale] Zhao Ziyang e delle persone intorno a lui. Non appena Zhao Ziyang è andato [in piazza] e ha pianto, le parole degli studenti sono cambiate. Ora stavano dicendo che Zhao Ziyang sarebbe stato rimosso dal potere, che Zhao Ziyang era buono, che avremmo dovuto proteggerlo».[11]
L’atteggiamento affettuoso degli studenti più borghesi nei confronti di Zhao è emblematico: la scintilla che accese le proteste di piazza era seguita anche allo shock inflazionistico causato proprio dalle riforme economiche promosse da Zhao, in origine al centro dell’ira dei manifestanti. Storie di corruzione ufficiale avevano anche unito varie fazioni di manifestanti, con volantini che chiedevano esplicitamente «Quanto paga Zhao Ziyang per giocare a golf?».[12] Qualcosa non tornava. Solo più tardi si scoprirà come alcuni dei più stretti collaboratori di Zhao Ziyang parteciparono all’operazione di contrabbando della CIA denominata “Yellowbird”. Ce lo rivela, ancora una volta, una fonte certamente non di parte:
«Usando appartamenti sicuri, certificati medici che nascondevano messaggi criptati e le oliate rotte del contrabbando tra Hong Kong e la Cina meridionale, sono stati messi al sicuro anche Chen Yizi e Yan Jiaqi, già consiglieri politici del leader riformista Zhao Ziyang appena epurato dal Partito e finito agli arresti domiciliari a Pechino».[13]
Vedremo in seguito come tal genere di collaborazioni si estese anche ai leader più intransigenti del movimento.
Ma torniamo alla piazza. Le proteste di quelle settimane si svolsero per la maggiore in maniera del tutto pacifica: non è difficile trovare infatti foto o video di soldati disarmati e studenti pacifici e amichevoli fianco a fianco. A questo proposito si può citare la fortunata esperienza di Shanghai, che si concluse pacificamente:
«I vostri sentimenti patriottici sono lodevoli – Jiang Zemin ha detto agli studenti attraverso l’altoparlante – e anche le vostre ragionevoli aspirazioni di opporsi alla corruzione, approfondire le riforme e promuovere la democrazia sono identiche agli obiettivi del Partito e del governo. Ci stiamo impegnando per raggiungere questi obiettivi. Un compito prioritario ora è proteggere la salute degli studenti in sciopero della fame. Voi rappresentate il futuro e le speranze del nostro Paese, e dovete mantenervi in buona salute per studiare bene e contribuire alla costruzione del socialismo».[14]
A riconferma di ciò, nei Tienanmen Papers si legge che «Il 20 maggio Yang Shangkun (presidente della Repubblica Popolare e stretto collaboratore di Deng Xiaoping) promulgò una serie di ordini simili, in cui intimava ai soldati di non rivolgere le armi sui civili inermi anche se provocati». Durante una riunione allargata della Commissione centrale militare dello stesso giorno si ribadiva inoltre che «se dovesse capitare che le truppe subiscano percosse o maltrattamenti fino alla morte da parte delle masse oscurantiste, o se dovessero subire l’attacco di elementi fuorilegge con spranghe, mattoni o bombe molotov, esse devono mantenere il controllo e difendersi senza usare le armi. I manganelli saranno le loro armi di autodifesa e le truppe non devono aprire il fuoco contro le masse. Le trasgressioni verranno prontamente punite».[15]
Disgraziatamente, a Pechino le cose andarono diversamente. Ciò fu dovuto in buona parte alla leadership dei manifestanti: Chai Ling, tra i più influenti leader studenteschi, in una intervista allora rilasciata, dichiarava: «che ci sarebbe voluto un massacro, che solo attraverso un fiume di sangue in Piazza Tienanmen si sarebbe risvegliato il popolo». Significativamente, alla domanda se fosse rimasta in piazza lei stessa fino al tanto atteso fatidico momento, Chai Ling però così rispondeva: «Non sarò lì a proteggere la piazza perché sono diversa dalle altre: il mio nome è sulla lista nera. Non voglio morire».[16]
