di Marco Pondrelli
C’è un’immagine che in modo chiaro e nitido rappresenta la polarizzazione della società statunitense: mentre il Presidente Trump sta denunciando quelli che a suo avviso sono brogli elettorali, il giornalista interrompe la diretta sostenendo che le accuse non sono provate. Se pensiamo che nessun giornalista interruppe George Bush quando parlava delle fantomatiche armi di distruzione di massa in Iraq o che nessuno si permise di interrompere Obama quando mentiva sulle armi chimiche usate da Assad in Siria, possiamo comprendere non solo la forte polarizzazione interna alla società statunitense ma anche il fastidio che un pezzo molto ampio di apparato americano aveva ed ha nei confronti di Trump.
Sarebbe facile ironizzare sulle recenti elezioni dopo un percorso elettorale a dir poco tortuoso. Quali sarebbero state le reazioni a Washington se situazioni simili si fossero verificate in Russia o in Venezuela?
Lasciando da parte le ironie occorre innanzitutto concentrarsi sul sistema elettorale, che ha una sua giustificazione storica tesa a tutelare l’identità dei singoli stati. Questo ovviamente produce delle storture, basti pensare che nel Senato statunitense hanno due rappresentanti tutti gli stati, quindi il piccolo Rhode Island pesa quanto il Texas o la California. Una situazione simile si presenta alle elezioni presidenziali. In questo caso gli elettori di ogni stato eleggono dei ‘grandi elettori’ (gli stati più grandi ne eleggono di più e viceversa) in base al principio maggioritario, chi ottiene più voti, anche un solo voto in più, conquista tutti i grandi elettori di quello stato. Viene eletto chi ottiene la maggioranza assoluta dei grandi elettori. Normalmente in un’elezione presidenziale sono pochi gli stati contendibili ed all’interno di questi stati il risultati spesso viene deciso da poche contee. Questo significa che le elezioni presidenziali sono decise da poche migliaia di voti e si può verificare anche il caso per il quale il candidato che a livello federale ottiene più voti non è eletto.
Le regole statunitensi sono queste, sorprende ascoltare in Italia opinionisti che si scandalizzato di fronte un un presidente eletto con la minoranza dei voti espressi, quando gli stessi personaggi chiedono a gran voce un sistema elettorale maggioritario per il nostro paese, ma non è questo il tema dell’articolo…
Le presidenziali del 2020 passeranno alla storia per le forti tensioni che le hanno segnate, cosa avrebbero scritto i nostri giornali se, ad esempio in Russia, Putin avesse mandato milizie armate fuori dai seggi per ‘controllare’ il regolare svolgimento delle elezioni? Ma le squadre armate non sono state l’unica novità. Abbiamo infatti assistito ad un evento senza precedenti, formalmente a causa del covid 100 milioni di voti su 160 sono stati espressi per posta (si spiega così la percentuale dei votanti più alta negli ultimi 120 anni). È difficile non essere presi dal dubbio che qualche irregolarità possa essere stata commessa. I brogli non sono estranei alla storia elettorale degli Stati Uniti, non è un mistero, ma è solo un esempio, che un contributo importante all’elezioni di John Kennedy nel 1960 arrivò dai morti di un cimitero vicino a Chicago.
Queste elezioni sono quelle che più di tutte hanno mostrato che il re è nudo, è venuta meno la preoccupazione di salvare le apparenze e gli strascichi legali che stanno accompagnando il post-voto dimostrano come siano altri i poteri a determinare l’elezione del presidente e non certo il voto popolare (una situazione simile a quella dell’elezione di George W. Bush).
Alzando per un attimo lo sguardo da queste elezioni viene spontaneo chiedersi di cosa si parla quando ci si riferisce alla ‘democrazia americana’. Quella statunitense è una politica per ricchi fatta dai ricchi, la ricchezza non è solo quelle che hanno a disposizione i candidati alla presidenza ma riguarda tutte le cariche elettive. Per candidarsi occorrono soldi, i finanziatori (grandi gruppi bancari, multinazionali, ecc…) e i lobbisti determinano la politica statunitense molto più degli elettori. È una struttura istituzionale che ha escluso un pezzo di società, quella che Arnaldo Testi definì ‘la politica dell’esclusione[1]’.
Queste storture contribuiscono allo scontro in atto oggi negli USA, la politica, la società e l’establishment statunitensi sono polarizzati come mai nella storia recente. Nemmeno le guerre di Bush jr., che pure furono contrastate da grandi proteste di popolo, avevano prodotto un simile clima ed anche quelle in Vietnam e Corea avevano causato grandi divisioni nella società ma divisioni minori nei centri del potere. Per ritrovare una simile contrapposizione che spacca verticalmente gli Stati Uniti, occorre tornare alla guerra civile.
