Serbia-Kosovo: alta tensione che viene da lontano, di cui la questione targhe è solo un ultimo tassello

di Enrico Vigna

L’alta tensione che in queste settimane sta crescendo tra la Serbia e la provincia serba del Kosovo, auto proclamatasi “stato indipendente”, ha, nella questione targhe dei veicoli, solamente un tassello di una ventennale serie di problemi, violenze, soprusi, in un quadro di fondo che ha, nel problema tuttora irrisolto della questione “indipendenza” e nella negazione di fatto della Risoluzione 1244 dell’ONU, le sue radici. L’esasperazione e la rabbia quotidianamente vissuta delle popolazioni serbe e non albanesi nella provincia kosovara, ha portato i serbi a bloccare con barricate le strade del confine amministrativo, mentre la polizia kosovara armata è stata schierata per stroncare la protesta. Nrl frattempo l’esercito serbo si è schierato dalla parte serba come monito e atto di risolutezza verso le autorità di Pristina, ma anche della NATO/KFOR. Comunque la si veda è l’ennesima prova di quanto siano stati finora inutili e improduttivi i tentativi e i negoziati promossi dall’UE per superare le posizioni tra le parti.

Alcuni elementi di storia  per capire

Jarinje e l’altro valico di frontiera tra Kosovo e Serbia, Bernjak, sono bloccati da oltre dieci giorni dai serbi del Kosovo, che protestano contro le nuove normative che li obbligano a cambiare le targhe serbe dei veicoli con quelle provvisorie del Kosovo quando entrano nella provincia autonoma, ciò che devono fare i conducenti kosovari, quando devono entrare in Serbia, in quanto il Kosovo come entità statale non è riconosciuto dalla Serbia e anche internazionalmente è riconosciuto solo da 98 paesi su 193 dell’ONU.   

Dal 20 settembre, giorno in cui è stata imposta la misura, i serbi del Kosovo,  hanno ostruito le strade con barricate e con oltre 70 camion delle imprese pubbliche serbe del Nord della provincia.

Il governo serbo ha denunciato la presenza delle unità armate di Pristina, come una provocazione per la gente comune che protesta pacificamente e che vive in questa area.

Ogni mattina i manifestanti che occupano le strade e formano i blocchi, vengono soccorsi con cibo e bevande dai paesi vicini, e sostituiti nelle tende allestite per ripararsi da freddo e pioggia, per tenere la posizione e difendere le barricate da tentativi di sgombero. Per questo durante il giorno molti vengono dai villaggi vicini, per manifestare sostegno e solidarietà alla protesta. 

Le targhe sono state uno dei temi di contesa, da subito dopo l’aggressione NATO alla RFJ nel 1999, infatti dopo la fine dei bombardamenti della NATO, la provincia passò sotto il controllo delle Nazioni Unite e della KFOR/NATO fino al 2008. Poi il 17 febbraio 2008, sotto la regia USA/NATO fu dichiarata unilateralmente l’indipendenza, ma la Serbia, avendo il Diritto Internazionale dalla sua parte, non l’ha mai riconosciuta ritenendola illegale, insieme ad altri 102 paesi. Da quel momento si è creata una situazione ingarbugliata e contorta, strutturatasi con due entità statali parallele, con un sistema amministrativo e istituzionale che vede la popolazione serba e non albanese, che fa riferimento alle istanze istituzionali della Serbia, mentre il resto alle autorità di Pristina.

Nel 2011, tre anni dopo che il Kosovo aveva dichiarato l’indipendenza, le autorità del Kosovo e la Serbia, attraverso mediazioni internazionali, raggiunsero un accordo in base al quale le autorità del Kosovo avrebbero emesso targhe contrassegnate con “RKS” (Repubblica del Kosovo), ma dopo il rifiuto della Serbia di riconoscere la sua provincia autonoma come stato, solo come “KS“, sigla neutra che significa semplicemente “Kosovo”.

Ma la maggioranza della popolazione del nord del Kosovo ha continuato a utilizzare le targhe serbe, che iniziano con i nomi abbreviati delle città. Nel 2016, il Kosovo ha esteso la validità delle targhe KS per altri cinque anni. Quando questa misura è scaduta il 15 settembre, il governo del primo ministro separatista Albin Kurti ha deciso di non estenderla e ha annunciato che avrebbe richiesto anche la rimozione delle targhe emesse dalla Serbia al confine, e la loro sostituzione con le targhe temporanee del Kosovo. La Serbia, continuando a non riconoscere lo stato del Kosovo, da parte sua, non riconosce le targhe RKS e richiede ai conducenti albanesi di rimuoverle prima di entrare in Serbia. Di fronte a questo atto unilaterale e non concordato, i serbi della Provincia, hanno reagito con risolutezza, bloccando con barricate e blocchi stradali i due valichi verso la Serbia, mentre la Serbia ha schierato veicoli corazzati e aerei militari hanno sorvolato l’area, oltre ad aver messo le unità dell’esercito serbo in stato di massima all’erta e operatività di combattimento, nella base militare di Rudnica a Raska.