Non debba sorprendere, allora, come mai tutti i tentativi di negoziazione siano falliti. L’introduzione al libro “Beijing Spring” di Michel C. Oksenberg ce ne offre una veloce carrellata: già in aprile, il portavoce del Consiglio di Stato Yuan Mu aveva annunciato che il governo accoglieva favorevolmente il dialogo con gli studenti, mentre la All-China Student Federation e la Beijing Student Federation venivano incaricate di prendere accordi per il dialogo. Lo stesso giorno in cui ricevettero tale mandato, queste organizzazioni istituirono un ufficio di accoglienza e una hotline telefonica per ascoltare le opinioni degli studenti. Esse cominciarono inoltre a inviare rappresentanti nelle varie università per sollecitare pareri ed elaborare condizioni di dialogo accettabili da entrambe le parti. Il 28 aprile i giornali e le trasmissioni televisive controllate dallo Stato riportavano già una copertura abbastanza dettagliata della manifestazione del giorno precedente. Nei giorni immediatamente successivi, inoltre, tali federazioni organizzavano un “dialogo sincero” con Li Ximing (membro del Politburo e leader del PCC di Pechino), Chen Xitong (Consigliere di Stato e Sindaco di Pechino), Yuan Mu, altri funzionari del PCC e gli studenti di sedici università: durante l’appuntamento, le autorità tentarono di rispondere a tutta una serie di preoccupazioni degli studenti, mentre i colloqui vennero trasmessi dalla televisione nazionale per garantire la massima trasparenza e la massima visibilità all’intera vicenda. In quell’occasione, un importante dirigente quale Yuan Mu affermò che la maggior parte dei manifestanti nutriva sentimenti di patriottismo e buone intenzioni, identificando i loro obiettivi come non diversi da quelli del governo. Nella prima settimana di maggio i leader del Consiglio di Stato, del governo di Pechino e di vari ministeri del governo si impegnarono inoltre in una serie di ulteriori dialoghi con gli studenti. Dall’11 al 13 maggio, Hu Jili (membro del Comitato permanente del Politburo incaricato del lavoro di propaganda) e Wang Renzhi (Capo del dipartimento centrale di propaganda) si recarono in diversi uffici stampa per ascoltare le opinioni di giornalisti ed editori. Il 13 maggio il governo rispose ad una petizione presentata dagli studenti manifestanti annunciando che avrebbe tenuto un altro dialogo con gli studenti due giorni dopo. Nell’immediato, per contrastare le accuse di insincerità dell’offerta, Yan Mingfu (membro del Segretariato del Comitato Centrale e capo del Dipartimento del Fronte Unito Centrale) e Li Tieying (Ministro della Commissione Statale per l’Istruzione) tenevano colloqui informali con oltre quaranta studenti, tra cui i leader della protesta Wu’er Kaixi e Wang Dan. E ll 15 maggio il dialogo vi fu, con oltre cinquanta studenti di ventidue università. Tre giorni più tardi, un altro importante incontro tra Li Peng (membro del Comitato permanente del Politburo) con alcuni leader studenteschi verteva sulla necessità di trovare le condizioni per porre fine allo sciopero. L’incontro di un’ora, trasmesso sulla televisione nazionale il giorno stesso, fu rilevante; ma da parte delle frange più oltranziste dei manifestanti nessun dialogo era più possibile: Wu’er Kaixi rifiutò il confronto, affermando che tale incontro avveniva «non solo un po’ in ritardo, ma troppo tardi». Si permise addirittura di porre lo stesso Li in una posizione di ospite piuttosto che di ospitante: «non è che tu ci hai chiesto di venire a discutere, ma che il gran numero di persone in piazza ti ha chiesto di uscire per un discorso. Gli argomenti di discussione dovrebbero essere decisi da noi». Nonostante queste provocazioni, il compagno Li continuava ad affermare che vi fosse del patriottismo nelle grandi masse di studenti scesi in piazza, e che loro ed il governo condividevano molti degli stessi obiettivi. Il giorno dopo, Li Peng e Zhao Ziyang visitarono alcuni manifestanti in sciopero della fame che occupavano la piazza. Ancora una volta, l’evento venne trasmesso in diretta nazionale. Più tardi, quella sera, Li e il presidente Yang Shangkun annunciavano che, non sussistendo alcuna possibilità di dialogo tra le parti, l’esercito era stato chiamato per entrare a Pechino e ristabilire l’ordine: il giorno successivo, Li firma la dichiarazione di legge marziale. È il punto di non ritorno. Il 22 maggio Li Peng esprime l’opinione che le proteste non fossero più questione di uno o due mesi, ma che gli studenti avessero fatto piani a lungo termine: «Siamo arrivati allo stadio in cui non c’è ritirata. Se ci ritiriamo ancora di più, dovremo consegnare loro la Cina».