La polarizzazione oggi esistente ha motivazioni legate sia alla politica interna che a quella politica internazionale.
Un Impero in declino
La situazione politico/economica degli Stati Uniti è molto lantana da quella che spesso ci viene mostrata. Gli USA sono un paese enorme di cui spesso, dal cinema alla televisione, noi vediamo solo le mille luci di New York, sapendo poco o nulla della situazione e della povertà dell’America profonda. La east e la west coast, ovverosia la Silicon Valley e Wall Street, sono oggi unite perché parlano una lingua molto simile, sono viste come un modello vincente in tutto il mondo ma gli USA sono anche altro.
Sia Obama che Trump si sono vantati di avere ridotto la disoccupazione, un altro dato è però degno di attenzione: è già dai tempi dell’Amministrazione Reagan che cresce la diseguaglianza e cresce il fenomeno dei working poor, coloro che pur avendo un lavoro, o più d’uno, non riescono ad uscire dalla soglia della povertà. Un dato interessante su cui varrebbe la pena riflettere è quello dei salari che sono inferiori a quelli di 40 anni fa[2].
In questo contesto di forti ingiustizie sociali va letta la situazione degli afroamericani, non si può scindere la situazione dei neri negli USA dalla loro condizione di classe. L’aumento delle diseguaglianza ha portato ad un peggioramento della condizioni di vita della parte più debole della popolazione, peggioramento che non si è fermato neanche durante l’Amministrazione Obama, fare coincidere il razzismo con la presidenza Trump è un grave errore.
Per quanto riguarda i tanti omicidi impuniti compiuti con metodi spesso sbrigativi da parte delle forze dell’ordine, occorre tenere presente che la polizia non risponde al governo federale ma ai sindaci, sono essi spesso e volentieri a tollerare o addirittura a difendere gli abusi. È molto difficile che Biden – Harris (la quale ha una storia personale poco incline alla difesa del garantismo) possano cambiare questa situazione, che ha le sue radici nella storia del paese ma anche nella diseguaglianza e nella povertà.
Dal 2016 ad oggi: cosa hanno cambiato 4 anni di trumpismo
Trump vinse nel 2016 tentando di dare voce al capitale produttivo estraneo alla Silicon Valley e a Wall Street, riuscendo così ad intercettare una parte del mondo del lavoro e del voto operaio. Gli Stati Uniti, da Reagan in poi, sono stati protagonisti di una forte finanziarizzazione dell’economia, estesasi a tutto il mondo occidentale. Questa trasformazione (non nuova nella storia) ha avuto un doppio effetto.
Da una parte ha creato grandi diseguaglianze. Le privatizzazioni, le liberalizzazioni, gli sgravi fiscali ed in generale tutta la politica economica portata avanti da democratici e repubblicani hanno aumentato il divario fra ricchi e poveri. Negli ultimi decenni la quota di ricchezza posseduta dallo 0,1% più ricco della nazione è passata dal 2 a quasi il 10%[3].
Il secondo effetto è conseguenza del primo, le diseguaglianze sociali hanno rafforzato la finanza perché essa è divenuta l’unico modo per sostenere la domanda. Questo ha creato bolle e di conseguenza instabilità economica, esplosa in modo eclatante nel 2007-08 con il fallimento della Lehman Brothers e con la conseguente crisi economica.
Questo ‘cancro’ è cresciuto fino a divenire un mostro difficile da controllare. Obama provò (almeno la buona volontà gli va riconosciuta) con la legge Dodd-Frank a porre un freno al capitale finanziario ma i risultati sono stati scarsi, anzi alcuni provvedimenti hanno peggiorato le cose minando ancora di più il sistema. Oggi i derivati, quelli che Warren Buffet definì armi di distruzione di massa, rappresentano una quota che va, a seconda delle analisi, da 33 a 54 volte il PIL mondiale.
Il capitale finanziario è la sua forza espansiva sono alla base delle guerre combattute negli ultimi anni, da una parte si sono voluti conquistare nuovi mercati e dall’altra si è tentato di bloccare la crescita cinese.
Se il tentativo di Trump è stato quello di limitare il peso del capitale finanziario possiamo dire che dal punto di vista della politica interna le soluzioni non hanno rappresentato un vero cambiamento e si può supporre che lo stesso Biden non trasformerà in modo significativo la politica economica statunitense. Il nuovo Presidente (se sarà eletto) confermerà i tagli per i redditi più alti, tenterà come il predecessore di stimolare la ripresa economica ma sopratutto continuerà a contare sul sostegno della Fed che da oltre 10 anni garantisce la stabilità finanziaria. L’operazione della Fed consiste nello stampare soldi che aiutano Wall Street a macinare profitti record ma che non arrivano all’economia reale.
