Sinisa Mihajlovic se ne è andato. Ritratto e ricordo di un uomo vero, di un serbo fiero e genuino

di Enrico Vigna

Dopo la sua morte, avvenuta il 16 dicembre, data la grande personalità e popolarità di famoso calciatore e allenatore di calcio, in ogni dove ci sono stati ricordi e aneddoti sulla sua figura sportiva e poi personale.

Qui intendo solo tracciare un altro aspetto, quello dell’uomo Mihajlovic, molto meno trattato nei riflettori dei media ufficiali.

Lo faccio a nome dell’Associazione SOS Yugoslavia e personalmente, avendo avuto, all’interno delle iniziative contro la guerra di aggressione alla Jugoslavia e della solidarietà, la fortuna di conoscerlo e condividere sentimenti e riflessioni soprattutto amare, sulle tragiche vicende jugoslave, prima nel 1999 con il suo grande impegno per organizzare la partita in solidarietà al popolo jugoslavo “Diamo un calcio alla guerra” con i calciatori serbi, realizzatasi sopratutto grazie al suo impegno personale, poi il destino ha voluto che potessimo ritrovarci in altre due occasioni, una “leggera” e cioè quando è venuto a Torino come allenatore del Toro, l’altra quando lui decise di aiutare silenziosamente, adottando i bambini orfani del “Decie Selo” di Sremska Kamenica in Serbia, un villaggio dei bambini orfani delle guerre e sociali. Caso volle che quello era stato, per la nostra Associazione il secondo Progetto di solidarietà concreta che costruimmo nelle martoriate terre jugoslave e serbe nel 1999. Così la nostra amicizia e stima si intrecciò e consolidò nell’arco di due decenni, come diceva lui, sul campo, anche se non quello di gioco, ma quello della solidarietà concreta.

Iniziativa di solidarietà per raccogliere fondi per i profughi dal Kosovo in terra Jugoslava che si caratterizzò con lo svolgimento di un torneo di calcio a cinque con la presenza di calciatori professionisti jugoslavi composta da: Mihajlovic (Lazio), Stankovic (Lazio), Jugovic (Inter), Kristic (Salernitana), Petkovic (Venezia), Sakic (Sampdoria), Zivkovic (Sampdoria), Jovicic (Sampdoria). Con una rappresentativa della squadra della trasmissione Quelli che…il calcioAtletico Van Goof, rappresentative di tifosi di club romani e da volontari per la pace.

Intervennero, fra gli altri: V. Mastrandrea, A. Haber, P. Natoli, P. Insegno

Per la parte musicale si alternarono: Bisca, K.McKarty, P. Pollina, M. Bubola, Ginevra Di Marco, Max Gazzè

A finire, ci fu una straordinaria esibizione della fanfara macedone “Kocani Orkestar

Durante la manifestazione, proiezioni di video e immagini dalla Jugoslavia del dopoguerra e dell’embargo….

L’intero ricavato andò a sostegno del progetto di aiuti umanitari per i profughi dal Kosovo nella RFJ.

Un uomo vero, genuino, spigoloso, anche controverso, mai accondiscendente, con un grande senso dell’onore, della famiglia e dell’amicizia, ogni discussione o ragionamento era sempre a trecentosessanta gradi, e non sempre su alcuni aspetti concordavamo, ma questo rappresentava la sua personalità, come il rispetto per quello che facevamo e avevamo fatto sul campo. E quando non era d’accordo chiudeva sempre con parole di stima e rispetto perché diceva: “ tu non sei un chiacchierone, tu fai per il nostro popolo e per questo ti rispetto”. Quando Siniša raccontava a ruota libera, in amicizia, veniva fuori sempre una nostalgia per l’infanzia, ricordava il profumo delle ciambelle della mamma che arrivava dalla cucina. Nelle chiacchierate emergeva un profondo attaccamento ai valori della vita, dell’amicizia, dell’amore. Così come una radice con la propria terra, la propria patria quasi indissolubile, seppur ormai lontana.

