di Mark Epstein
Per capire l’odierno panorama politico e partitico nell’Impero bisogna rendersi conto di quanto ambo i poli della Duopoly sono ormai formati da coacervi plasmati e diretti dalla “extreme center” (per un ottimo esempio di quanto poco cambiò di fatto tra il regime di W Bush ed il regime di Obama, tranne le forme retoriche nelle quali veniva venduta questa forma di eterodirezione, vedi qui).
A seguito delle varie barriere e costrizioni istituzionali create ad hoc per mantenere il dominio della Duopoly e de facto rendere impossibile la presenza di partiti terzi/altri sulla scena elettorale (come la “gerrymandering”, il bisogno di raccogliere quantità di firme molto alte per poter inserire un nuovo partito o candidato sulle schede, l’organizzazione dei dibattiti in modo non solo da escludere candidati non iscritti ai due poli della Duopoly, ma addirittura anche quelli invisi all’elite oligarchica che dirige i vertici di questi partiti stessi (soprattutto nel caso dei Dem, gli ostracismi, le diffamazionie le esclusioni contro Tulsi Gabbard essendo tra i più sintomatici)), in aggiunta alla comparsa del termine ‘socialismo’ tra i termini che sono di nuovo sino ad un certo punto ‘permessi’ all’interno del mondo elettorale e mediatico estremamente propagandistico dell’Impero, anche il termine ‘populismo’ sta crescendo in termini di diffusione e popolarità.
Per quanto riguarda ‘socialismo’, come ho già notato in altri interventi su Marx21, in realtà si tratta di una designazione quasi completamente fuorviante, abbinata soprattutto ai nomi di Bernie Sanders, ed in seconda battuta dei Justice Democrats (tra cui spiccano nomi come quelli di Alexandria Ocasio Cortez, Rashida Tlaib ed altre) e di persone associate ai Democratic Socialists of America, alla rivista Jacobin, e via dicendo. I cardini della piattaforma di Sanders si richiamano al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, New Deal che era concepito come concessione strategica intesa proprio ad impedire svolte di tipo realmente socialista o rivoluzionario negli USA di allora. Quindi un programma esplicitamente anti-socialista, anti-rivoluzionario, e di compromessi strategici, per quanto relativamente ‘illuminati’ dal punto di vista delle prospettive delle classi dominanti di allora (FDR si schierava senz’altro sulla sinistra dello schieramento del partito Democratico di allora).
Quindi solo a partire da questo fondamentale fatto storico e dalle conseguenze che se ne traggono, possiamo capire la profonda demagogia sia di Sanders sia di chi usa questa etichetta come se avesse qualche attinenza reale e specifica con movimenti realmente socialisti (siamo più o meno allo stesso livello del regime Trump che ‘insulta’ come ‘Marxist’ chiunque partecipi alle proteste contro l’assassinio di Floyd). Questa demagogia è intenzionalmente aggravata dall’essere accompagnata dallo slogan “political revolution”. Come dovrebbe essere ovvio (vedi il ritornello di una celebre canzone afro-americana di Gil Scott-Heron, “The Revolution Will Not Be Televised”) chi declama ai quattro venti sui media oligarchici che sta preparando una “political revolution” o è un buffone, o è un demagogo senza scrupoli che sa già dal momento in cui propone questo slogan che non ha nessuna intenzione di cercare di implementare un programma anche solo minimamente ‘rivoluzionario’ e tanto meno socialista.
Sanders stesso anche come tattica elettorale avrebbe sollevato molto meno polverone demagogico inutile, e creato molte più adesioni se si fosse limitato a dire, con relativa precisione, che stava cercando di proporre alcune soluzioni abbastanza in linea con il New Deal di FDR (anche se sia proprio oggettivamente, sia soprattutto confrontati con le realtà ed i bisogni dei tempi storici in cui furono fatte, le proposte di FDR erano molto più a sinistra di quelle di Sanders). Ciò che Sanders propone(va) erano al massimo alcune soluzioni neokeynesiane… Ma in realtà le manovre di Sanders hanno portato e serialmente portano e vertono su ben altro: infoltire le schiere di irretiti nelle spire dell’ala Dem dell’oligarchia imperiale.