In politica estera i cambiamenti di Trump sono stati più visibili e si può supporre che lo saranno anche con il prossimo Presidente.
La politica estera di Bush e Obama è stata di sostanziale continuità, entrambi avevano individuato nell’Indo-Pacifico il fronte strategico, perché strategico era il confronto con la Cina, prioritario anche rispetto allo scontro con la Russia. La lotta contro la Cina e la difesa degli interessi statunitensi nel mondo hanno aperto molti fronti. La politica statunitense era volta a destabilizzare, questo per impedire l’emergere di potenze regionali egemoni, sopratutto se vicine a Cina e Russia.
Trump ha portato dei cambiamenti, l’obiettivo era sempre quello di rafforzare Washington ma tentando di stabilizzare i vari scenari regionali, non è casuale che in questi 4 anni gli USA non abbiamo aperto nuovi fronti o scatenato nuove guerre. Questa politica aveva l’obiettivo di rafforzare gli USA senza abbandonare gli alleati regionali, per permettere a Washington di dedicarsi al fronte principale che anche per Trump rimaneva l’Indo-Pacifico.
È interessante valutare i principali scenari internazionali per capire come potrebbero mutare le cose con la prossima presidenza.
Il Medio Oriente
In questo quadrante gli interessi degli USA nell’ultimo decennio sono cambianti, gli Stati Uniti sono passati dall’essere un paese importatore di energia ad essere un paese esportatore. Nonostante questo la loro presenza militare non è in discussione.
Washington ha interesse a tutelare i propri alleati, Israele e Arabia Saudita, nello scontro che contrappone sciiti e sunniti (scontro politico e non religioso). Trump è intervenuto in modo deciso, continuando a sostenere i sauditi nella guerra in Yemen, uscendo dall’accordo sul nucleare con l’Iran, assassinando il generale Soleimani, spostando la propria ambasciata a Gerusalemme e facendosi promotore dei cosiddetti accordi di Abramo fra Israele da un parte ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan dall’altra.
Se da una parte Trump ha colpito duramente l’Iran sciita dall’altra ha permesso la stabilizzazione di Assad nello scontro con l’Isis. Inoltre Trump ha sostenuto di essere disponibile a trovare un nuovo accordo con l’Iran sul nucleare, nella sua ottica i colpi inferti a Teheran sarebbero stati sufficienti da una parte a tranquillizzare gli alleati e dall’altra ad ammorbidire la Repubblica Islamica per costringerla a firmare un nuovo accordo. Questo avrebbe permesso la costruzione di un nuovo equilibrio mediorientale, garantendo la sicurezza di Israele, rafforzando i sauditi ed indebolendo l’Iran pur senza arrivare ad un regime change. Gli Usa avrebbero così potuto spostare risorse sul fronte principale. È difficile dire se Trump sarebbe riuscito a concretizzare questa politica di graduale sganciamento, anche dentro la sua amministrazione non tutti erano d’accordo(Bolton e Pompeo su tutti).
È molto probabile che Biden tenti di riannodare i fili del dialogo con la Repubblica Islamica, questo per due motivi. Primo perché come Vice-Presidente era parte dell’amministrazione Obama che firmò l’accordo, secondo perché è evidente che il nuovo Presidente vorrà ricostruire e rafforzare i rapporti con l’Europa, la quale non ha mai digerito il volta faccia di Trump sull’Iran.
Dall’altra parte non si possono escludere novità sul fronte siriano, magari con un nuovo protagonismo dell’Isis che gli Usa giocheranno in chiave anti-Assad.
Un altro terreno di scontro e di destabilizzazione, come ho sostenuto in passato, potrebbe essere il Libano, più precisamente Hezbollah. Nel paese dei cedri, attraverso il dialogo aperto in questo momento con Israele per la definizione dei confini marittimi, si tenterà di isolare Hezbollah. Se questo tentativo dovesse fallire non è esclusa la possibilità di interventi più decisi per colpire la mezzaluna sciita.