Per arginare e contenere la protesta è intervenuta anche la KFOR/NATO, mettendosi al lavoro per cercare soluzioni e impedire l’allargarsi della protesta ed un suo inasprimento violento. Ma i sindaci serbi delle quattro municipalità settentrionali a maggioranza serba hanno finora rifiutato di accettare le loro proposte e condizioni. L’attuale comandante KFOR sul posto, il generale italiano Federici, aveva proposto ai manifestanti di levare i blocchi, far rientrare le unità speciali di Pristina e i soldati della KFOR avrebbero preso in consegna sotto il loro controllo i valichi. Ma i sindaci di Mitrovica Nord, Zvecan, Leposavic e Zubin Potok hanno ribadito che le autorità del Kosovo devono ritirare anche la decisione sulle targhe, dichiarando: “…In consultazione con i nostri cittadini, abbiamo respinto all’unanimità la proposta KFOR. La nostra gente e noi, come loro rappresentanti, non siamo disponibili ad accettare l’intenzione di Pristina di metterci in un ghetto”.

La KFOR ha rimarcato una sua presenza visibile nell’area, per impedire innalzamenti delle tensioni tra le due parti in campo, pattugliando i blocchi.

Nel frattempo a Bruxelles, in un incontro tra le delegazioni del Kosovo e della Serbia nell’ambito del dialogo favorito dall’Unione europea, l’inviato dell’UE per l’area, M. Lajcak ha dichiarato di aver incontrato separatamente i negoziatori delle due parti per discutere i modi per risolvere l’attuale crisi”. Va sottolineato che, lo stesso Lajcak, ha di recente dichiarato apertamente, che il suo compito è il “pieno riconoscimento internazionale del Kosovo“, altro che mediatore, un mero esecutore dei piani di sottrazione del Kosovo alla Serbia!

Il presidente serbo A. Vucic ha ribadito che la Serbia rimane “impegnata per processi di pace, ma non si lascerà umiliare”. Oltre a ordinare manovre militari al confine amministrativo, Vucic ha anche minacciato di non tornare al tavolo dei negoziati, fino a quando le autorità di Pristina, non ritireranno le forze inviate nel nord del Kosovo, definendola un'”azione criminale“.

“…L’occupazione con veicoli blindati nel nord dl Kosovo Metohija, condotta da Pristina avviene con la comunità internazionale, totalmente muta. Se la Serbia togliesse le sue misure nei confronti del Kosovo, riconoscerebbe di fatto la sua indipendenza. Dovremmo recedere noi, che siamo uno stato sovrano verso loro, che non sono uno stato sovrano? Se ritiriamo queste misure, il Kosovo sarà di fatto indipendente e la Serbia avrà riconosciuto esso…Bruxelles può organizzare tutto ciò che vuole, ma noi non accetteremo ciò che loro pensano e vogliono, che noi accettassimo…”.

Anche la primo ministro serba Ana Brnabic, rivolgendosi alle Nazioni Unite ha affermato che “ Pristina ha innescato una grave crisi con un’irrazionale dimostrazione di forza, ma che Belgrado resta impegnata a trovare una soluzione basata sul compromesso.”.

Il governo di Belgrado è in questi mesi investito da una campagna isterica anti-russa, in corso nella sfera dell’informazione serba filo occidentale, che ha l’obiettivo di spingere definitivamente la Serbia nell’abbraccio letale dell’occidente e della NATO. In questi giorni questa si è ulteriormente inasprita, dopo che anche l’addetto militare russo A. Zhinchenko ha visitato il confine. Mentre la scorsa settimana l’ambasciatore russo in Serbia, A. Bocan Kharchenko, aveva visitato due basi militari vicino al Kosovo con N. Stefanovic, il ministro della difesa serbo. Va ricordato che la Russia, insieme alla Cina non riconosce il Kosovo. 

“…Le unità dell’esercito della Serbia sono in piena allerta, altamente motivate e pronte a proteggere il loro popolo“, ha ribadito il ministro della Difesa serbo. Stefanovic, che con  il capo di stato maggiore generale Z. Mojsilovic, hanno visitato le unità dell’esercito serbo a Raska e Novi Pazar. Le unità fanno parte delle forze attive dell’esercito serbo e sono in piena allerta, ha annunciato il ministero della Difesa serbo. “Molte persone non avevano creduto al presidente Vucic, quando ha detto che il nostro esercito sarebbe stato molto più forte e non avrebbe permesso alcun tipo di pogrom del nostro popolo, ma ora possono vedere fino a che punto siano arrivati la determinazione dell’esercito della Serbia e la nostra dotazione di attrezzature e armi. Oggi la Serbia è molto più potente di quanto non fosse nei decenni precedenti e l’esercito della Serbia è pronto a proteggere il suo popolo…”, ha detto Stefanovic. “…Sono orgoglioso degli alti ufficiali e soldati che hanno dimostrato oggi quanto amano la loro Serbia e che rappresentano un deterrente per chiunque abbia intenzione di infliggere danni alla Serbia…Ciò che si è visto a Jarinje e Brnjak, così come gli ultimi fatti del pestaggio di serbi, mostra quanto avesse ragione il nostro presidente, a dire che tutto fa parte di una campagna organizzata e che era una provocazione, progettata per espellere i serbi dal Kosovo. Rimanere in silenzio o semplicemente inviare messaggi burocratici in cui entrambe le parti chiedono di allentare le tensioni è un atto orribile. Noi non abbiamo fatto una sola mossa che mettesse in pericolo la vita delle persone in alcun modo. Non abbiamo intrapreso alcuna azione che possa essere interpretata come una provocazione…Il nostro esercito non ha voglia di provocare, il nostro Paese vuole la pace e qualsiasi soluzione che dia una vita migliore a tutti, ma come ha detto il presidente, non permetteremo nuovi pogrom, non ci saranno nuove tempeste o operazioni simili.”, ha ribadito il ministro della Difesa.