Ma l’emergere di Sanders e dei movimenti sulla sinistra dello schieramento, dell’ala Dem della Duopoly oligarchica, che sono spie della profondissima crisi di legittimazione dell’intero sistema politico imperiale agli occhi dell’elettorato e dell’intera popolazione, hanno un corrispondente piuttosto simmetrico nell’ala destra della Duopoly, nel partito Rep.
Questa divisione si può ben affermare è iniziata con la campagna di Trump (che intenzionalmente prese di mira la establishment del partito, ed usò una serie di argomenti populisti (su ricchezza, immigrazione, esportazione di posti di lavoro, ecc.), anche se in modo completamente demagogico, per vincere la presidenza), ed al seguito di questa vittoria stiamo assistendo ad un crescendo di personalità e di linee politiche di una risorta destra populista nel partito Rep. Uno dei casi più emblematici è il senatore del Missouri, Josh Hawley (per vari resoconti su di lui e la sua linea politica vediqui, con maggiori dettagli sulla sua Weltanschaaung qui, per un resoconto vicino al ‘centro’ imperiale qui, e finalmente riguardo alcune sue proposte e lavoro con i Dem su questioni che riguardano la Big Tech, vedi qui).
Questa crescente divisione all’interno dell’ala Rep, come quella all’interno dell’ala Dem della Duopoly, in sostanza è il riflesso anche del ruolo imperiale degli USA nel mondo: da un lato con l’emergere di potenze medie o grandi alternative, come quelle che si sono unite in modo piuttosto labile nei BRICS, diventa più visibile il declino degli USA come potenza economica; dall’altro proprio per ‘contrastare’ questo declino l’Impero usa una gamma sempre più aggressiva ed illegale di misure militari, di coercizioni (pure illegali) come le sanzioni, di ricatti ed estorsioni con istituzioni militari e ‘multilaterali’ (NATO, FMI, istituzioni bancarie e via dicendo) contro i competitori a livello globale, e di misure fiscali e disinvestimenti su tutto l’arco (per quanto soppraviva ancora a malapena, dopo decenni di assalti neoliberali) della assistenza sociale all’interno (quindi cercando sia di ingrandire il suo ruolo di dittatore globale, sia di finanziarlo in modi sempre più unilaterali e pericolosi per una sua legittimazione sia interna che ‘estera’).
L’area che diventa il campo di battaglia, per ora soprattutto retorico ed ideologico, ancora relativamente poco dal lato pratico e concreto, è il fondamento sulla carta ‘libertario’ della maggioranza Rep. In pratica questa maggioranza, che con la maggioranza dell’ala Dem della Duopoly (il centro-destra di quel partito) forma la vera “extreme center” oligarchica che gestisce il potere e plasma tutti gli accordi istituzionali che sedimentano il potere dell’oligarchia nell’Impero, sbandiera il termine libertario solo per quanto riguarda la propaganda del ‘libero mercato’, che, visto che poi introduce miriadi di elementi sia legislativi che istituzionali a sostegno di questo mercato alla fine molto poco ‘libero’, non certo da ultimo nella forma delle infinite aggressioni e ricatti per mezzo delle sue forze armate, dei suoi sistemi di sorveglianza e spionaggio (e calcolando la parte ‘sommersa’ del budget federale, cui i ‘civili non hanno accesso (la cosiddetta ‘black budget’), questa parte NatSek del budget costituisce ben oltre il 50% di ogni dollaro di introiti fiscali che viene speso), è ‘libertario’ praticamente solo per quanto riguarda la propaganda a sostegno della propria Weltanschauung economica, molto poco riguardo le prassi effettive.
Da qualche decennio esiste invece una minoranza dell’ala Rep che si auto-designa libertaria, il cui esempio forse più notevole è Ron Paul (il cui figlio Rand è ora senatore), e che invece segue invece in modo relativamente coerente questa filosofia libertaria, dove a livello di economia e politica interna sostiene una forma relativamente estrema e ‘pura’ dell’appoggio al ‘libero mercato’ senza tanto badare alle conseguenze sociali, ecc. E, sempre coerentemente, a livello della politica estera è contraria a quasi tutte le avventure di aggressione imperiale, perchè non direttamente utili all’economia nazionale, e fonti di immensi costi aggiuntivi riguardo situazioni che in realtà ca. ‘non dovrebbero concernerci’.