Siniša Mihajlović era nato a Vukovar in Jugoslavia il 20 febbraio 1969. Proveniva da una famiglia di lavoratori, una famiglia mista, come tantissime in quel tempo, il padre Bogdan era serbo e la madre Viktorija croata. Il padre era camionista, la madre operaia in una fabbrica di gomma e scarpe.

Nel 1996, nel pieno della sua carriera calcistica ha sposato Arianna, con un matrimonio civile a Roma nel 1996 e nel 2005 si sono sposati in un monastero ortodosso a Sremski Karlovci in Serbia. Hanno avuto cinque figli, oltre ad un altro avuto prima. Sugli inviti di nozze, avevano scritto che non volevano regali, ma che chiunque avesse intenzione di dare loro qualcosa, avrebbe dovuto aiutare il Dečje Selo, villaggio per bambini orfani a Sremska Kamenica.

Penso che nell’intervista del 23 marzo 2009 al Corriere di Bologna, ci sia l’essenza del Mihajlovic come cittadino serbo e come uomo.

Mihajlovic: «Vi racconto la mia Serbia, prima bombardata e poi abbandonata»

L’intervento Nato dieci anni fa. Sinisa: dagli americani soltanto morte

Sinisa Mihajlovic non rinnega, perché è fiero. Non ha vergogna, perché non c’è paura. Parlare di forza del gruppo, spogliatoio coeso non è il suo rifugio. Per star comodamente al mondo, anche in quello del calcio, basta dire ovvie banalità. Si fa così, è il protocollo da conferenza stampa. Racconta niente, ma basta a sfamare tutti. Sinisa Mihajlovic no. Non la prende mai alla larga, non ci gira attorno. Va dentro il problema, lo spacca, lo analizza. Poi lo ripone daccapo, con un’altra domanda e una nuova ancora, finché sei tu a cercare risposte e a dover ricomporre certezze sgretolate. Mihajlovic è una persona forte, cresciuto sotto il generale Tito, svezzato da due guerre, indurito dall’orgoglio della sua Serbia. Gli storici sogni di grandezza del Paese sono scomparsi, resta a mala pena la voglia di farcela a sopravvivere. L’allenatore del Bologna è un «privilegiato», almeno così dice chi guarda da fuori. E in fondo è vero. Aveva notorietà e miliardi in tasca quando sulla sua casa piovevano bombe. Aveva tutto, ha ancora l’umiltà di non dimenticare da dove viene e chi è.

