
di Maria Morigi
Tenuto conto delle varie interpretazioni di esperti in geopolitica, queste sono riflessioni a titolo personale sulla situazione in Pakistan, dove ero nel 2020, e vedevo molti analisti locali sottolineare che Imran Khan non aveva idea di quello che davvero comportasse governare il Pakistan e forse pensava che, per governare democraticamente, bastasse il focoso sostegno popolare.
Nel Paese si avvertiva ancora l’ubriacatura collettiva per la vittoria nel luglio 2018 del partito di Imran Khan centrista, nazionalista, sovranista e populista Tehreek-e-Insaf (PTI “Movimento per la Giustizia del Pakistan”), in maggioranza in tutte le 5 province del Pakistan. Un terzo polo tra due potenze dinastiche, ovvero il partito Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N) dell’ex premier Nawaz Sharif e il Pakistan Peoples Party (PPP) della famiglia Bhutto. La vittoria di un terzo polo che sottostimava il potentissimo apparato militare pakistano, l’impatto in funzione coattiva delle politiche estere di USA e India e soprattutto sottovalutava la pesante crisi economica per mancanza di liquidità. Il quadro era di grande incertezza sulle possibilità di riforma, sulla tenuta finanziaria del Paese e sul contesto geopolitico. Imran Khan nella propaganda elettorale fece leva sulla frustrazione delle masse pakistane verso i partiti tradizionali usando una retorica anti-élite, promettendo rinnovamento della classe dirigente, programmi di welfare, rivitalizzazione dell’economia attraverso la spesa pubblica, lotta alla corruzione endemica e alle mafie. Programmi accolti entusiasticamente dall’opinione pubblica, soprattutto dai giovani preoccupati a causa di un mercato del lavoro che offriva (e continua a offrire) prospettive limitatissime di impiego.
In politica estera le promesse erano di un riallineamento a livello internazionale in senso ‘sovranista’. Accettare la presenza delle forze statunitensi in Pakistan sarebbe stato un “suicidio politico” per Khan che aveva fondato la sua campagna sul rifiuto di collaborare con gli USA e che, già nel 2021, prima che gli USA si ritirassero dall’Afghanistan, aveva affermato che agli Stati Uniti non sarebbe mai stato permesso di utilizzare basi militari sul suolo pakistano né di usarle per prossime missioni in Afghanistan. La conseguenza tangibile è stata che, con il ritorno di Kabul nelle mani dei Talebani, le relazioni tra Islamabad e Washington sono ai crollate.
Ma vediamo ciò che il PTI, vincitore delle elezioni, ha sottostimato in ambito interno, cioè l’intoccabile casta militare, vero attore della scena politica pakistana con l’ipertrofico apparato di esercito e polizia. Nei suoi 74 anni di vita, il Pakistan ha avuto quattro golpe militari e circa 40 anni di dittatura delle forze armate (l’ultimo, fino al 2009, con Pervez Musharraf). La spesa militare tre anni fa era di 760 miliardi di rupie mentre gli investimenti per lo sviluppo non arrivavano a 500 miliardi di rupie. E neppure al visitatore occasionale poteva sfuggire la presenza – sempre e dovunque – di esercito e polizia.
In secondo luogo il Pakistan ha un’economia basata sui consumi che derivano dall’import; per sostenere i consumi Il governo ha applicato per anni un artificiale tasso di cambio in sovraprezzo rispetto al mercato, di conseguenza le casse dello stato si sono svuotate di valuta forte. Non dimentichiamo gli squilibri finanziari dovuti all’elevato costo delle importazioni energetiche. Tanto che Imran Khan ha chiesto ripetutamente prestiti ed interventi ad Arabia Saudita, Emirati e Cina che non sempre hanno risposto in modo da accontentare le esigenze dell’ asfittico mercato pakistano.
Neppure il settore dell’export è in grado di acquisire valuta forte, per cui, in disperato bisogno di liquidità e sull’orlo del default, il governo pakistano chiese l’intervento del FMI una prima volta nel 2019 e una seconda volta nel 2022, col ministro Sharif subentrato a Imran Khan dopo la sua estromissione. Il Fondo pose le condizioni stringenti di riforme che conosciamo: modifica della tassazione e della governance e, ovviamente, privatizzazione di imprese pubbliche che già non godevano di buona salute (le perdite legate a queste imprese nel 2021 sono state ingenti e il governo ha previsto di vendere partecipazioni in Pakistan Railways, Pakistan International Airlines e Pakistan Steel Mills a investitori stranieri come la Cina che è uno dei pochi offerenti). A febbraio 2023, alla fine dei negoziati fra il governo del Pakistan e il Fondo Monetario Internazionale non c’è ancora un accordo per liberare l’ultimo esborso (da 1,1 miliardi di dollari) del piano di risanamento del debito: tutto bloccato da tre mesi per il progredire della crisi e per la mancanza delle riforme economiche e fiscali richieste da FMI.
Vediamo non ultimo il problema del fisco. In Pakistan la base dei contribuenti è limitata, il sistema di riscossione inefficace e appesantito dalla burocrazia, la corruzione e l’evasione endemiche. Gli interessi economici di alcune famiglie dominano la scena economico-politica, tanto che gli intrecci tra politica ed economia sono definiti dalla stessa stampa locale ‘mafiosi’; la pubblica amministrazione è inefficiente perché dominata anch’essa da principi clientelari.
Noi spettatori lontani rimaniamo colpiti dalle proteste oceaniche – alquanto comuni nell’ambiente indo-pakistano – e dalla violenza repressiva della polizia; e siamo portati a pensare che quelle masse poco comprendano i veri motivi sottesi alla crisi strutturale che investe i fondamenti della democrazia come gara tra partiti di governo e opposizione, la politica di riforme sociali necessarie (ma impossibili ad essere realizzate), sia la politica estera. Sta di fatto che – per ribadire la funzione dell’apparato militare – l’arresto di Imran Khan è stato compiuto da Rangers corpi paramilitari delle Forze dell’Ordine Federali (in Pakistan parte delle Forze Armate Civili), operanti amministrativamente sotto il Ministero dell’Interno, ma sotto strutture di comando costituite da ufficiali distaccati dall’esercito pakistano.
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