Un articolo del Chicago Tribune di pochi giorni prima mostra tutta la criticità del momento:
«il China Daily ufficiale ha riferito che 50.000 studenti al giorno si riversavano a Pechino dalle province. Il giornale afferma che i ferrovieri, in sintonia con le richieste degli studenti, hanno semplicemente permesso loro di salire sui treni gratuitamente. Ma giovedì il centro della capitale si era notevolmente calmato poiché molti manifestanti si sono presi il giorno libero per riposare dopo aver intasato strade e viali principali negli ultimi due giorni. Circa 150.000 persone ancora si accalcano intorno a piazza Tiananmen, dove gli scioperanti della fame sono trattenuti in 80 autobus pubblici, ciascuno assistito da un team di medici e infermieri. […] Poche ore dopo l’appello di Zhao, camion pieni di lavoratori si sono diretti verso Piazza Tiananmen mentre i lavoratori cinesi sembravano allearsi fermamente con gli studenti e le loro ultime richieste: un cambio completo della leadership e un rinnovamento del Partito Comunista»[17].
Continuando ad onorare l’impegno di citare fonti non sospettabili di essere filocinesi, si può comprendere la decisione di sgomberare la piazza dopo settimane di proteste grazie alle osservazioni dell’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Fu proprio questi infatti a sottolineare che l’intervento militare divenne inevitabile a causa della situazione di stallo raggiunta: i manifestanti rifiutavano ogni compromesso, danneggiando l’economia già fragile di suo. A ciò si aggiungeva il fatto che gli stessi soldati cominciavano ad essere «attaccati con pietre e bottiglie molotov e si sono difesi con le armi che avevano». Forse in tono canzonatorio, l’allora ambasciatore statunitense ricorda come «il governo si trovava ormai a essere privo di opzioni, al di là dell’assalto militare», nonostante i soldati fatti accorrere «facevano pensare più a una crociata di bambini che a una strategia militare»: si trattava infatti di «truppe disarmate», mentre sull’altro fronte vi era «una folla adirata [che] aveva distrutto dieci veicoli militari». Il 2 giugno alcuni soldati riuscirono a entrare nella piazza e a conversare con gli studenti, alcuni dei quali decisero di lasciare la piazza. In definitiva, pure loro dovettero ritirarsi. Fu in quel momento che gli studenti si appropriarono di diverse armi da fuoco, mentre in questo video si può vedere addirittura un veicolo militare rubato dai manifestanti:
Forti di questo bottino, come ci spiega un articolo del Washington Post del 5 giugno 1989, «i combattenti anti governativi erano stati organizzati in formazioni di 100-150 persone. Erano armati di bombe molotov e mazze di ferro, per incontrare il PLA che nei giorni precedenti al 4 giugno era ancora disarmato». Fu proprio in quei giorni immediatamente precedenti allo sgombero che scoppiò la violenza più brutale contro l’esercito. [18] Un linciaggio di soldati spaventoso:
«Più di cinquecento camion dell’esercito sono stati incendiati in corrispondenza di decine di incroci […]. All’incrocio Cuiwei, un camion che trasportava sei soldati ha rallentato per evitare di colpire la folla. Allora un gruppo di dimostranti ha cominciato a lanciare sassi, bombe molotov e torce contro di quello, che a un certo punto si è inclinato sul lato sinistro perché uno dei suoi pneumatici si è forato a causa dei chiodi che i rivoltosi avevano sparso. Allora i manifestanti hanno dato fuoco ad alcuni oggetti e li hanno lanciati contro il veicolo, il cui serbatoio è esploso. Tutti e sei i soldati sono morti tra le fiamme».[19]
«Improvvisamente è sopraggiunto di corsa un giovane, ha gettato qualcosa in un autoblindo ed è fuggito via. Alcuni secondi dopo, lo stesso fumo verde-giallastro è stato visto fuoriuscire dal veicolo, mentre i soldati si trascinavano fuori e si distendevano a terra, in strada, tenendosi la gola agonizzanti. Qualcuno ha detto che avevano inalato gas venefico. Ma gli ufficiali e i soldati nonostante la rabbia sono riusciti a mantenere l’autocontrollo». [20]. Ci si potrebbe chiedere a questo punto dove i lodevoli “studenti amanti della democrazia” di Blinken abbiano preso gas asfissianti, o dove abbiano imparato a manovrare veicoli