Il 24 marzo 1999 la Nato cominciarono i bombardamenti sulla Federazione Jugoslava. Quando l’hai saputo? Dov’eri?
«In ritiro con la nazionale slava. La notte prima ci avvisarono che la guerra sarebbe potuta cominciare. Eravamo al confine con l’Ungheria, la Federazione ci trasferì in fretta a Budapest. La mattina dopo sulla Cnn c’erano già i caccia della Nato che sventravano la Serbia».
Qual è stata la tua prima reazione?
«Ho contattato i miei genitori, stavano a Novi Sad. Li ho fatti trasferire a Budapest, ma papà non voleva. Da lì siamo partiti per Roma (ai tempi giocava nella Lazio, ndr), ma dopo due giorni mio padre Bogdan ha voluto tornare in Serbia. Mi disse: “Sono già scappato una volta da Vukovar a Belgrado durante la guerra civile. Non lo farò ancora, non potrei più guadare i vicini di casa quando i bombardamenti finiranno”. Prese mia madre Viktoria e se ne andarono. Ero preoccupato, ma fiero di lui».
Dieci anni dopo come giudichi quella guerra?
«Devastante per la mia patria e il mio popolo. A Novi Sad c’erano due ponti sul Danubio: li fecero saltare subito. Ci misero in ginocchio dal primo giorno. Prima della guerra per andare dai miei genitori dovevo fare 1,4 km, ma senza ponti eravamo costretti a un giro di 80 chilometri. Per mesi la gente ha sofferto ingiustamente. Bombe su ospedali, scuole, civili: tutto spazzato via, tanto non faceva differenza per gli americani. Sul Danubio giravano solo delle zattere vecchie. Come la giudico? Ho ricordi terribili, incancellabili, inaccettabili».
Ma la reazione della Nato fu dettata dalla follia di Milosevic. La storia dice che fu lui a provocare quella guerra.
«Siamo un popolo orgoglioso. Certo tra noi abbiamo sempre litigato, ma siamo tutti serbi. E preferisco combattere per un mio connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno. So dei crimini attribuiti a Milosevic, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta».
L’hai conosciuto?
«Ci ho parlato tre-quattro volte. Aveva una mia maglietta della Stella Rossa di Belgrado e mi diceva: Sinisa se tutti i serbi fossero come te ci sarebbero meno problemi in questa terra».
Il tuo rapporto con gli americani?
«Non li sopporto. In Jugoslavia hanno lasciato solo morte e distruzione. Hanno bombardato il mio Paese, ci hanno ridotti a nulla. Dopo la Seconda Guerra Mondiale avevano aiutato a ricostruire l’Europa, a noi invece non è arrivato niente: prima hanno devastato e poi ci hanno abbandonati. Bambini e animali per anni sono nati con malformazioni genetiche, tutto per le bombe e l’uranio che ci hanno buttato addosso. Che devo pensare di loro?».
Rifaresti tutto ciò che hai fatto in quegli anni, compreso il necrologio per Arkan?
«Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri».
Ma le atrocità commesse?
«Le atrocità? Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?»
Sì, ma i croati…
«Mia madre Viktoria è croata, mio papà serbo. Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: “C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado”. Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni».
Hai nostalgia della Jugoslavia?
«Certo, di quella di Tito. Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando».
Sei un nazionalista?
«Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono».
È giusta l’indipendenza del Kosovo?
«Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente».
Dieci anni dopo la guerra cos’è la Serbia?
«Un paese scaraventato indietro di 50-100 anni. A Belgrado il centro è stato ricostruito, ma fuori c’è devastazione. E anche dentro le persone. Oggi educare un bambino è un’impresa impossibile».
Perché?
«Sotto Tito t’insegnavano a studiare, per migliorarti, magari per diventare un medico, un dottore e guadagnare bene per vivere bene, com’era giusto. Oggi lo sapete quanto prende un primario in Serbia? 300 euro al mese e non arriva a sfamare i suoi figli. I bimbi vedono che soldi, donne, benessere li hanno solo i mafiosi: è chiaro che il punto di riferimento diventa quello. C’è emergenza educativa in Serbia. L’educazione dobbiamo far rinascere».
Sei ambasciatore Unicef da dieci anni e sostieni una casa di accoglienza per gli orfani a Novi Sad.
«Sì è vero, ce ne sono 150, ma non ne voglio parlare. So io ciò che faccio per il mio Paese. Una cosa non ho mai fatto, come invece alcuni calciatori croati: mandare soldi per comprare armi».
L’immagine peggiore che hai della guerra?
«Giocavo nella Lazio. Apro Il Messaggero e vedo una foto con due cadaveri. La didascalia diceva: due croati uccisi dai cecchini serbi. Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito, su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere». Guido De Carolis 23 marzo 2009

Nel 2019 annunciò di essere stato colpito dalla leucemia, ma nell’annunciarlo, non si smentì e disse con lo spirito combattivo che lo aveva sempre contraddistinto: “La batterò giocando all’attacco”. 

Siniša il ragazzo che voleva comprare un camion carico di banane.

Siniša Mihajlović è passato da bambino povero a stella del calcio e la sua famiglia è sempre stata sacra per lui. Solo pochi mesi prima di essere attaccato dalla leucemia e che sarebbe diventata una battaglia per la vita, aveva rilasciato una bella intervista per il suo 50° compleanno nel febbraio 2019, dove parlò della sua vita, della sua famiglia e del calcio.

..Mio padre era un camionista ed è morto all’età di 69 anni di cancro ai polmoni. Quando se n’è andato io non c’ero. Ci penso ogni giorno. Durante la guerra l’avevo pregato di venire in Italia, ma lui voleva restare nel suo paese. Vorrei che vedesse crescere i suoi nipoti. Quando si tratta di sogni, non penso a sollevare la Champions League o lo scudetto da allenatore. Il mio è un sogno impossibile: riabbracciare mio padre….”. Tragicamente, la vita di Sinisa è finita prima che compisse 54 anni e ha vissuto 15 anni in meno del suo adorato padre.

