
di Marco Pondrelli
Il 20 settembre Clara Mattei, del cui ultimo lavoro ci siamo occupati in passato, ha dedicato un interessante articolo apparso su ‘il fatto quotidiano’ alle lotte operaie in corso negli Stati Uniti d’America. Shawn Fain è stato eletto segretario del sindacato United Auto Workers su posizioni radicali, nell’articolo si può leggere che le battaglie coinvolgono 150 mila lavoratori di Ford, Stellantis e General Motors, la piattaforma non lascia dubbi sul significato di questa lotta, si chiede: ‘un nuovo contratto di 32 ore settimanali; la fine dei sistemi salariali a due livelli in cui i nuovi assunti vengono pagati molto meno per svolgere lo stesso lavoro; un aumento dei benefici per i pensionati; ripristino degli aumenti per l’adeguamento al costo della vita; tutele per la sicurezza del lavoro; e soprattutto un aumento di paga del 40% in 4 anni’.
Negli ultimi 4 anni il compenso degli amministratori delegati è aumentato del 40% mentre il salario solo del 6%, sono dati in linea con gli andamenti politico-economici degli ultimi 30 anni, vale per gli USA come vale per l’Italia, con una considerevole percentuale del PIL (circa il 10%) che si è spostata da salari e stipendi a rendite e profitti. Sono numeri da ricordare sempre quando ci sentiamo dire che ‘non ci sono i soldi’ o che ‘abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità’. Quello che Shawn Fain sta dicendo è che non si può più costruire competitività sulla compressione salariale. Nel 2016 fu proprio nella cosiddetta ‘cintura della ruggine’ che Trump vinse le elezioni, nelle storiche roccaforti democratiche gli operai disoccupati o sottopagati preferirono o non andare a votare o addirittura votare il super ricco candidato repubblicano. Non è casuale che Shawn Fain non abbia dato il suo appoggio a Biden, che è visto come il rappresentante della grande finanza poco interessata ai problemi della classe operaia.
A differenza dell’immagine che gli Stati Uniti vendono di se stessi non è vero che questo Paese non ha mai conosciuto la lotta di classe, dalla fine dell’Ottocento agli anni ’30 del Novecento il mondo del lavoro ha combattuto grandi lotte, spesso è volentieri represse nel sangue. Come ha scritto Alessandro Portelli ‘la borghesia in America ha rimodellato la storia a propria immagine, in una linea trionfale di sviluppo in cui il proletariato è componente legittima purché subalterna, e in cui le conquiste operaie servono solo a dimostrare le permissività del capitale che le ha concesse1‘. Se da una parte la classe operaia è stata combattuta militarmente dall’altra le istituzioni sono state costruite per rappresentare solo una parte della società americana. Questo sistema che ha ispirato anche la classe dirigente del nostro Paese (soprattutto quella di centro-sinistra) mostra oggi tutti i suoi limiti.
Ovviamente è difficile avere notizie su questi scioperi, la stampa preferisce rappresentare gli Stati Uniti come il Paese delle opportunità, dove chiunque con impegno e determinazione può raggiungere il successo (è il sogno americano), la realtà è molto diversa con pochi ricchi ben protetti dalla polizia nei loro bei quartieri e i tanti che pur avendo un lavoro (o anche più di uno) non riescono a uscire dalla soglia della povertà. Se a questo si aggiunge: che circa 40 milioni di statunitensi non hanno accesso alle cure mediche, che alla questione sociale si somma quella razziale e che il Paese continua a spendere miliardi per le tante guerre che combatte (direttamente o meno) in giro per il mondo, si capisce che una cosa è l’America dei telegiornali altra cosa è l’America reale.
Il ritorno della conflittualità è da salutare con favore e può essere la novità più grossa degli ultimi 40 anni. Il reaganismo ha cambiato in profondità non solo il sistema economico-produttivo ma anche il quadro politico complessivo, fino a Clinton tutti i candidati democratici alla presidenza si ricollegavano all’esperienza di Roosevelt dopo non è più successo, questo dimostra come Reagan abbia prodotto una rottura in grado di condizionare anche il partito democratico. È ancora difficile cogliere il ruolo di cesura che ebbero gli anni ’80, basti pensare che lo stesso Nixon, che rappresentò la reazione e la repressione del movimento contro la guerra, non si sarebbe mai sognato di attuare le politiche economiche di Reagan con cui si sarebbe chiusa la stagione del New Deal. Oggi le contraddizione di un sistema finanziario portato all’eccesso stanno scoppiando e non dobbiamo farci illusioni che questi siano problemi solo statunitensi, in Italia stiamo viaggiando a passi veloci verso la crisi se non addirittura verso la recessione. Le schermaglie parlamentari nascondono una verità scomoda, accettare le politiche europeiste e atlantiste limita la nostra autonomia e ci impedisce di costruire politiche progressiste, è questo il motivo per cui al pd le idee migliori (relativamente alle idee medie di quel partito) vengono quando sta (raramente) all’opposizione.
La risposta a questo quadro deve essere un nuovo protagonismo della sinistra e dei comunisti nelle lotte, lasciamo ad altri i politicismi parlamentari e iniziamo a costruire le battaglie sociali.
Note:
1Portelli Alessandro, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, sapere 2000, Roma, 1990, pag. 86.
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