La nuova (ri)nascente ala populista dei Rep, di cui Josh Hawley è forse il rappresentante più emblematico, rappresenta per molti versi l’attacco alla ed il retro dell’ala realmente libertaria del partito. In altre parole è, nei fatti più retoricamente che realmente finora, contraria ad un mercato completamente ‘libero’ di cui non si conteggiano le conseguenze sociali, politiche ed economiche interne, e, soprattutto, in parallelo col nuovo ‘nazionalismo’ trumpiano, sostiene di nuovo molte forme di aggressione e di imperialismo bruto, a favore di questa ca. ‘rinascita nazionale’, in ciò in realtà scostandosi poco dalle politiche reali della “extreme center” solo camuffandole meno e diversamente, soprattutto non fingendo, come la “extreme center”, specie nella sua versione ueber-ipocrita Dem, di essere un Impero ‘a fin di bene’, per motivi cosmopoliti e via dicendo con l’infinita serie di emoticon ipocriti Disneyani come la “indispensable nation” di Obama, ma semplicemente di voler usare tutti i mezzi extra-economici ed economici, per dare un vantaggio alla propria nazione, senza alcun riguardo per il bene o gli interessi di altri od altre nazioni (fingendo, secondo la retorica populista, che questa postura servirebbe l’interesse ‘di tutti’, quasi una forma di governo di ‘unità nazionale’ (naturalmente con una visione della ‘nazione’ prettamente di destra)).
A rimorchio di questi sviluppi, il populismo nelle sue varianti sta ricevendo un’attenzione mediatica decisamente crescente. In particolare due personalità che si sono impegnate politicamente sia a ‘sinistra’ (Krystal Ball, vicina al movimento di Sanders e dei Dem ‘progressisti’) che a destra (Saagar Enjeti, che è stato un ‘protetto’ di Tucker Carlson, giornalista della Fox News, che interviene su uno spettro amplissimo di questioni, in modi da molto demagogici a quasi seri, soprattutto dando occasionalmente spazio ad intellettuali di sinistra come Glenn Greenwald, o Matt Taibbi, di intervenire) hanno dato alle stampe un volume come co-autori, The Populist’s Guide to 2020: A New Right and a New Left are Rising, che è diventato in poco tempo un bestseller su Amazon(qualche mese fa).
I due sono anche co-conduttori di Rising su The Hill, uno degli spazi di dibattito politico in maggior crescita in rete, e che è possibile ritrovare su YouTube. Entrambi si auto-designano ‘populisti’ e quindi siamo di fronte ad una collaborazione esplicita e formalizzata, sia a livello di interviste, programmazione e dibattiti politici, sia di pubblicazione di libri, delle due ali del ‘populismo’. Ciò che caratterizza esplicitamente gli interventi dei due è una molto maggior attenzione data alle questioni di classe, e della ‘classe operaia’, ovviamente definita in parte in modi diversi dai due, rispetto alle due ali della Duopoly, e, soprattutto, rispetto ai camuffamenti identitari delle elite oligarchiche del partito Dem.
Il loro emergere mi sembra sottolinei in modo molto forte appunto la crisi di legittimazione che lo “extreme center” neoliberale vive da parecchi anni, e forse poche volte in modo così drammatico come in questo presente.
A livello del panorama mediatico soprattutto, è una presenza molto importante, utile, e ben accolta, perché strappa quasi in tempo reale molti dei veli demagogici degli apparati di propaganda e disinformazione dei media oligarchici rispetto ad una gamma relativamente ampia di questioni (purtroppo la politica estera di solito viene trattata poco, ma quelle poche volte spesso con coraggio: il 18 giugno hanno intervistato Glenn Greenwald riguardo la sua recente indagine sulla fortissima complicità dei media oligarchici nell’orchestrazione del colpo di stato contro Evo Morales in Bolivia, ed il sostegno alle falsità della OAS, organizzazione fantoccio dell’Impero: vedi qui, e per il saggio di Greenwald su The Intercept vedi qui).
