riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Patrizio Digeva
Uno può pensare tutto quello che gli pare sull’attuale Cina: che sia un Paese ormai sulla via del capitalismo di Stato e con potenziali ambizioni semi-imperialistiche; che sia una realtà politica che ha ufficiosamente abbandonato la via del socialismo, ma non formalmente eccetera. Tutte cose che meritano capitoli a parte per essere debitamente analizzate. Tuttavia, non posso fare a meno di pensare -e di esser convinto- che se i comunisti avessero perso la guerra civile, ora la Cina sarebbe molto presumibilmente una colonia culturale, e non solo economica, degli Stati Uniti. Una cosa che le avrebbe impedito di svilupparsi in maniera indipendente. E quasi sicuramente, aggiungerei, la questione di Taiwan non sarebbe esistita se avessero vinto i nazionalisti. So che fare storia controfattuale non ha senso in termini pratici presenti; ma in termini logici sì, per cercare di districarsi meglio tra le sottigliezze e le sfumature della storia stessa. E ciò può aiutare a scoprire meglio il modo in cui il subdolo e unilaterale approccio occidentalocentrico alle relazioni internazionali ha sempre funzionato: se i vincitori sono dalla parte “giusta” (cioè la nostra), va bene che i legittimi diritti dei popoli vengano tutelati; altrimenti bisogna reinventare un nuovo artificio retorico e mediatico. È ciò che è accaduto con la Cina e la questione di Taiwan: non mettendo in dubbio che ormai dopo più generazioni molti taiwanesi – soprattutto i più giovani – non si sentano più cinesi (anche se ufficialmente per Taiwan la propria capitale è ancora Nanchino!), tuttavia la faccenda è nata solo perché e dopo che i comunisti hanno vinto la guerra civile. Nel novembre del ’43, Roosevelt, Churchill ed il Generalissimo Chiang Kai-Shek si incontrarono al Cairo, dopodiché – attraverso il Cairo Communiqué (documento storico facilmente constatabile)- gli Alleati decisero di tutelare il diritto della Cina alla restaurazione della propria integrità territoriale sancendo la riannessione dei territori precedentemente occupati dai giapponesi, Taiwan compresa. Ma di quale Cina si trattava? Chiaramente della Repubblica di Cina chiangkaishekkiana, quella nazionalista, perché nessuno tra Roosevelt e Churchill allora poteva mai immaginarsi o augurarsi che sei anni dopo sarebbe nata la RPC. Invece, sorpresa! Fu così che una nuova retorica (unidimensionale e profondamente ipocrita) da parte dell’Occidente venne alla luce, con la conseguente nascita dell’annosa ed ancora irrisolta questione taiwanese….
Detto ciò, vivo in Cina, sono socialista, ma non per questo sto negando che anche qui (Paese sterminato) ci siano problemi specifici e radicati e non credo la Cina necessariamente essere uno stinco di santo, naturalmente. Nondimeno, nessuno può negare che -per fortuna- i comunisti hanno vinto e la Cina da allora è davvero diventata politicamente indipendente, trovando il coraggio di sottrarsi al giogo imperialista dell’Occidente. E, dulcis in fundo, dopo tutte queste considerazioni storiche incontrovertibili che siano ancora gli statunitensi a fare la parte di coloro che si sentono più di tutti in pericolo, dando la colpa ad una, presunta o reale, aggressività cinese fa ridere i polli e può solo attecchire tra chi è disorientato di fronte alla pervasiva propaganda capitalistica ed è profondamente a digiuno di nozioni storiche. Soprattutto tenendo in considerazione che sono gli Stati Uniti ad avere le navi e le basi militari a due passi dalla Cina e non il contrario. Il che rende le affermazioni di Washington ancora più grottesche e strampalate; a maggior ragione alla luce di tutto ciò che la Cina ha dovuto storicamente subire ad opera delle Potenze occidentali. Ma il concetto di egemonia culturale gramsciana ci spiega bene perché, purtroppo, così tante persone contemplano solo una simile prospettiva senza porsi più di tanto i giusti interrogativi. “