“…Da bambino amavo le banane, ma non avevamo soldi. La mamma ne comprò una da dividerla con mio fratello. Allora le dissi: quando diventerò ricco, mi comprerò un camion carico di banane e me le mangerò tutte io. Scelgo il meglio nei ristoranti, bevo vini pregiati, ma niente potrà mai battere il sapore di quella banana. Forse è per questo che ai miei genitori non manca niente. La ricchezza che spero di lasciare ai miei figli non è economica, ma valori e insegnamenti, onestà, lealtà, sacrificio….”.

Era nato a Borovo selo vicino a Vukovar.

“…Per me Vukovar era la città più bella del mondo. Poi è diventato un simbolo di guerra. Ci sono tornato dopo 25 anni… L’ultima volta che ci sono stato è stato durante il conflitto del 1991, tutto è stato raso al suolo. Non la riconoscevo nemmeno, nessun uccello volava, non c’era nessun cane. Ricordo lo sguardo di due ragazzini di 10 anni, impugnavano mitragliatrici. Avevano occhi di uomini in corpi di bambini. Occhi tristi che hanno già visto tutto tranne l’infanzia. Uno di loro mi si è avvicinato, mi ha chiesto chi fossi. Penso spesso a quel bambino, chiedendomi cosa gli è successo. Se la guerra non l’ha portato via, oggi sarà un uomo. Potrebbe avere moglie e figli. Spero che quegli occhi da adulto abbiano ritrovato un pò di luce…Non sono uno che si arrende. È importante credere in se stessi, essere tenaci, disciplinati e intelligenti. La cosa più importante è la volontà. Bisogna costantemente mettersi alla prova. Ecco, l’altro giorno avevo programmato di correre per un’ora. Dopo un po’ mi è venuta voglia di smettere, ma non mi sono arreso, ho stretto i denti e ho corso per un’ora e mezza senza fermarmi. Così deve essere nella vita…”

Ad una domanda su qual’era il suo atteggiamento nei confronti del denaro ora che ne aveva in abbondanza, rispose così: “…Il denaro è molto importante, ma non primario. Il denaro dà una sicurezza e la possibilità di realizzare i desideri. Ora ne ho in abbondanza per realizzare tutti i miei desideri, che sono molto più grandi di prima… Posso concedermi il lusso, i miei desideri non sono mitomani…quando guidato la “Zastava 128” a Borovo e poi a Novi Sad, ero felicissimo, poi mi sono divertito con la Mazda, poi in Italia ho guidato una Mercedes 500 SL, poi una BMW MZ, BMW M5 e così via…

Miha e la guerra, le guerre.

“…La guerra… Tutte le guerre sono una merda… Il fratricidio che abbiamo vissuto nell’ex Jugoslavia è il peggio che possa capitare. Gli amici si sparano a vicenda, le famiglie distrutte. Ho visto la mia gente cadere, le città sono state distrutte, tutto è stato messo a ferro e fuoco. Il mio migliore amico ha distrutto la mia casa. Mio zio, croato e fratello di mia madre, diceva che voleva “macellare come un maiale”, mio padre serbo. Arkan l’aveva trovato, avrebbero dovuto ucciderlo, ma gli hanno trovato il mio numero di cellulare addosso, gli ho salvato la vita. Sarebbero dovute passare due generazioni prima che potessi giudicare quello che è successo. È stato devastante per tutti. Quello che dico io, può dirlo anche un croato o un bosniaco. Abbiamo sperimentato la follia della storia…Ho un carattere forte. Sono un serbo dalla testa ai piedi, con tutte le virtù e i difetti del mio orgoglioso popolo. Ma so ammettere gli errori e chiedere scusa, e sono sempre pronto al dialogo. Mi si definisce un uomo duro, è vero. Ed è meglio che non mi provochino. Ma anche una persona incazzosa come me sa commuoversi: mi succede quando penso alle persone che ho amato, che non ci sono più, o quando penso alle mie figlie quando sono lontane. E il giorno che ho annunciato la mia malattia, mi sono sentito più forte, quel giorno ero più umano che mai nella mia vita..”.

