
di Francesco Galofaro, Università di Torino
Varsavia, stazione e autostazione ovest. Nei due edifici della biglietteria non si sente più parlare polacco: agli sportelli, lunghe code di donne ucraine di ogni età e classe sociale: alcune, più giovani, in tuta da ginnastica; altre portano accessori più ricercati. Sposto il bagaglio per far sedere due ragazzette, che mi ringraziano. Al collo hanno croci ortodosse scintillanti. Gli impiegati della ferrovia, in gilet arancione, si danno da fare per aiutare chi non conosce la lingua. La donna delle pulizie è esasperata: “Il ba-gno è chiu-so”, scandisce a chi tenta di entrare. In piazza, accanto al tendone che serve pasti ai rifugiati, giovani maschi in maglietta e pantaloni corti siedono sulle panchine della piazza. Chiacchierano, bevono e aspettano, non è ben chiaro cosa.
L’impatto coi rifugiati è davvero sorprendente per la quantità. Si dice che dal principio del conflitto la Polonia sia stata invasa da circa tre milioni di profughi, ma a nessuno è dato sapere la cifra esatta. Le guardie cercano di identificare i nuovi venuti, partendo dal fatto che molti di loro cercano un lavoro. È chiaramente una situazione di emergenza sociale: gli ucraini necessitano di ogni cosa, un lavoro, servizi sociali, luoghi per riunirsi, per pregare … I polacchi hanno sempre avuto un’alta propensione a emigrare e il tasso di disoccupazione, prima della guerra, era molto basso. Ma era comunque inadeguato ai numeri del problema. “Molti di loro non accettano i salari polacchi” spiega il contabile di un’azienda turistica. “Una donna polacca rifà le camere per 20 złotych, una donna ucraina ne chiede 30. Pensano di essere qui per arricchirsi”.
Incontro un prete. Chiedo se nella sua parrocchia si siano visti fedeli ucraini. “Qualcuno – risponde – ma la liturgia è troppo diversa. Inoltre, i profughi che ho incontrato vengono da Cherson e non parlano ucraino, ma russo”. “Avete organizzato preghiere per la pace con ucraini e ortodossi, come i vescovi italiani?”. “Non ce n’è bisogno”. mi dice. “Qui da noi non ci sono russi”. Il mistero degli ortodossi ucraini mancanti mi intriga molto. La Chiesa cattolica polacca non sembra curarsene; dove andranno a pregare? Chi li aiuta? Mi svela il mistero un polacco ortodosso di Cracovia. “Si sono riversati nella nostra parrocchia. Sono tantissimi. Abbiamo dovuto distribuirli in edifici in periferia e in altri Comuni”. Mi torna in mente che un giornale vicino alla destra governativa nei mesi scorsi aveva accusato gli ortodossi polacchi di essere la quinta colonna di Kirill, e gli domando: “Gli ucraini non sanno che la Chiesa ortodossa polacca ha buoni rapporti con quella di Mosca?”. “La maggior parte dei fedeli non ha consapevolezza dello scisma tra la Chiesa ortodossa di Mosca e quella Ucraina. La rottura riguarda solo le alte sfere. La Chiesa autocefala ucraina è una pura invenzione”.
Mi sposto in treno al confine. Arrivo alla stazione di Chełm a sera. Nel piazzale, la maggior parte delle automobili parcheggiate hanno le targhe rosse del corpo diplomatico. Servono a chi consegna le armi per non venir bombardato al di là della frontiera. Al momento, in coda sullo stradone per Dorohusk ci sono chilometri di camion in fila, in attesa di riempire i rimorchi col grano ucraino. La coda è punteggiata da bisarche cariche d’automobili. Chiedo il motivo a un rappresentante dell’associazione dei cacciatori. “Il governo ha deciso che, se sei ucraino, puoi comprare veicoli senza pagare le tasse”, ci risponde. “Così, molti giovani ucraini hanno smesso di combattere e sono diventati car fighters” (la battuta è un riferimento a un videogioco, n.d.a.). “Non dovrebbero andare a combattere? Come attraversano la frontiera?”. “Bastano mille dollari e le guardie ti lasciano passare”.
A quanto ho potuto vedere, la miscela di polacchi e di ucraini si sta facendo rapidamente esplosiva. Per motivi di propaganda, il governo polacco, clericale e nazionalista, ha sacrificato tutto all’accoglienza e l’Unione europea ha dimenticato le vecchie accuse di razzismo. Tuttavia, in questo modo si è creata una discriminazione di fatto nell’accesso ai servizi sociali tra rifugiati e cittadini. La sanità funzionava poco e male anche prima dell’invasione, ma oggi è al collasso. “Mia madre ha un cancro – mi dice un giovane – e gli hanno dato la prima visita tra due mesi. Ma se sei ucraino e ti pungi un dito, ti vedono in una settimana al massimo”. Un docente universitario mi dice: “Il vero problema è che sono qui per rimanere. La guerra va per le lunghe, ma, anche ammesso che finisca presto, chi tornerebbe indietro? Avranno bisogno di denaro per ricostruire le loro case, per ricominciare. Rimarranno qui per chissà quanto”. Non è certamente colpa dei profughi, ma l’esasperazione si avverte nei commenti: “È gente maleducata”, si lamenta qualcuno. “Pensano che tutto sia dovuto. Ora entreranno nell’Unione, ma devono ancora imparare cos’è la cultura europea”.
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