di Jorge Cadima | da “Avante!”, settimanale del Partito Comunista Portoghese
Traduzione di Marx21.it
Le elezioni negli Stati Uniti sono espressione della crisi del sistema. I risultati contribuiranno all’ulteriore approfondimento di questa crisi. Negli Stati Uniti e a livello mondiale.
Tutto il processo elettorale ha rispecchiato un profondo malcontento popolare. Che è frutto della perdita del livello di vita dei lavoratori degli Stati Uniti da 40 anni a questo momento e dell’osceno arricchimento di una sempre più ristretta minoranza legata al grande e parassitario capitale finanziario e al complesso militare-industriale che governa il paese. La situazione esplosiva degli Stati Uniti ormai da molto tempo si è tradotta nella crescente violenza, sia individuale (sparatorie e massacri), che statale (assassini da parte della polizia). Ma anche in indici come l’aumento della mortalità tra la popolazione adulta bianca, che ha già provocato un calo dell’aspettativa di vita (New York Times, 2.11.15 e 20.4.16). O in un fatto spaventoso, rivelato in uno studio del Centro per il Controllo e Prevenzione delle Malattie, CDC, relativo al 2014 (citato in wsws.org 5.11.16): tra i bambini tra i 10 e i 14 anni il suicidio è la seconda causa di morte, con più morti per suicidi che per incidenti stradali. Anche i lavoratori degli Stati Uniti sono vittime della globalizzazione imperialista e della grande crisi del capitalismo, con la deindustrializzazione, la disoccupazione, l’abbassamento costante dei livelli salariali.
Di fronte a due candidati del sistema, entrambi milionari, milioni di statunitensi hanno risposto con l’astensione, il voto a terzi candidati e (in modo paradossale, ma prevedibile) a chi – pur essendo un candidato del sistema – sosteneva di essere un nemico del sistema. E’ tragicamente rivelatore il fatto che mentre la candidata del Partito Democratico, falco delle aggressioni imperialiste, assumeva il ruolo di candidata del Partito della Guerra sponsorizzando i deliri guerrafondai anti-russi, sia stato il candidato repubblicano Trump ad apparire la voce della ragione, mettendo in guardia dai pericoli di una guerra tra le due maggiori potenze nucleari del pianeta. Il futuro si incaricherà di dimostrare ciò che realmente valgono le parole di Trump.
Subito dopo le elezioni, buona parte dei violentissimi insulti che si erano scambiati i due candidati hanno lasciato il posto agli elogi. Trump, che ha trascorso la campagna dicendo che si sarebbe dovuto incarcerare Hillary Clinton, si è affrettato a ringraziare i suoi tre decenni al servizio della patria. E Hillary, che in campagna elettorale diffondeva la delirante tesi cospirativa secondo cui Trump sarebbe un agente del Cremlino, si è affrettata ad augurargli buona fortuna e a chiedere che le sia data qualche possibilità di governare. La cosa più certa è che, consapevoli del profondo malcontento popolare che sta crescendo negli Stati Uniti, i due cerchino di catturare i sentimenti di rivolta che sentono crescere tra il popolo dell’enorme paese e che già si esprimono nelle strade e nelle lotte operaie.
Ma la candidatura di Trump, al di là del tentativo di canalizzare il malcontento nell’ambito del sistema – e creare le condizioni per rendere tale sistema ancora più aggressivo e antipopolare – riflette divisioni reali in seno alla classe dominante degli Stati Uniti. Divisioni che sono, di per sé stesse, prodotto della crescente crisi del sistema e della consapevolezza del suo graduale indebolimento in quanto centro mondiale dell’imperialismo. Divisioni visibili nelle reazioni dell’UE all’elezione di Trump. Juncker afferma che “l’elezione di Trump fa correre il rischio di minare le fondamenta e la struttura delle relazioni intercontinentali” e impartisce lezioni: “Dovremo insegnare al Presidente eletto che cosa è l’Europa e come funziona” (Deutsche Welle, 11.11.16). La ministra della Difesa tedesca, preoccupata per le posizioni elettorali sulla NATO e su Putin, afferma che Trump “deve scegliere chiaramente da che parte sta” (DW, 11.11.16). Nello stesso senso va il segretario generale della NATO, in un testo che l’Observer (13.11.16) ritiene “che evidenzi la profonda preoccupazione in seno ai circoli militari, in presenza del nuovo presidente americano”.
Una cosa è certa: sia negli Stati Uniti che nell’UE, la parola d’ordine è militarizzare. I popoli non hanno nulla da aspettarsi dai difensori del grande capitale, che sfruttamento, miseria e guerra.