Questa presenza coordinata ed in qualche modo ‘a pinza’ è de facto una replica concreta alla strisciante demonizzazione del termine “populismo” nei discorsi e nelle pseudo-analisi proprio delle forze politiche e degli organi di propaganda e disinformazione della “extreme center” e/o delle sue facciate camuffate rosacee. Qualche anno fa ho partecipato come spettatore ad un convegno sul “populismo” tenuto alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si cercava di analizzare da prospettive parzialmente diverse il termine. Ma la maggioranza della doxa accademica parteggiava più o meno tacitamente per le prospettive espresse nei modi più espliciti da Nadia Urbinati, una allieva di Norberto Bobbio, che portava i camuffamenti ‘liberali’ di Bobbio alle degenerazioni sempre più neototalitarie del neoliberismo a livelli che de facto potevano essere quasi posizioni ufficiale della “extreme center”. Il ‘populismo’ viene, in effetti, sempre visto come minaccia all’ “ordine democratico”, benché questo stesso ‘ordine’ poi non venga mai realmente definito in maniera anche minimamente plausibile ed onesta. 1) Prima di tutto si tratta quasi senza eccezioni di “ordini parlamentari” e non democratici (e qualsiasi membro intelligente e serio di una sinistra reale è a conoscenza della miriade di fronti sui quali questi ordini non sono per nulla democratici, dalla legge, all’economia, agli ordinamenti sociali, ecc. ecc.). 2) In questa fase di transizione ‘globalizzante’ anche solo la validità e l’estensione degli ordinamenti giuridici nazionali rispetto ad una vasta gamma di istituzioni sovranazionali è molto spesso violata su un’ampia serie di fronti. 3) Il cosiddetto “ordine democratico” viene praticamente sempre fatto coincidere con la degenerazione in aumento costante, accelerato ed interminabile delle sopraffazioni neoliberali su scala mondiale (per prendere ad esempio il caso appena citato del colpo di stato in Bolivia: nè la UE, nè la stampa oligarchica che sbraita sempre riguardo “l’ordine democratico”, nè i supposti organismi internazionali che dichiarano di essere dediti alla difesa di quest’ordine (la ICC per esempio), hanno mai fatto nulla di nulla per prevenire, condannare, ecc. ecc. questo colpo di stato contro il governo costituzionale di Morales: al contrario al convegno di Pisa la Urbinati equiparava de facto regimi come quello di Orban con governi latino-americani come quelli del Venezuela, per non aggiungere che, da un punto di vista politico relativamente concreto e preciso, il regime di Orban ha molte più caratteristiche di un regime populista di destra che di un regime “fascista”, l’etichetta politicamente ‘in’ spesso usata dalla ‘sinistra’ identitaria e globalista (ma per ragioni tacite di sostegno all’imperialismo occidentale, il bersaglio preferito è Orban, piuttosto che regimi che si avvicinano davvero di più a regimi fascisti, come quello ucraino e quello polacco)).
In genere tutto l’arco dei media da esplicitamente oligarchici come il Corsera, o La Repubblica, a quelli che fanno finta di essere a ‘sinistra’ (Il Manifesto come l’esempio forse a maggiore tiratura), usano il termine “populismo” come almeno parzialmente sinonimo di ‘deviante’, di ‘eversivo’, ecc. ecc.
Uno dei pochi autori e ricercatori che hanno invece avuto il coraggio di affrontare la questione del “populismo” nel contesto concreto del presente, e in genere un autore che si può davvero definire di sinistra, è Carlo Formenti, che in La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, affronta in modo costruttivo e spesso condivisibile le complesse questioni inerenti alla crescita di fenomeni populisti.
Chi invece ‘copre’ per lo “extreme center”, secondo camuffamenti e strategie varie di dissimulazione, spesso ‘a sinistra’ usa le strategie identitarie, di ‘cosmopolitismo’ e di fuga in avanti in istituzioni sovranazionali controllate e fondate ad hoc da interessi neoliberali, propalando i teloi della ‘legittimità’ e dell’ “ordine democratico”.
