Evitato il disastro Romney, ma c’è poco da gioire

di Bruno Steri | da web.rifondazione.it

obama-vittoriaUn paio di giorni prima del responso elettorale che ha sancito la vittoria di Barak Obama, Rocco Buttiglione sintetizzava nel corso di una trasmissione televisiva la sua valutazione circa i possibili effetti di questa importante scadenza. Cito a memoria: spero che vinca Obama, perché Romney darebbe una tale sferzata alla competitività americana da mettere ulteriormente in braghe di tela l’Europa e noi con essa; viceversa, con Obama, proseguirebbe il declino degli Usa.

Una dichiarazione alquanto sibillina, dalla quale – al di là dell’allusione all’inasprirsi della concorrenza internazionale, in caso di vittoria repubblicana – si può però arguire con nettezza un punto di sostanza: per evitare il “declino” occorre spingere sulla competitività; ed è appunto quello che farebbe al meglio un candidato come Mitt Romney. Essendo Buttiglione non precisamente il primo che passa per strada, tale affermazione la dice lunga sugli orientamenti di politica economica e sociale prevalenti in casa Udc (lo tengano presente quanti si avviano verso una collaborazione di governo coi centristi nostrani). 

Ma torniamo alla contesa presidenziale statunitense, con un giudizio di carattere generale. Obama ha vinto ma non ha più scaldato i cuori, come aveva fatto nella corsa al suo primo mandato, avendo deluso in questi quattro anni le attese di quanti hanno aspettato invano una “svolta” radicale nel contrasto alle disuguaglianze che affliggono il più potente Paese dell’Occidente capitalistico. E tuttavia bisogna subito aggiungere che un successo di Mitt Romney sarebbe stato un evento devastante, per gli Usa e per il mondo. La campagna elettorale ha fornito una chiara descrizione di quello che sarebbe stato il programma di quest’ultimo: liberista e ancor più duramente classista nelle scelte di politica interna (a cominciare dalla sterilizzazione della Dodd-Frank, la pur timida normativa anti-speculazione e anti-finanza, proseguendo con la totale privatizzazione della Social security, l’apparato di previdenza sociale, e con l’abrogazione dell’obamiana riforma sanitaria con i relativi programmi di assistenza Medicare e Medicaid), ferocemente regressivo in tema di diritti civili, più distante dall’Europa e meno propenso a sconti nelle relazioni economiche internazionali (almeno qui ha ragione Rocco Buttiglione), linea dura e ancor più protezionistica nei confronti della Cina, più aggressivo nella politica di accerchiamento economico e militare della Russia di Putin, interventista in Medio Oriente (con la prospettiva dell’adombrata rinuncia al ritiro da Iraq e Afghanistan, di una precipitazione militare della crisi siriana, dell’adozione di un’opzione bellica nei confronti dell’Iran, il tutto nel quadro del totale appoggio alla destra israeliana e al governo di Nethanyahu). Una prospettiva drammatica, in un contesto di crisi già di per sé drammatico.

Anche alla luce di tutto ciò, si può comprendere l’accorata esortazione che concludeva l’appello rivolto agli elettori dal Partito Comunista Usa: «Se non sei ancora registrato per votare, fallo ora! Se sei già registrato, VOTA! Ricorda, la tua vita potrebbe dipendere da questo». (Com’è noto, negli Stati Uniti l’obbligo di identificazione scoraggia la partecipazione al voto delle classi sociali subalterne, favorendo tradizionalmente il candidato repubblicano).