Nel dicembre 2015 Mihajlović, camuffato per non farsi riconoscere, accompagnato dal fratello Drazen e dal padrino Miroslav Tanjga, tornò alla sua casa natale di Borovo, per la prima volta dopo la guerra e si recò nei luoghi dove aveva trascorso la sua infanzia.
Con le lacrime agli occhi, per la prima volta dopo 25 anni, vide ciò che restava della sua casa e dei suoi ricordi: solo macerie, materiali e nell’anima.

Oltre alla sua città natale, ha visitato il cortile della scuola, il campo dove aveva fatto le sue prime mosse di calcio, lo stadiolo di Borovo
Arrivò a Vukovar un lunedì pomeriggio. Quasi nessuno lo riconobbe perché aveva un cappello e occhiali. Prima visitò la sua casa e dopo andò alla scuola elementare che aveva frequentato.

“…È stato molto emozionante. Non sono riuscito a non piangere quando mi sono seduto nel banco dove trascorrevo i miei giorni di scuola. Poi sono andato allo stadio del club locale Borovo, dove avevo giocato una partita per la prima volta…Davanti alla casa bruciata ho pensato a quei giorni del 1991, quando sotto la mia pressione, i miei genitori impacchettarono le cose più importanti e si sono trasferiti a Belgrado. Anche mio fratello Drazen si unì alla partenza precipitosa. Successivamente, ci arrivò poi la notizia che la nostra casa a Borovo era stata minata e bruciata, mi fu poi raccontato che qualcuno aveva sparato un proiettile sulla mia foto sul muro. In quell’atto terribile c’erano alcuni simboli, il messaggio era più che chiaro. Chi avrebbe potuto lanciare una bomba sulla nostra casa? Chi e perché ha sparato alla mia foto? Queste domande mi hanno perseguitato fino a quando ho finalmente scoperto la verità. Questo fu fatto da Stipe, uno dei miei migliori amici d’infanzia, con cui avevo vissuto come un fratello. Ci siamo visti nel 2000 a Zagabria. Venne in hotel e mi chiese se sapevo tutto. Ha confessato di aver dato fuoco alla casa, ma anche di aver salvato i miei genitori, lasciandoli partire. L’ho perdonato. Questo è stata la nostra guerra jugoslava…”.

Sinisa un duro con un grande cuore e sensibilità

“ …Aiuto dove posso e chiunque posso, ma non mi piace parlarne. Non vale la pena. Una persona o capisce e lo fa da sola o non si rende mai conto di poter dare parte dei suoi soldi a qualcuno e aiutare. Spesso porto i bambini del villaggio dei bambini Decie Selo alle vacanze estive o invernali con i miei figli. Il mio cuore è pieno di gioia quando vedo il loro sorriso. Gli compro qualcosa e loro saltano dalla felicità…Ho molte richieste di aiuto, quasi quotidiane, e non ho davvero possibilità per fare fronte a tutte. Per questo, ho deciso di devolvere le mie donazioni umanitarie al Villaggio dei Bambini a Sremska Kamenica perché diverse centinaia di ragazzi e ragazze vivono lì senza affetti familiari, quindi credo che siano quelli che hanno bisogno di più aiuto. A parte il fatto che mia madre e mio fratello vivono nelle vicinanze di quel villaggio e mio padre anche fino alla sua morte, quindi quando vado a trovarli, mi piace frequentare quella meravigliosa grande “famiglia”…”.

Quando i bambini del Decie Selo da lui adottati e sostenuti, seppero della sua malattia gli scrissero queste parole:

Caro Siniša, in questo momento, forse il più importante della tua vita, ricevi e prendi i il nostro amore che ti diamo con tutto il nostro cuore di bambini. Se vuoi, vieni al nostro Villaggio dei Bambini di Sremska Kamenica, per sentire il nostro affetto che vorremmo ti potesse aiutare, come tu hai sempre aiutato noi. Vogliamo che tu vada avanti,che combatti e vinci! I tuoi bambini del Decie Selo”.