militari, ma per non appesantire troppo il discorso possiamo arrivare già alla conclusione che gli eventi culminanti del 3 e 4 giugno 1989 siano lontani dall’essere stati un massacro unilaterale, simili piuttosto a una piccola guerra civile nelle strade adiacenti la piazza. Come confermato dai cablogrammi della CIA trapelati, forniti da Wikileaks, infatti combattimenti veri e propri non vi furono prima dello sgombero in piazza Tiananmen. Nessuno studente è stato giustiziato e nessun carro armato ha investito le persone. Il cablogramma in questione racconta gli eventi della notte dal punto di vista di un diplomatico cileno di nome Carlos Gallo:
«Sebbene si sentissero degli spari, Gallo ha detto che, a parte qualche pestaggio di studenti, non ci sono stati spari di massa sulla folla di studenti al monumento. Quando Poloff ha menzionato alcuni resoconti di testimoni oculari di massacri al monumento con armi automatiche, Gallo ha detto che non c’è stato un simile massacro. Una volta raggiunto l’accordo per il ritiro degli studenti, unendo le mani per formare una colonna, gli studenti hanno lasciato la piazza attraverso l’angolo sud-est. Praticamente tutti, Gallo compreso, se ne sono andati. I pochi che hanno tentato di rimanere indietro sono stati picchiati e spinti a unirsi alla fine del corteo in partenza. Una volta fuori dalla piazza, gli studenti si sono diretti a ovest su Qianmen Dajie (Via Qianmen) mentre Gallo si è diretto a est verso la sua macchina». [21]
Una delle voci più citate riguardo al “massacro” nei giorni successivi, fu nientemeno che il rivoltoso preferito dai media statunitensi, Chai Ling. Questi inizialmente disse che «Loro [gli studenti presumibilmente ancora nella piazza dopo lo sgombero, N.d.R.] erano esausti e dormivano nelle loro tende; questi studenti sono stati poi schiacciati dai carri armati». Interessante notare come il precedente cablogramma della CIA smascheri anche le bugie di Chai Ling: «Le truppe iniziarono un lento e ordinato avvicinamento al monumento da nord con i soldati a piedi che precedevano gli APC. Da quello che poteva vedere, Gallo sentiva che la maggior parte delle tende della piazza erano vuote quando i blindati le passarono sopra». [22] A confermare questa versione è anche Hou Dejian, importante leader studentesco. [23] Hou in quelle ore frenetiche aveva avuto modo di colloquiare con un commissario politico lì presente, cui disse: «Ci offriamo volontari per portare tutti gli studenti fuori dalla piazza e chiedere al PLA di non aprire il fuoco. Per favore, dateci abbastanza tempo per organizzare un’evacuazione». Dopo che il governo accettò la richiesta, Hou si precipitò al monumento per annunciare che il posto di comando aveva acconsentito all’evacuazione della piazza.
«C’è chi ha detto che in piazza sono morti 200, chi ha detto che lì sono morti 2.000. C’erano anche alcune storie di carri armati nella piazza, che investono gli studenti che stavano cercando di andarsene, devo dire che non ho visto niente di tutto ciò, e non so dove l’hanno fatto; io stesso ero in piazza, fino alle 6:30 di quella mattina. — Continuavo a pensare, useremo le bugie, per attaccare un nemico che mente?».[24]
Wu’er Kaixi, altro leader studentesco [25], affermò pure di essere presente in piazza quando i soldati arrivarono, dopo la dichiarazione della legge marziale: dichiara di aver visto personalmente circa 200 studenti manifestanti abbattuti a colpi di arma da fuoco in piazza Tienanmen. Tuttavia, secondo la Columbia Journalism Review, tutti i resoconti verificati dei testimoni oculari al momento di tali dichiarazioni avevano già attestato che gli studenti rimasti nella piazza quando le truppe arrivarono per sgomberarli erano stati tutti autorizzati a lasciare la piazza pacificamente. Successivamente si è scoperto che lo stesso Wu’er Kaixi aveva già lasciato la piazza diverse ore prima del massacro che all’interno della stessa secondo lui sarebbe avvenuto. Come mai? Nulla da stupirsi: è cosa nota, ad oggi, che all’epoca dei fatti tutti i maggiori leader della protesta erano in contatto con diplomatici stranieri, personaggi legati alle Triadi e compiacenti funzionari cinesi facenti parte della già citata operazione “Yellowbird”.
