Lo scontro negli Stati Uniti e i destini del mondo. Editoriale

di Marco Pondrelli

Se avessimo deciso di dare un taglio ironico agli editoriale di Marx21 non potremmo che incentrare quello odierno sull’eccentrica figura del Console ucraino in Italia, che ha chiesto di impedire la rappresentazione del Boris Godunov che aprirà la stagione della Scala a Milano, chiedendo inoltre di ‘ripulire’ il programma da ‘elementi propagandistici’ filo-russi. D’altronde se Navalny è il maggiore oppositore di Putin, Puškin può esserne il maggiore sostenitore…

Sarebbe importante che chi il 5 novembre ha manifestato per la pace, peraltro come abbiamo avuto modo di dire con un appello fortemente criticabile, spendesse qualche parola contro la russofobia che prende sempre più piede nel nostro Paese.

Non ce ne voglia il Console ma abbiamo deciso di dedicarci ad altro in questo editoriale.

Mercoledì abbiamo trasmesso online un dibattito sulle elezioni statunitensi di Mid-Term, Giacomo Gabellini, Davide Rossi e Franco Tomassoni ci hanno aiutato ad analizzare non solo il voto di martedì ma anche la situazione più complessiva degli Stati Uniti d’America.

Partiamo dai dati. Al Congresso si registra una vittoria del Partito Repubblicano più contenuta rispetto alle attese, al Senato la situazione è ancora in bilico e lo rimarrà fino al ballottaggio di dicembre in Georgia. Se Biden può tirare un sospiro di sollievo, Trump vede messa in dubbio la sua presa sul Partito dove sta emergendo un’opposizione che a breve i nostri opinionisti inizieranno a definire ‘responsabile’ e ‘moderata’. Essendo gli stessi opinionisti che idolatravano Liz Cheney, l’erede politica dell’uomo che fra le altre cose ha reintrodotto la tortura negli USA, c’è di che preoccuparsi.

Se è vero che Trump può scaricare le cause della sconfitta su candidati spesso e volentieri improvvisati, presentando se stesso come capace e carismatico, è altrettanto vero che la scelta di rinviare l’annuncio della candidatura alle Presidenziali è sintomatica di un momento di difficoltà.

A prescindere dai destini dei singoli, è interessante analizzare i problemi e le contraddizioni che stanno lacerando gli Stati Uniti.

Ascoltando le nostre televisioni o leggendo i giornali pensiamo agli USA come una nazione florida, ricca e progressista. Rimanendo confinati in alcune aree del New England o della California queste affermazioni sono giuste, nei grandi centri urbani i redditi sono alti, il benessere è diffuso e la decisione della Corte Suprema sull’aborto indigna profondamente. C’è però una realtà che non viene mostrata ed è quella delle periferie povere, dei senza tetto e dei ghetti dove povertà e questione razziale (mai risolta) si sovrappongono.

Gli Stati Uniti hanno 100 milioni di poveri e la più grande popolazione carceraria del mondo, come ha scritto Giacomo Gabellini nel suo libro anche le statistiche sulla disoccupazione non tengono conto di circa 100 milioni di senza lavoro. Quando il 6 gennaio una folla variopinta assaltò Capitol Hill i liberal benpensanti si scandalizzarono, sono gli stessi che quando Hillary Clinton o Nancy Pelosi li definivano nei peggiori dei modi applaudivano, è quello che succede anche in Italia dove la cosiddetta sinistra si presenta come l’argine contro il popolo ignorante. Paradossalmente quella folla aveva individuato il nemico: il Congresso statunitense, dove siedono i ricchi che fanno l’interesse dei ricchi. Purtroppo questo assalto era eseguito in nome di un altro super-ricco ma sopratutto ricordava quello che in Italia era l’assalto al Municipio, un’esplosione di rabbia pre-politica. Si racconta che quando nel 1947 a seguito delle proteste per la rimozione del Prefetto di Milano il PCI occupò la Prefettura e Pajetta chiamò Togliatti per comunicarglielo questi gli rispose: ‘bravo! E adesso che ve ne fate?’. La forza dei comunisti è quella di trasformare la protesta in opposizione politica, quell’assalto ricorda più un fallo di reazione contro i potenti che non un’opposizione sociale.

