di Juan Eduardo Romero* | da alainet.org
Traduzione di Marx21.it
L’ascesa alla presidenza degli Stati Uniti del miliardario Donald Trump ha un significato che va oltre le posizioni xenofobe manifestate, che devono essere inserite in un contesto storico più generale, determinato dall’influenza del puritanesimo nella società americana, fin dal momento della sua comparsa nel XVII secolo, come avevo sottolineato in un mio precedente articolo. Trump si muove sulle basi dottrinarie del puritanesimo, che non solo sancisce che i nordamericani sono “il popolo eletto da Dio”, ma si basa anche sulla presunzione che, in quanto popolo eletto, debbano lottare “contro il male”, che impedisce lo sviluppo dell’individualità umana e quindi del progresso.
Per questo il suo slogan elettorale ha utilizzato una simbologia molto presente nella psiche dello statunitense medio: (Make America great again) “Rendere l’America nuovamente grande”. In sostanza, lo slogan non solo ha suscitato lo scontro con le tesi dell’unilateralismo globalizzante, che si esprimono nel binomio Clinton-Obama, ma anche la contrapposizione verso le politiche portate avanti dagli ex presidenti Bush (padre e figlio) e, più in generale, verso le élites (politiche, economiche e militari) che controllano la società statunitense.
Che significa ciò? Per la maggior parte di coloro che vivono nella “Nostra America” e dove prevalgono i sistemi presidenziali, con un potere esecutivo molto forte, risulta paradossale affermare che il Presidente degli USA non esercita realmente il potere, ma questa è la realtà. Già l’ex presidente Dwight Eisenhower aveva avvertito nel 1961 sulla minaccia che rappresentava l’eccessivo potere dell’intreccio rappresentato dagli interessi del complesso militare-industriale, ma è alla fine del XX secolo che tale potere che sta dietro il potere presidenziale negli USA ha assunto gli sviluppi più evidenti. Ci sono ricerche che assicurano che tale complesso – che è cresciuto in modo esponenziale con il pretesto dell’11 settembre 2001 – è arrivato a comprendere circa 3.000 organizzazioni che lavorano nell’ambito dell’intelligence, che impiegano quasi 1 milione di persone (854.000), con spese che superano gli 80 miliardi di dollari USA, e che rappresentano un elemento di impulso allo sviluppo economico all’interno degli Stati Uniti.
Si tratta di capire che il complesso militare-industriale non solo è mobilitato per la costruzione di aerei, fucili, missili, navi e altri strumenti per la corsa agli armamenti, ma ha anche una stretta relazione con il dominio scientifico-tecnologico, essenziale nella società del XXI secolo e tale binomio capacità di combattimento-sviluppo tecnologico, rappresenta un elemento primario nelle concetti di dominio e predominio strategico militare degli Stati Uniti. Inoltre, questo super complesso militare-industriale muove enormi risorse che danno impulso al ruolo – e alla tesi – di Impero-mondo del colosso del Nord. E’ facilmente verificabile questo ruolo essenziale osservando le cifre che, secondo il Dipartimento della Difesa degli USA, sono indirizzate a finanziare la ricerca da parte di imprese private, legate allo sviluppo tecnologico dell’industria militare: nell’anno 2014, ad esempio, le imprese Lockheed Martin, Boeing, General Dinamics, Raytheon, Northrup Grumman, tra le altre, hanno ricevuto insieme circa 239 miliardi di dollari USA in contratti.
Trump contro il triangolo di ferro?
Si definisce triangolo di ferro la super struttura di potere negli Stati Uniti, che mette insieme gli attori delle lobby di opinione – pressione – che si muovono nel Congresso, imprese private e le agenzie del governo medesimo (Difesa, Energia, Ambiente, sicurezza, NASA, tra molte altre). Questo triangolo è stato il grande responsabile – e beneficiario al tempo stesso – delle azioni che hanno caratterizzato l’unilateralismo globalizzante, che ha preteso di raggiungere tre obiettivi fondamentali: 1) l’imposizione dell’egemonia, sia sugli alleati (Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone) che sugli avversari storici (Cina e Russia), in tutto il globo, ma con speciale attenzione al cuore della regione (heartland) eurasiatica, 2) l’impulso alla rivoluzione nel settore dell’armamento militare (RAM), che ha implicato l’applicazione dei progressi derivanti dal controllo egemonico nella scienza, nella tecnologia, in campo militare, 3) la creazione di grandi spazi geo-economici, che assicurino il monopolio commerciale degli Stati Uniti.