L’Europa: l’amico ritrovato
Anche nel vecchio continente le differenze fra Obama e Trump sono state rilevanti e probabilmente lo saranno anche quelle fra Trump e Biden. L’amministrazione Obama ha profondamente segnato la sua politica con l’intervento in Ucraina. Quello che storicamente ha sempre preoccupato Washington è un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali, questa unità passa da un legame fra Russia e Germania. I legami che si andavo stringendo (economici, politici ed energetici) hanno portato all’intervento in Ucraina, vista da oltre Atlantico come il tassello da fare saltare per impedire tutto questo. L’amministrazione Obama ha assediato Mosca, destabilizzando l’Ucraina, confermando la scelta di Bush jr. sullo scudo spaziale e la conseguente corsa agli armamenti.
Trump ha spesso chiarito che l’Europa non era più una priorità, questo ha concesso alla Russia 4 anni migliori di quelli precedenti con un raffreddamento del conflitto ed addirittura un invito a dare vita ad un nuovo G8. Le parole molto critiche di Trump sulla NATO (che tanto hanno scandalizzato gli eredi del PCI) hanno permesso a Mosca di allentare l’assedio.
Dall’altra parte la classe dirigente europea è entrata in crisi, i tanti discorsi sull’Europa dei popoli e sugli Stati Uniti d’Europa si sono persi appena è venuto meno l’amico americano. Sarebbe stato questo il momento di fare crescere un’Europa sganciata dagli USA invece per quattro anni si è continuato a guardare oltre Atlantico. Quando Macron ha parlato di ‘morte celebrale della NATO’ aveva in mente di rilanciare un proprio protagonismo, francese e non europeo. La UE abbandonata dagli USA non è riuscita a costruire una propria autonomia. Illuminanti le parole di Federiga Bindi, professoressa di Relazioni Internazionali all’Università di Roma Tor Vergata e direttrice della Foreign Policy Initiative all’Institute of Women’s Policy Research a Washington, la quale ha affermato: ‘i quattro anni di Trump sono stati terribili per l’Europa. Ma hanno rappresentato anche un’opportunità: se avesse voluto avrebbe potuto giocare un ruolo maggiore a livello internazionale. Questo non è successo […] il problema è che se non si ristabilisce l’asse tra l’Unione europea e gli Stati Uniti alla fine affondiamo tutti e due lasciando prevalere Russia e Cina[4]‘.
L’esultanza con cui dalle nostre parti è stata salutata la vittoria di Biden è un chiaro segno che l’Unione europea non sa immaginarsi fuori dal patto atlantico, un’Europa autonoma dagli USA e capace di parlare da pari a pari con Washington, Pechino o Mosca non è all’ordine del giorno in tempi storici prevedibili. Purtroppo per le cancellerie europee gli Stati Uniti (anche con Biden Presidente) non saranno più quelli del piano Marshall. A prescindere dall’inquilino della Casa Bianca agli Stati europei verrà chiesto di aumentare le spese militari, tradotto la vostra sicurezza ve la pagate voi e questo perché come ha notato Bernard Guetta: ‘gli Stati Uniti non hanno più interessi vitali da difendere, in Europa. Non hanno nemmeno più da garantirsi l’approvvigionamento petrolifero nel Vicino Oriente, e le loro priorità, lo sappiamo, oggi sono il Pacifico e l’Asia, il perimetro in cui devono sostenere la sfida con la Cina[5]‘. Ancora più chiaro è stato Henry Kissinger il quale ha sostenuto che ‘sarebbe un grave errore per l’Europa adesso festeggiare, come se un cambiamento alla presidenza degli Stati Uniti potesse ribaltare tutto quello che ha reso insoddisfatti gli europei. L’armonia richiede seri sforzi e impegno a dialogare sia in Europa sia negli Stati Uniti sulle nostre idee riguardanti il futuro[6]‘.
Il rapporto con l’Europa vedrà da una parte, come detto, il tentativo di riannodare il dialogo con Teheran e dall’altra una riapertura dello scontro con la Russia (i segnali non mancano), la quale continuerà a stringere i rapporti con Pechino.
La Cina e l’Indo-Pacifico
Assieme allo scontro con Mosca assisteremo ad un nuovo rapporto multilaterale USA-UE da sviluppare in chiave anti-cinese a partire dal 5G, Giorgetti a subito inaugurato il nuovo corso della Lega affermando che ‘restiamo fermi nella collocazione atlantica, che diventa ultra-atlantica su determinati temi, ad esempio sul 5G[7]‘.
Il multilateralismo potrebbe essere usato però anche dalla Cina e dalla Russia, ci sono nazioni in Europa, come l’Italia, che storicamente hanno tentato di costruire ponti verso l’oriente pur rimanendo ben saldi dentro il campo atlantico. Pechino potrebbe infilarsi in queste piccole contraddizioni e provare ad allargarle. In ogni caso si parla di tattica perché strategicamente la Cina sa di essere considerata il problema numero uno, l’unico Stato in grado di minacciare il primato statunitense.