Ma il presidente serbo, sistematicamente sottoposto a continue pressioni e ricatti da parte dei paesi occidentali e dalla NATO, cerca di mantenere relazioni negoziali anche con questi, prevedendo, non a caso, che l’Albania, membro NATO e influente propugnatore della causa di Pristina, ufficializzi un passo di integrazione tra Pristina e Tirana, che da molto è un obbiettivo dei due governi, ovviamente sostenuto da NATO e USA. Ma questo rimescolerebbe e complicherebbe ulteriormente il destino della popolazione serba nella Provincia. Così come va anche tenuto presente il ruolo della Turchia, che ha nel Kosovo una presenza significativa sotto tutti i punti di vista

Queste escalation, come notano molti analisti russi, possono essere utilizzate da Erdogan anche come strumento di pressione nei confronti della Russia, e di questo hanno anche trattato nei giorni scorsi nell’incontro di Sochi i due presidenti.  

Ma tutto questo, sempre secondo analisti russi, potrebbe anche aprire nuovi scenari alla Russia: mentre la NATO e l’UE mostrano alla Serbia che tutto ciò che riesce ad ottenere sono dichiarazioni vuote e nessun sostegno tangibile, allora Mosca potrebbe diventare un partner indispensabile e concreto, ed essere una reale e tangibile protezione, di cui la Serbia ha assoluto bisogno, per non essere travolta in una spirale sempre più devastante per la sua economia e per la sua indipendenza e sovranità.

Da Bruxelles in queste ore è trapelata la notizia di un presunto accordo trovato tra le parti, la cui bozza prevederebbe tre punti: 1) dalla prossima settimana si inizierebbero ad utilizzare adesivi invece di cambiare le targhe. 2) Verrà formato un gruppo di lavoro per trovare una soluzione permanente relativa alla libera circolazione dei veicoli entro sei mesi. 3) La KFOR prenderebbe il controllo dei valichi con lo sgombero delle barricate.

L’ex Ministro degli esteri jugoslavo Zivadin Jovanovic ha dichiarato che, in riferimento al primo accordo sui principi di normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina, la questione resta se quell’accordo fosse un’espressione di volontà liberamente espressa o un documento di natura politica. Sottolinea che la Serbia ha fatto tutto rapidamente, mentre Pristina e l’UE, non hanno fatto nulla di ciò che è stato firmato. “Dalla lettura dei fatti degli ultimi otto anni, si può valutare che Pristina e Bruxelles non intendessero realizzare quanto formalmente accettato, né al momento della firma del documento né successivamente. Le disposizioni sul TPI dell’Aja, con competenze esecutive sono servite solo come una trappola per la Serbia per fargli rinunciare alla “realtà sul campo” ritirando tutte le sue istituzioni dal nord del Kosovo e Metohija e consentendo l’espansione delle istituzioni separatiste anche in quella parte della provincia serba…Così, in pratica, tutto si è trasformato in concessioni unilaterali nell’interesse della secessione illegale di Pristina e della geopolitica dei principali membri dell’Ue e della Nato”. Ha detto Jovanovic. “…Ci sono state una serie di mosse politiche unilaterali e insolenti di atti compiuti, e così la legittimazione della secessione è avanzata. Allo stesso tempo, l’UE aveva promesso di essere imparziale nel dialogo, la Serbia ci ha creduto, ma in pratica Bruxelles si è uniformata ai comportamenti irresponsabili di Pristina, ha lavorato alacremente alla costituzione di istituzioni e sistemi di istituzioni illegali…tra cui la costituzione di forze paramilitari illegali, equipaggiate, armate e addestrate da alcuni membri dell’UE. Tutto questo è stato fatto mancando di rispetto e violando la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Tutto ciò indica che non si tratta di ambizioni irragionevoli, mosse sconsiderate o sforzi aggressivi di alcuni esponenti politici di Pristina, ma di scenari di espansione e “diplomazia asimmetrica” dei centri di potere occidentali, che mirano all’essenza dell’indipendenza e dell’integrità della Serbia”, Zivadin Jovanovic ha concluso.