Ma tornando al nostro esempio del duo populista nel mondo dell’informazione dell’Impero, faccio notare queste caratteristiche della rubrica Rising: danno spesso spazio ad intellettuali, giornalisti e ricercatori della sinistra dell’Impero (Glenn Greenwald, Matt Taibbi, Jimmy Dore, Cornel West, e via dicendo); danno spazio alla base ed agli elementi realmente di sinistra e meno demagogici del movimento di Sanders; danno spazio ad analisi anche critiche dei mantra e stereotipi identitari che hanno dominato e dominano le retoriche depistanti degli apparati di elite dell’ala Dem dell’oligarchia, così come di tutto il suo codazzo complice accademico; discutono e danno parecchio spazio a ricercatori che si occupano degli impatti di classe dell’ordine imperialista-neoliberista sulla vita quotidiana nell’Impero, soprattutto in questa fase di imposizioni e controlli a seguito della pandemia; danno parecchio spazio alla contro-informazione ed alla critica della propaganda più eclatante degli organi di disinformazione oligarchici. Persino la rivista Jacobin ha pubblicato una recensione perlopiù favorevole al loro libro, e, caso più unico che raro, ha apprezzato la polemica dei due contro l’identitarismo come uno strumento delle oligarchie neoliberiste (vedi qui).
È appunto anche grazie all’onesto situarsi di Krystal Ball come ‘populista di sinistra’ che, ancora una volta, è possibile vedere quanto demagogica sia la postura di Sanders nel presentarsi come “socialista”, anche se la Ball medesima mi sembra rimanga sempre troppo interna alle illusioni che una vera trasformazione possa avvenire anche dall’interno dei ranghi dell’ala Dem, per esempio da ranghi vicini a ‘Justice Democrats’ (Jimmy Dore per esempio ultimamente si è reso conto che ciò non è assolutamente possibile).
Ma ci sono anche critiche che vanno fatte: Saagar Enjeti (il populista di destra), credo sia responsabile della censura direi quasi totale di posizioni effettivamente libertarie (come quelle di Ron Paul) dal programma; lo stesso Enjeti allinea nei modi classici della destra populista una narrazione de facto quasi complottista sulla Cina (che non raramente è quasi tangenziale ad una demonizzazione razzista), dove chiunque abbia avuto interessi in Cina, o vi sia in qualche modo collegato, è ipso facto quasi un ‘traditore’ (una linea che gli viene dal suo ‘mentor’, Tucker Carlson, ed ovviamente pensata anche in funzione elettorale da usare in futuro contro Biden), ha una (mancanza di) analisi sullo stato reale del capital-imperialismo odierno come sistema (la tolleranza per le info su episodi come la Bolivia è molto sporadica e senza ripercussioni sulle analisi d’insieme) che è a livelli di fondamentalismo di mercato alla Von Hayek di Ron Paul (nel caso di Paul solo per l’economia); propala cerotti ‘sociali’ imperniati su famiglia, comunità, ecc. che sono davvero prossimi a quelli dei teorici tedeschi della Gemeinschaft (critica che viene mossa spesso e volentieri ad intellettuali come Costanzo Preve, che invece a mio parere, veniva da posizioni marxiane che rimarcavano l’assenza di tutta questa enorme area di analisi da ricerche e discussioni veramente marxiane, e dove ha forse interpellato quei teorici tedeschi, lo ha fatto più che altro perchè era materiale accessibile, non sempre completamente condivisibile).
Quindi se Enjeti ha il merito di portare l’attenzione alle questioni di classe, ha molti dei difetti tipici del populismo di destra, inerenti a soluzioni di ‘riciclaggio’ di forme di autorità ed autoritarie dei passati capitalisti, di illusione di soluzioni completamente autarchiche, e di appoggio de facto ad aggressioni istituzionali ed economiche imperialiste (soprattutto nel caso della Cina, ma in realtà verso qualsiasi potenza potenzialmente rivale dell’Impero). In questo condivide quasi tutti i difetti del populismo di destra di Josh Hawley (ma di cui credo Hawley è più autocosciente).
In ogni caso questa maggiore presenza mediatica di prospettive populiste è senz’altro benvenuta sia nel senso di facilitare una diffusione di informazioni meno distorte e strumentalizzate dai media oligarchici e dai servizi, sia nel senso di rendere più visibile, aperta e ‘giocabile’ una falla nel dominio simbolico normalizzante (ma in realtà neototalitario) della “extreme center”.