L’elezione di Romney è stata sventata: gli Stati ad alta concentrazione industriale del Nord, l’alta percentuale di donne e giovani partecipanti al voto, il crescente peso elettorale di latinos e afroamericani hanno premiato Obama (seppure ben al di sotto dell’ondata di consenso sollevata con il primo mandato). Ma c’è poco da gioire: il capitalismo non fa sconti neanche ad Obama. Gli Stati Uniti sono infatti sull’orlo di un precipizio, più precisamente un “precipizio fiscale” (fiscal cliff) scavato da tagli di spesa e aumenti di tasse, in cui potrebbe inabissarsi con l’inizio del prossimo anno l’auspicata ripresa economica. Se si somma al debito federale quello dei singoli Stati, l’indebitamento pubblico statunitense raggiunge percentuali “italiane”, una voragine peraltro assai più consistente della nostra se vista in cifra assoluta: 16 mila miliardi di dollari. L’incremento progressivo di un tale buco è stato anno dopo anno coperto grazie all’afflusso di capitali dal resto del mondo, che hanno puntualmente sostenuto le emissioni di bond Usa e assicurato la forza di una moneta che mantiene la sua primazia quale mezzo di pagamento negli scambi commerciali internazionali. Una posizione di privilegio, a garanzia dell’”american way of life” (e del costoso ruolo di gendarme globale esercitato dagli Usa). Ma c’è un limite a tutto: se ne sono accorti da tempo i cinesi, che hanno iniziato a contestare la legittimità del dollaro come divisa di riferimento e a reclamare un aggiornamento degli assetti internazionali più consono alle esigenze di un mondo sempre più multipolare. 

Non è forse un caso che, in concomitanza con la messa in questione dell’egemonia mondiale Usa, le società di rating minaccino l’affronto di un nuovo declassamento del Paese, registrando un innalzamento del rischio di default sovrano. 

Nel corso della sua campagna elettorale, Obama ha promesso un taglio del debito di 4 mila miliardi di dollari in dieci anni. Nell’immediato, egli deve ottemperare alle disposizioni contenute nel Budget Control Act, un piano emanato il 2 agosto 2011 che pone limiti di legge al debito pubblico in concomitanza con riduzioni del deficit annuale: per il 2013, a partire dal 1 gennaio, esso stabilisce interventi per 607 miliardi di dollari, tra riduzioni della spesa pubblica e aumento della tassazione (la data di attivazione delle spiacevoli misure era stata graziosamente posposta a dopo le elezioni presidenziali). 

C’è al lavoro una commissione bipartisan (repubblicani e democratici) per definire un accordo che eviti lo scatto automatico dei tagli. Come al solito, si tratta di capire dove intervenire: sui redditi alti o sulla spesa sociale, sulle spese militari o sulla tassazione indiretta (e quindi sulla capacità di consumo soprattutto delle classi popolari). Sono scelte che incidono sulla redistribuzione della ricchezza prodotta: non stiamo ovviamente parlando di un cambio strutturale del modo di produzione, ma certamente si decide della qualità della vita di decine di milioni di persone. Sono scelte che insomma definiscono un’opzione di classe. In campagna elettorale, Obama ha ribadito di voler alzare le aliquote delle fasce di reddito più alte; contemporaneamente, nel suo discorso di investitura, ha ripetuto più volte la frase: «Dobbiamo fare compromessi». E in tal senso si è rivolto al concorrente repubblicano, sollecitandolo a «salvare insieme l’America». Non si tratta solo del fatto che le decisioni devono passare al vaglio di un Congresso che è oggi sostanzialmente controllato dalla parte repubblicana. Bisogna anche dire che, benché la vulgata accrediti il presidente degli Stati Uniti come l’uomo più potente del mondo, nella realtà questi è il terminale di un inflessibile sistema di potere. La squadra, scelta da Obama medesimo, che nel passato quadriennio ha retto le redini della politica economica statunitense era composta da uomini (Summers, Rubin, Geithner) graditi a Wall Street: con loro al comando, non è stato minimamente scalfito il potere dei grandi templi del capitale finanziario e la legge che cautamente prova a contenerne gli eccessi rischia di annegare in decine di regolamenti ad oggi inattuati. 

Vedremo se, approfittando di un secondo mandato su cui non pesa l’assillo della rielezione, il presidente Usa troverà (o avrà voglia di trovare) il coraggio che non ha avuto sin qui. Così come vedremo se i droni continueranno ad ammazzare centinaia di civili in giro per il mondo, se Guantanamo resterà attiva assieme ai poteri speciali antiterrorismo, se la crisi siriana costituirà il pretesto per un ennesimo “intervento umanitario”. Vedremo.