La perfetta articolazione – prodotto della pressione in termini di potere – degli interessi del triangolo di ferro nei diversi governi di Ronald Reagan (1981-1988), George Bush padre (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), George Bush figlio (2001-2009) e Barack Obama (2009-2017), ci permette di comprendere l’enorme potere reale esercitato e perché, sebbene i presidenti appartengano a organizzazioni politiche diverse (democratici e repubblicani), abbiano mantenuto la stessa politica estera. Tale complesso quadro di relazioni – e potere reale – si vede minacciato dall’approccio di Donald Trump e dalle feroci critiche all’eccessiva spesa militare, che impedirebbe a parer suo lo sviluppo della struttura economica e produttiva degli Stati Uniti. Il presidente eletto degli Stati Uniti ha sostenuto che la politica estera è stata contrassegnata da cinque punti deboli e non ha fatto distinzioni tra i suoi predecessori: 1) un eccesso di risorse investite, 2) gli alleati non contribuiscono in proporzione adeguata, 3) i paesi amici degli USA guardano ad altri alla ricerca di aiuto, 4) i rivali non rispettano gli Stati Uniti, 5) la politica estera non ha obiettivi chiari.
In base a ciò, egli si è mostrato contrario alle linee strategiche espresse nella politica estera dei suoi predecessori, che ha portato a cambiamenti sostanziali in termini di presenza – e azione – militare, che ha consentito agli Stati Uniti di aumentare le loro basi militari, da circa 400 nel 1955 a più di 1.000 nel 2016, e determinato l’aumento delle truppe permanenti in America Latina, e più di 30 insediamenti di truppe per le Operazioni Speciali (FOL, in inglese), in 17 paesi, tra i quali occorre segnalare Colombia, Honduras, Panama, Curaçao, Perù, Costa Rica e Paraguay.
E la riattivazione della IV Flotta, con ambito di azione dal Golfo del Messico fino alla foce del Río Esequibo (tra Guyana e Suriname, NdT); l’installazione del Comando dell’Africa (Africom), con basi in Senegal, Gambia e Gabon, più altre basi per le Operazioni Speciali in 11 parti diverse di questo continente. La belligeranza nel Medio Oriente, dal momento dell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. L’assedio della Russia, attraverso l’adesione alla NATO di paesi si trovavano prima nell’orbita dell’estinta Unione Sovietica, come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca in prossimità dello spazio vitale dell’avversario della Guerra Fredda. Tutte queste sono azioni che Trump considera sbagliate e che avrebbero inciso nella “perdita di supremazia”. Di fronte a tali azioni egli ha affermato: “l’America è meno sicura e il mondo è meno stabile”.
Tuttavia, è l’ambiguità la nota caratterizzante il discorso di chi occupa la Casa Bianca da gennaio di quest’anno. Da un lato, sembrerebbe prendere le distanze dalla politica degli armamenti che tanto ha criticato, ma dall’altro sostiene che conserverà la politica di Obama nei confronti della Cina. Le posizioni del Segretario di Stato, Red Tillerson, hanno confermato l’opposizione alle politiche della grande potenza asiatica nel Mar Cinese Meridionale. E Trump prenderà realmente le distanze dalla politica estera di Obama? La risposta è si e no. Si, per quanto riguarda le posizioni di Obama nei confronti della Russia, poiché pensa che sia stato sbagliato fare così tante pressioni sull’avversario storico, facilitando in tal modo il binomio con la Cina, che attenta in futuro contro la supremazia economica e militare degli Stati Uniti. No, poiché è d’accordo nel considerare la Cina un nemico storico, che è stata la posizione costante di Obama.
Un punto importante, che influenzerà la relazione di Trump con il triangolo di ferro, è la sua posizione rispetto al Trattato Transpacifico (TPP). Le posizioni del polemico leader statunitense puntano a rovesciare i termini dei trattati, allo scopo di mettere in primo piano il sistema economico degli USA, soprattutto a livello industriale. I vincoli – egli interessi – del triangolo di ferro con il processo di espansione commerciale del TPP sono evidenti, e il cambiamento potrebbe far deragliare anni di negoziati e opportunità di affari di attori che si riconoscono nelle lobby del Congresso USA.