Anche Nikolina Radunovićdi Podgorica ha voluto esprimere il dolore per la sua morte. Nikolina 21 anni fa, aveva lanciato un appello per un intervento al cuore, chiedendo una donazione perché la sua famiglia non aveva nulla. Era un difetto cardiaco complesso che fino ad allora era stato riscontrato raramente dalla medicina. Mihajlović scoprì questa storia quasi per caso e ha solo detto ad un amico: “Portate qui quella bambina”. Miha era già in Italia, alla Lazio, e coinvolse la squadra. La maggior parte dei soldi fu pagata da Sinisa e il resto dai calciatori laziali. Nikolina fu operata e tornò alla vita.

Anche in questo caso Miha rispose presente. Ella è una delle tante persone che Siniša Mihajlović ha aiutato senza clamore, in silenzio.

Nikolina ha postato questa foto con queste parole:

Sinisa un GRANDE uomo. La mia amicizia con Miha è diventata indissolubile 21 anni fa, quando sono stata operata con successo a Roma il 19 aprile 2001, grazie all’aiuto e all’interessamento di Mihajlovic. Alla nascita avevo un difetto cardiaco potenzialmente letale. Non era possibile effettuare un intervento nella Jugoslavia ancora distrutta dalla guerra. A Londra si era presentata una possibilità, ma non fu possibile per i costi….Poi leggo la notizia che Mihajlovic sta lottando per la vita. Il mio Siniša? Siniša, la cui foto occupa la schermata del mio telefono? Quel Siniša, Mihajlovic uomo generoso, patriota, calciatore, padre, marito e nobile sotto ogni aspetto. 19 anni fa, hai reso possibile la mia vita. Mi hai reso possibile essere quello che sono ora, vivere la vita che vivo, percorrere i sentieri su cui cammino, sentire, volere, amare. Vorrei poterti aiutare come tu hai aiutato me. Vorrei poterti venire a trovare, come hai fatto tu. Ma non posso. Il mio unico aiuto sarà nelle preghiere, per un’altra tua vittoria. Pregherò Dio, in cui entrambi crediamo… Nella speranza che non ti neghi la sua misericordia… Nella speranza che non dimentichi la tua generosità e che ti tenda la mano proprio come tu l’hai tesa a migliaia di persone nel tuo mezzo secolo di vita. Miha, mito… Miha, campione… Miha,….uomo di cuore grande…
Poi ho SENTITO, ho sentito che era tutto finito, non ci posso credere… Miha, il mio salvatore, se n’è andato… Come è possibile? L’orrore! Sono spezzata, la mia esistenza è spezzata…”.

Mirko il ragazzo palermitano, che come Sinisa Mihajlović ha combattuto contro la leucemia e aveva chiesto di incontrarlo qualche anno fa, ha scritto una lettera straziante e commovente, l’ ultima lettera al suo eroe.

Mirko e Siniša hanno condiviso i momenti più difficili, hanno lottato insieme contro una feroce malattia. Qualche anno fa, il ragazzo aveva scritto una lettera a Sinisa, perché toccato dalle lacrime di Mihajlović quando rivelò a tutti di avere la leucemia, e poi si sono conosciuti al centro sportivo del Bologna. Dopo il trapianto, Mirko è riuscito a sconfiggere la leucemia, e quando ha saputo che le condizioni di Micha erano peggiorate, gli ha inviato questa ultima commovente lettera.

La mia ultima lettera a Micha: mi dispiace non averti potuto dare almeno un po’ della mia felicità! Ci hai insegnato a combattere, a non mollare… Con te ho vissuto uno dei giorni più belli della mia vita: era il 18 novembre 2020. Sono con un grande campione, un grande uomo. Era andato tutto bene, per me e per te, almeno stando a quello che potevo vedere a 11 anni. All’epoca eravamo veterani dei trapianti e volevamo tornare alla vita normale il prima possibile. Ricordo i pugni che davi al sacco da boxe, mi hanno ricordato il giorno della tua conferenza quando hai detto di avere la leucemia. Ho visto un uomo che è un guerriero, che si è allenato nonostante tutto.