In sintesi, la narrazione secondo la quale a morire siano stati solo innocenti studenti è insostenibile, la tragedia consumatasi tra la notte del 3 e l’alba del 4 è da descrivere come uno scontro tra due fazioni armate, in mezzo alla quale ci sono finiti anche degli innocenti. Di questi mai si parla nella narrazione occidentale: per i morti che non abbracciarono “la giusta causa” in tempo non vi è alcuno spazio.
L’attenzione che nei media occidentali gli eventi di Tienanmen hanno ricevuto nel corso degli anni non è casuale, come non è casuale la poca attenzione data all’invasione di Panama, ben più violenta, avvenuta nello stesso anno per mano statunitense, o la repressione condotta nove anni prima in Corea del Sud, anche questa ben più letale. Ma tali attenzioni sono chiare: il desiderio esasperato dell’Occidente, in quegli anni, che dai fatti di piazza Tienanmen potesse uscirne fuori un “Boris Eltsin cinese”, con annessa terapia shock. La presenza sul campo di agenti della CIA come James Lilley [26], il sostegno, professato nel loro sito, della National Endowment for Democracy [27] e l’azione di ONG quali Fund for the Reform and Opening of China [28] che riceveva fondi da Soros ed era sostenuta dal già citato Zhao Ziyang, non può che far riflettere profondamente su quella che allora si tentò di rendere l’ennesima rivoluzione colorata orchestrata dall’Occidente. Tutto ciò dimostra, ieri come oggi, un fatto chiaro: nessuna narrazione sulla Cina è neutra ma, più spesso, molte tra queste reclamano il diritto imperiale di poter scrivere e gestire la storia di un altro paese; e qui entra in gioco il fenomeno dell’orientalismo.
Per orientalismo si intende una tecnica di dominio sull’Oriente tramite la strutturazione della sua storia, propagandato tramite l’insegnamento, autorizzando o proibendo determinate visioni. Questo punto può essere chiarito prendendo in prestito alcune parole di Malcolm X, le cui riflessioni sulla storia africana si adattano bene anche nella realtà cinese:
«E in realtà caucasoide, mongoloide e negroide – non esiste niente del genere. Questi sono i cosiddetti termini antropologici che sono stati messi insieme da antropologi che non erano altro che agenti delle potenze coloniali, e a questo proposito hanno ricevuto tale status, sono stati appositamente assegnati loro tali posizioni scientifiche, in modo che potessero trovare definizioni che avrebbero dovuto giustificare il dominio europeo sugli africani e gli asiatici. Così hanno inventato delle classificazioni che declassassero automaticamente queste persone o le mettessero a un livello inferiore».[29]
La particolarità della Cina, per cui mai verrà perdonata dall’Occidente capitalista e imperialista, è l’essere stata in grado di rompere definitivamente con il passato di dominazione straniera, sia politicamente che economicamente, e di conseguenza anche ideologicamente: sempre Malcolm X nota come «Hanno cacciato gli inglesi, insieme allo zio Tom cinese. […] Niente più zii Tom in Cina. E oggi è uno dei paesi più forti, duri e temuti dall’uomo bianco su questa terra. Perché non ci sono zii Tom laggiù». [30]
Ecco spiegato perché i leader studenteschi siano fuggiti in Occidente tramite operazione Yellowbird poco dopo la fine delle proteste; perché in Cina non c’è spazio per gli “zii Tom”.