Il malessere unito alla mancanza di un forte Partito di sinistra (se non comunista…) fa si che la protesta si incanali a destra, nel 2016 i voti decisivi per l’elezione di Trump arrivarono dalla cosiddetta ‘cintura della ruggine’, quella zona de-industrializzate dove la chiusura, o il forte ridimensionamento di grandi industrie, ha prodotto disoccupazione e precariato. La forte finanziarizzazione dell’economia avviata da Reagan, ha smantellato la manifattura producendo disoccupazione, povertà e diseguaglianza. Questa crisi mai risolta porta ad incanalare oggi lo scontro fra il capitale finanziario e quello capitale produttivo. La divisione principale negli Stati Uniti è relativa quindi alla politica economica, le questioni internazionali arrivano dopo, l’Ucraina non è una priorità né per il politico né per il disoccupato. C’è però una ricaduta di questo scontro a livello internazionale. La differenza non è strategica, entrambi gli schieramenti pensano che il nemico principale e strategico oggi sia la Cina, ma tattica.

I due principali investimenti strategici statunitensi sono il QUAD/pivot to Asia che ha unito le amministrazioni Bush jr, Obama, Trump e Biden e il rafforzamento dell’intermarium in Europa per staccare i paesi europei dalla Russia. L’Indo-Pacifico sarà il fronte principale del nuovo scontro ma come questa battaglia sarà combattuta non è ancora chiaro.

Gli Stati Uniti sono uno Stato in declino, incapace di continuare a svolgere il ruolo di unico Impero, la voci che prefigurano una nuova Jalta sono sempre più forti, pensiamo alle posizioni di Haass e Kupchan espresse su Foreign Affairs, ma come gestire questo passaggio è la domanda su cui la classe dirigente statunitense si scontra. Una parte vorrebbe se non impedire la nascita di un sistema multipolare almeno limitare la forza dei principali oppositori (Russia, Cina e Iran) contrastandoli anche militarmente. Un’altra parte pensa che la forza militare sia un deterrente da utilizzare in modo limitato, rilanciando allo stesso tempo la manifattura interna mentre si colpisce quella cinese con le sanzioni e il boicottaggio. È una differenza tattica, perché come detto nessuno nelle stanze di Washington vuole rinunciare al ruolo di supremazia e nessuno vuole rinunciare a rafforzare il ruolo militare degli Stati Uniti, ma mentre per il grande capitale finanziario la guerra è fondamentale per raggiungere questi obiettivi per i rappresentanti del capitale produttivo ha un ruolo limitato. La conseguenza è che, mentre per i primi gli USA devono continuare a costruire aree di destabilizzazione per limitare l’ascesa cinese rafforzando il ruolo militare statunitense per i secondi e necessaria la stabilità.

Quando si parla di una nuova Jalta non si deve pensare alla pace perpetua ma più semplicemente ad un ritorno ad un sistema simile a quello che ha guidato la guerra fredda, che è stata segnata da un duro scontro, in alcuni casi anche militare (Corea, Vietnam, Afghanistan…), che non è mai degenerato in una guerra mondiale e che, sopratutto, aveva costruito un sistema di diritto internazionale con alla base l’ONU ed i trattati internazionali. Questo sistema non è il migliore dei mondi possibili ma quello migliore nelle condizioni date, se si produrrà dipende dall’Impero in declino e dal suo feroce scontro interno.

In questo scenario globale l’Italia brilla per il suo servilismo, oramai la politica italiana è incapace di distinguere fra i propri interessi e quelli statunitensi arrivando ad immedesimarsi nei destini degli USA senza capire che ci stanno portando ad uno scontro nel quale noi saremo le prime vittime.

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