Trump e la geopolitica del Sistema-mondo
La prospettiva del Sistema-mondo che Trump condivide, entra in netta contraddizione con le tradizionali posizioni dell’unilateralismo globalizzante e il suo correlato in termini dottrinari, rappresentato dal Progetto per il Nuovo Secolo Americano (PNSA), ma sembra coincidere con il cosiddetto “destino manifesto” della grandezza degli Stati Uniti, che fin dal tempo dei “padri fondatori” (1776) ha determinato l’intenzione di trasformarsi in “impero-mondo”, che eserciti il dominio di tutto il pianeta, attraverso l’egemonia militare e il controllo economico.
Per Trump, la strategia del “dominio totale” (full spectrum dominance), la quale afferma che, con l’appoggio dei suoi alleati o senza di essi, gli Stati Uniti devono dominare il mondo, è stato un completo insuccesso. Ciò non significa che egli auspichi un ripiegamento nell’indirizzo guerrafondaio che ha caratterizzato il colosso statunitense e che porta la responsabilità di 20 milioni di morti in 37 nazioni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale nel 1945. Piuttosto si è pronunciato per un’ “ottimizzazione” di tali azioni di guerra: “Al contrario di altri candidati alla presidenza, la guerra e l’aggressione non sono il mio primo istinto. Una superpotenza sa che la cautela e moderazione sono segni di forza”, aveva detto a un certo punto della campagna interna ai repubblicani.
Questo approccio ha un enorme rapporto con il clamoroso fallimento (in termini di obiettivi militari e costo economico) degli interventi in Siria e Libia, come pure nell’Eurasia, e il costo che ha comportato la supremazia militare che aspira all’unilateralismo globalizzante. Un fattore da considerare, nel sistema-mondo suggerito da Trump, la sua controversa posizione in merito al rapporto con la Russia di Vladimir Putin. Come aveva fatto Richard Nixon negli anni 70 del secolo scorso, il milionario statunitense vorrebbe usare uno dei due avversari storici degli USA dal 1945, per impedire la realizzazione dell’alleanza eurasiatica.
Trump, tra la Russia e la Cina, sembra scommettere su una relazione migliore con la prima, evitando a tutti i costi il consolidamento di una unione che implicherebbe differenze importanti con gli USA. Ad esempio, Russia e Cina hanno insieme una popolazione di quasi 1,5 miliardi di abitanti, un PIL pro capite di più di 20.000 dollari USA, un PIL combinato di 2.100 mila milioni di dollari USA e un interscambio commerciale tra loro che supera gli 88 miliardi di dollari USA. Le due potenze possono contare insieme su una enorme quantità di carri armati (24.000 circa), aerei (più di 5.000), ogive nucleari (quasi 9.000), tra gli altri armamenti.
Di fronte alla rilevanza di questi dati, è possibile che Trump tenti di instaurare una “stabilità” non conflittuale con Putin, cercando di rafforzare le posizioni nello scacchiere mondiale, così come aveva sostenuto il teorico statunitense Zbiegnew Brzezinski.
Nel caso dell’Europa e del Sud America, la situazione si presenta interessante. Trump sostiene da tempo che i “partner” degli Stati Uniti non hanno risposto adeguatamente agli sforzi militari e che una revisione del ruolo della NATO è urgente. Ciò è direttamente correlato alle politiche di questa organizzazione sovranazionale verso la Russia e agli sforzi da lui manifestati per regolarizzare le relazioni con essa. Nel caso del Sud America, sebbene non ci siano stati grandi annunci nel corso della sua campagna, c’è da attendersi che la sua tesi di “fare nuovamente grande l’America”, lo porti a ripensare le iniziative di recupero dell’influenza in quello che è considerato il proprio “cortile di casa” e ciò potrebbe significare sia l’appoggio – nella continuità – alle sanzioni contro il Venezuela e ai tentativi di destabilizzazione,attraverso la NED, dei sistemi politici che non rispondano ai “supremi interessi degli Stati Uniti”.
In ogni caso, saremo testimoni di un processo politico che sarà estremamente controverso e genererà enormi dibattiti nel sistema-mondo. Gli attriti di Trump con il sistema di potere interno agli Stati Uniti, si evidenzieranno in ogni momento e potrebbe anche essere che il complesso militare-industriale sottometta Trump, come è già successo con altri presidenti. Staremo a vedere.
*Storico e politologo venezuelano, Direttore del Centro de Investigaciones y Estudios Políticos y estratégicos (CIEPES), [email protected]