So quanto sono stato fortunato, mi dispiace di non averti potuto dare almeno un pò della mia felicità. Quando indosso la maglietta che mi hai regalato, posso vederti, abbracciarti, parlarti. Non puoi rispondermi, ma va bene. In fondo so che lo fai. Ci hai insegnato a combattere, a non mollare. Siniša, mille grazie non bastano, ma ti devo tutto. Buon viaggio.“. Mirko da Palermo.

Grazie al suo amore per i bambini, è anche diventato un ambasciatore di buona volontà dell’UNICEF.

Aveva scritto nel 2019 alla scoperta della malattia:

..“Ci sono momenti nella vita in cui ti ritrovi da solo a lottare contro un avversario difficile da superare o ad affrontare un problema che è complicato da risolvere. Io vivo ora un momento così, però mi sento molto fortunato perché so di non essere solo. Accanto a me ho scoperto di avere un sostegno enorme. In questi giorni ho ricevuto un mare di affetto, solidarietà ed energia positiva che mi ha dato una incredibile, ulteriore, carica e la certezza che vincerò questa battaglia contro la leucemia.
Ho ricevuto migliaia di messaggi. Vi assicuro che li ho letti tutti, uno dopo l’altro: ognuno ha rappresentato per me una carezza, un abbraccio e ha toccato il mio cuore. Sono stati giorni duri e mi scuso se non ho risposto e ringraziato ognuno di voi.
Lo faccio qui, adesso, grazie alla Gazzetta dello Sport e al Presidente Urbano Cairo che mi hanno affettuosamente messo a disposizione questo spazio. Grazie per la vicinanza ai presidenti delle squadre in cui ho militato da giocatore o allenatore e a quelli con cui non ho mai lavorato ma mi hanno mostrato stima e affetto.
Grazie agli ex compagni e avversari dei miei anni da calciatore, ai giocatori di oggi che ho allenato e a quelli che non ho mai guidato ma ugualmente mi hanno detto “Forza Mister”.
Grazie ai tifosi delle “mie” squadre e a quelli che invece ho affrontato vestendo un’altra maglia. Tanti di coloro che magari in campo mi hanno fischiato e contestato, stavolta mi hanno incoraggiato e scritto “Non mollare Sinisa. Grazie a quanti nel mondo non solo dello sport ma della politica o dello spettacolo mi sono stati vicini.
Grazie agli amici di una vita incontrati in tante città durante la mia carriera.
E grazie alla gente comune che non è famosa: chi mi conosce sa che valuto ogni uomo per come è e non per chi è. Dai messaggi di capi di Stato (da non crederci…) alla letterina ricevuta da un bambino che ha disegnato un sorriso per me, siete stati tutti importanti. Grazie, grazie, grazie. Mi avete commosso. Ho finito le lacrime, ora sono pronto a combattere. Ci rivediamo presto”.

SINIŠA Mihajlović è stato sepolto a Roma, nella chiesa di San Nicola, che è stato anche il suo santo battesimale. Quasi una simbologia. Sinisa alla nascita celebrato con San Nicola come gloria battesimale, poi nello stadio di San Nicola intitolato al santo cristiano, vinse come calciatore il suo trofeo più importante con la Stella Rossa a Bari nel 1991, oggi ha chiuso il cerchio della vita nella Chiesa romana di San Nicola.

Quest’uomo di grande cuore avrà una sua stella nel cielo. E brillerà di un bagliore proprio. Rimane il dolore e la tristezza, ma anche il ricordo di una roccia. La storia di Siniša è una storia sul percorso verso l’appagamento dello spirito, per dare un senso all’esistenza, alla vita. La sua storia porta il messaggio principale: puoi diventare tutto, ricco e benestante, ma comunque, alla fine, devi cercare di salvare te stesso, e per farlo devi cercare di rimanere te stesso!
Come disse Dostoevskij: “Chiunque voglia sinceramente la verità deve essere sempre spaventosamente forte… Soffrire e piangere significa vivere…Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive….”

ZBOGOM/ADDIO Sinisa, amico, fratello di vita, condivisa e vissuta nella tragedie della martoriata terra jugoslava, nel nome del bene, della fratellanza e della generosità, non dell’odio.

Che la terra sia lieve. Tuo kume Enri

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