Pertanto la Cina è tornata ad avere anche potere istituzionale sulla narrazione della propria storia: ciò comporta un cambio di obiettivo del discorso orientalista, che passa dal giustificarne il controllo politico ed economico (nel diciannovesimo secolo) al legittimare un costante stato di aggressione verso di essa (dal 1949 ad oggi). Questo approccio segue il modello tracciato dalla celebre poesia di fine Ottocento “Il Fardello dell’Uomo Bianco”, oggi evolutosi nella mitologia dell’intervento umanitario, in cui un popolo più avanzato ne “aiuta” uno “inferiore”. Visione condivisa anche dal teorico della società aperta, Karl Popper, che interrogato sulle ragioni della miseria del terzo mondo, così rispose: «ciò è dovuto principalmente alla stupidità politica dei leader nei vari stati di fame. Abbiamo liberato questi stati troppo velocemente e in modo troppo primitivo. Non ci sono ancora stati di diritto. Lo stesso accadrebbe se lasciassi un asilo a se stesso». Incapaci di governarsi, hanno bisogno del nostro aiuto, che gli piaccia o meno. Per convincerci della necessità dell’intervento umanitario o al supporto della rivoluzione colorata, la fabbricazione di propaganda atta a delegittimare i governi nella fase della decolonizzazione diviene dunque una priorità. Di conseguenza, la gestione fondamentalmente giusta delle proteste viene in tutti i modi trasformata in un racconto di dispotismo asiatico e violenza gratuita, sebbene non si siano mai verificati scenari paragonabili alle dittature militari latinoamericane sostenute dal blocco occidentale. A riconferma delle giuste decisioni del Partito Comunista Cinese, ad oggi, c’è un grado di approvazione popolare che molti altri governi comunemente considerati democratici si possono sognare. [31]
Tenendo a mente proprio le esperienze latinoamericane, possiamo affermare piuttosto che alla classe dominante occidentale non interessano minimamente le considerazioni morali ed etiche delle sue azioni (secondo gli stessi standard liberali, gli Stati Uniti forniscono assistenza militare al 73% delle dittature al mondo [32] ma ha imparato che per avere almeno un passivo supporto, è necessario mantenere la narrazione manichea di bene contro male, democrazia contro dittatura e libero mercato contro autoritarismo.
La narrazione deve essere dialettica e non manichea, la lotta non è tra democrazia e dittatura ma tra proletariato e borghesia, il conflitto economico non avviene tra libero mercato ed autoritarismo, bensì tra capitalismo e socialismo.
E noi abbiamo già scelto da che parte stare.
Note:
1. https://www.state.gov/the-33rd-anniversary-of-tiananmen-square/
2. https://www.ft.com/content/0d3c9c04-5059-11de-9530-00144feabdc0
3. Marianne Bastide, Marie-Claire Bergère e Jean Chesneaux, La Cina, vol. II, Dalla guerra franco-cinese alla fondazione del Partito comunista cinese, 1885-1921, Einaudi, Torino 1974, p. 118.
4. https://nsarchive2.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB47/index2.html
5. http://www.tsquare.tv/chronology/MartialLaw.html
9. https://www.nytimes.com/1989/06/03/world/a-portrait-of-a-young-man-as-a-beijing-student-leader.html
10. https://thechinaproject.com/2018/06/04/kuora-events-that-led-to-the-1989-tiananmen-square-protests/
11. http://www.tsquare.tv/links/Walder.html
12. https://redsails.org/another-view-of-tiananmen/
14. Robert Kuhn, The man who changed China: the life and legacy of Jiang Zemin, Crown Pub, 2005. p. 161
15. Andrew J. Nathan, Perry Link, Orville Schell, The Tiananmen Papers, New York, PublicAffairs, 2001, pp. 444-45
16. Chai, Ling (2011). A Heart for Freedom. Carol Stream: Tyndale House. p. 200.
Chai Ling, Interview at Tiananmen Square with Chai Ling, Asia for Educations, http://afe.easia.columbia.edu/special/china_1950_chailing.htm (ultima consultazione 5 giugno 2023)
17. https://www.chicagotribune.com/news/ct-xpm-1989-05-19-8902020629-story.html
18. Alcune immagini di quei momenti aberranti (ATTENZIONE, IMMAGINI FORTI): https://drive.google.com/drive/mobile/folders/1JIDXL47Bffu2JqPX7EMpXiV8Ld1eYgHh.
19. The Tiananmen Papers, cit., pp. 444-45
20. Ivi, p. 435.
21. https://wikileaks.org/plusd/cables/89BEIJING18828_a.html
22. Ivi
23. https://en.wikipedia.org/wiki/Hou_Dejian
24. https://www.gregoryclark.net/page15/page15.html
25. https://en.wikipedia.org/wiki/Wu%27erkaixi
28. https://www.lecronachelucane.it/2019/06/04/piazza-tienanmen-4-giugno-1989-cosa-successe-davvero/
29. https://www.marxists.org/reference/archive/malcolm-x/1965/01/afroDemocracy ley
30. Malcom X, Discorso ai quadri di base (Detroit, novembre 1963), in “Nessuno può darti la libertà”, Gog Edizioni.
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