Rottura Europa-Russia: cui prodest?

di Fabio Massimo Parenti

Con le esplosioni provocate in precisi punti del Nord Stream 1 e del Nord Stream 2 nelle acque della zona economica esclusiva della Danimarca, la sicurezza energetica europea è venuta definitivamente meno. Il sistema di approvvigionamento Europa-Russia costruito nel corso degli ultimi venticinque anni appare irrimediabilmente compromesso e qualunque sarà il risultato delle indagini condotte dalle autorità dei Paesi scandinavi coinvolti difficilmente le cose torneranno come prima.

Dopo i sabotaggi, in rete sono inevitabilmente rimbalzate le dichiarazioni rilasciate dal presidente statunitense Joe Biden lo scorso 7 febbraio durante una conferenza stampa: “Se la Russia invade, non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a questo”. All’obiezione del giornalista: “Come farete esattamente, visto che il progetto è sotto il controllo della Germania?”, l’inquilino della Casa Bianca rispose: “Vi garantisco che saremo in grado di farlo”.

L’avversione di Washington, e in particolare dei Democratici, per il gasdotto, d’altronde, era nota da tempo. Già il primo gennaio 2021, il Senato USA aveva votato per annullare il veto di Trump sul National Defense Authorization Act (NDAA), che includeva “nuove disposizioni relative al Nord Stream 2 si sensi del Protecting Europe’s Energy Security Clarification Act (PEESCA). Così, in linea con le nuove sanzioni, la norvegese DNV GL era stata costretta ad interrompere tutte le attività di verifica per il sistema di gasdotti Nord Stream 2.

Il Nord Stream 2, completato lo scorso anno ma mai entrato in funzione, avrebbe dovuto raddoppiare il volume delle forniture di gas russo alla Germania già garantite con il gemello Nord Stream 1, un progetto concepito nel 1997 e realizzato – dopo anni di studi, trattative ed ostacoli – tra il 2011 e il 2012. Il 6 settembre 2011 entrò in funzione la prima conduttura e l’8 novembre successivo il gasdotto fu ufficialmente inaugurato alla presenza dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, dell’allora presidente russo Dmitrij Medvedev e dell’allora primo ministro francese François Fillon: un’immagine plastica della direzione, ben diversa da oggi, presa dai due Paesi-guida dell’UE in quella fase.

Se dal 2014, la guerra civile in Ucraina ha progressivamente deteriorato le relazioni UE-Russia, il definitivo fallimento degli Accordi di Minsk e l’avvio dell’operazione militare speciale russa hanno sconvolto l’intera architettura diplomatica, e dunque energetica, del Vecchio Continente. Da un lato, la Russia, sentitasi minacciata dall’intenzione dell’Ucraina – più volte annunciata da Zelensky – di entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica, ha deciso di sferrare un duro colpo al vicino con un duplice scopo: garantire gli equilibri di forza sul Mar Nero, vitale per l’accesso di Mosca ai mari caldi, e proteggere le comunità russofone nel Sud-est del Paese. Dall’altro, un’Europa debole, si è confermata un attore incapace di esprimere una propria dottrina strategica ed una chiara visione geopolitica, quanto meno autonoma da quella degli Stati Uniti.

Le decisioni dell’Amministrazione Biden hanno messo e stanno mettendo l’Europa in una posizione estremamente critica, ponendo le basi per lo scoppio di una crisi economica e sociale senza precedenti testimoniata dall’impennata dell’inflazione, già salita prima dell’inizio del conflitto a causa dello squilibrio tra domanda e offerta di materie prime e beni semilavorati conseguente alla pandemia. A settembre, sia l’UE che l’Eurozona hanno registrato un’inflazione a doppia cifra, con picchi di oltre il 20% nei Paesi dell’Europa centro-orientale, a partire da quelli baltici: non a caso, i più esposti, di fronte ai sette pacchetti di sanzioni fin qui approvati da Bruxelles.

Ripensare in pochi mesi un’intera catena di approvvigionamento energetico ha e avrà conseguenze devastanti per le economie più dipendenti dalle forniture russe, a partire da Italia e Germania. I due Paesi fondatori della Comunità Europea si scoprono estremamente vulnerabili di fronte ad un’accelerazione forzata in tema di diversificazione, talmente improvvisa e precipitosa da rischiare di compromettere persino la transizione energetica promossa appena tre anni fa dal Green New Deal europeo e guidata, almeno in parte, dal PNRR approvato lo scorso anno.

La necessità di individuare immediatamente fonti alternative al gas russo ha costretto infatti diversi Paesi europei a mettere in funzione centrali elettriche a carbone e centrali nucleari già dismesse o comunque destinate alla chiusura. La ricerca affannosa di gas naturale liquefatto (GNL), significativamente più costoso del gas naturale, ha obbligato il Vecchio Continente ad aumentare la richiesta all’estero, appoggiandosi ad una serie di attori extra-UE per i quali non c’è price cap che tenga: Norvegia, Qatar, Giappone, Canada e soprattutto Stati Uniti.

I dati ufficiali dell’EIA, agenzia statistica e analitica del Dipartimento all’Energia degli Stati Uniti, mostrano in effetti come Washington sia diventata il primo fornitore al mondo di GNL proprio nella prima metà del 2022, in crescita del 12% rispetto alla seconda metà del 2021, raggiungendo una media di circa 317 milioni di metri cubi al giorno. Nel dettaglio dei primi quattro mesi di quest’anno, gli Stati Uniti hanno esportato il 74% del proprio GNL proprio in Europa: una quota impressionante se confrontata con il valore medio del 2021 (34%).

Insomma, affari d’oro per gli esportatori statunitensi, tanto più in una contingenza globale di forte impennata dei prezzi, dunque favorevole ai produttori e sfavorevole agli acquirenti.

Prima dello scoppio della guerra russo-ucraina, l’intera UE riceveva dalla Russia ben 120 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno. Di questi, un quarto, ovvero 30 miliardi, arrivavano in Italia. Chiaramente, questo improvviso incremento dell’export fa aumentare il prezzo del gas anche negli Stati Uniti, già quadruplicato per il consumatore americano lo scorso settembre.

Se l’Amministrazione Biden, come appare ormai scontato, subirà i colpi di questa inflazione “light”, di certo i grandi produttori non staranno a guardare né si faranno troppi scrupoli. Sono loro, infatti, come spesso accade negli States, ad influenzare pesantemente l’orientamento della Casa Bianca, sia in politica interna che in politica estera.

Stesso dicasi per il settore degli armamenti militari. È bastata la mossa della Russia di invadere l’Ucraina per far scattare sull’attenti praticamente quasi tutti i governi dei Paesi europei. Finlandia e Svezia hanno chiesto l’ingresso nella NATO, sfruttando una procedura accelerata pensata ad hoc per l’occasione, mentre gran parte dei governi dei Paesi già membri hanno proposto o approvato aumenti significativi delle spese militari. Basti ricordare che degli ultimi 40 miliardi di dollari stanziati dall’Amministrazione Biden per sostenere Kiev, quasi 9 miliardi dovranno essere spesi per ricostituire le “scorte di magazzino” delle armi cedute agli ucraini. Su tutti i due giganti, Northrop Grumman e Lockheed Martin, che hanno già macinato guadagni su guadagni in borsa, ma anche altre aziende meno note al grande pubblico come Raytheon e General Dynamics si stanno fregando le mani di fronte al prolungamento della guerra in Ucraina e al riarmo generalizzato a livello globale.

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