Questo introduce l’ultimo tassello della nuova politica estera statunitense. Se in Europa ci saranno dei cambiamenti lo stesso non si può dire dei rapporti con la Cina. L’Indo-Pacifico rimane il fronte principale e la Cina rimane il nemico, inutile aspettarsi cambiamenti sostanziali.
Biden confermerà la politica precedente continuando a coinvolgere gli alleati della regione, Trump aveva trasformato il ‘Pivot to Asia’ di Obama nel Quad (l’alleanza con Australia, India e Giappone), Biden lavorerà sulla stessa strada, ‘i consiglieri di Biden in politica estera pensano che la futura presidenza potrebbe proporre una Lega delle democrazie, che vedrà insieme Usa, Europa e alleati asiatici (Giappone, Corea del Sud e forse India) per adattare le regole del sistema internazionale (a cominciare da una riforma del Wto) e contenere le potenze autoritarie[8]‘.
L’unica differenza potrebbe essere un maggiore multilateralismo di Biden, allargato anche all’Unione europea. Il calcolo di Obama/Clinton/Biden è che in uno scontro tra gli Stati Uniti e la Cina questi da soli non possono essere sicuri di vincere[9]. È difficile prevedere fin dove si arriverà, però si può affermare che in questa lotta la guerra è un’opzione. Come ha detto con grande pragmatismo Kissinger ‘ci sarà un’evoluzione della tecnologia: questo implica che il conflitto militare sarà difficile da contenere […] il mondo non dovrebbe scivolare in una situazione simile a quella della Prima guerra mondiale. È fondamentale valutare la possibilità di un controllo degli armamenti. Io rientro nel novero di quanti, oggi una minoranza, credono sia imprescindibile cercare di risolvere i problemi più gravi con i negoziati[10]‘.
Infine nel quadrante asiatico una novità sarà quella coreana. È probabile che Pyongyang esca dai radar di Washington, si potrebbe tornare alla cosiddetta pazienza strategica. Trump aveva capito che alla rigidità statunitense la RPDC avrebbe risposto alzando il livello dello scontro, mentre di fronte alla disponibilità al dialogo vi sarebbero state nuove aperture.L’atteggiamento della nuova amministrazione potrebbe portare ad un rilancio del programma nucleare nordcoreano ed al conseguente rafforzamento nella penisola della posizione militare statunitense in chiave anti-coreana ma sopratutto in chiave anti-cinese.
Da questa rapida carrellata si può notare che , se l’elezione di Biden dovesse essere confermata, i cambiamenti rispetto all’amministrazione Trump saranno molti e non tutti in meglio. Saranno comunque cambiamenti tattici, l’obiettivo di contrastare l’ascesa cinese è condiviso, a Washington si discute solo sul come e chi ha riposto le sue speranze in Biden rimarrà deluso.
Note:
1. Testi, Arnaldo; La politica dell’esclusione. Riforma municipale e declino della partecipazione elettorale negli Stati Uniti del primo novecento, il Mulino, Bologna, 1994
2. Blanch, Hedelberto López; Gli Stati Uniti declinano, la Cina avanza, www.marx21.it, 22 ottobre 2020, http://www.marx21.it/index.php/internazionale/mondo-multipolare/30751-gli-stati-uniti-declinano-la-cina-avanza
3. Piketty, Thomas; Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014, pag. 488
4. Carrer, Gabriele; Biden presidente. Cosa cambia per l’Italia? Parla Federiga Bindi,https://formiche.net/2020/11/joe-biden-intervista-federiga-bindi/
5. Guetta, Bernard; La nuova alleanza con l’Europa, la repubblica, 9 novembre 2020
6. Döpfner, Mathias; Kissinger “Europa e Usa uniti davanti alla Cina”, la repubblica, 10 novembre 2020
7. Lopapa, Carmelo; Giorgetti “Se la Lega vuole governare l’Italia serve dialogo con Biden”, la repubblica, 8 novembre 2020
8. Dassù, Marta; Usa, Ue, Cina. Dassù spiega come sarà la Presidenza di Joe Biden, https://formiche.net/2020/11/usa-ue-cina-dassu-spiega-come-sara-la-presidenza-di-joe-biden/, 6 novembre 2020
9. Ross, John; The US presidential election and its effect on US relations with China, https://www.newcoldwar.org/the-us-presidential-election-and-its-effect-on-us-relations-with-china/
10. Döpfner, Mathias; op. cit.