di Maurizio Matteuzzi | da il manifesto
È noioso ripeterlo ma bisogna farlo: il copione della crisi siriana sembra sempre più ineluttabilmente scritto su quello della crisi libica di un anno fa. Solo la parola fine è ancora da scrivere, anche se Assad prima o poi dovrà togliere il disturbo (nello stesso modo di Gheddafi?): ancora da scrivere perché la Siria non è la Libia e far saltare in aria la Siria (con i suoi addentellati in Libano e soprattutto in Iran) non sarà come far saltare in aria la Libia e, semmai, potrebbe essere come aver fatto saltare in aria l’Iraq (scenario da incubo).
Per il resto sembra di vedere un remake: le brutalità del regime sugli oppositori riprese e rilanciate dalle cancellerie straniere e dai media internazionali (che certo ci sono, come a Homs dove ieri pare che l’esercito siriano abbia bombardato per il sesto giorno consecutivo, ma è lecito il sospetto che siano un po’ esagerate, probabilmente reciproche e in ogni caso non veritifcate); l’occidente e le petro-monarchie del Golfo (notoriamente preoccupatissime per i diritti umani e civili delle popolazioni) che non possono tollerare gli abusi contro i civili siriani e quindi si uniscono in un gruppo di «amici della Siria» (come a suo tempo si unirono in un gruppo di «amici della Libia» con Sarkozy e Henry Levy in testa), sempre gli stessi: Usa, Francia, Gran Bretagna, Arabia saudita, Qatar…, con la Turchia come new entry; le voci di possibili interventi militari (gli Usa del Nobel per la pace Obama), le voci che interventi o invii di armi agli insorti siriani li escludono (i ministri degli esteri inglese Hague e turco Davutoglu) ma poi lasciano filtrare (il Guardian di Londra, il sito israeliano Debka vicino ai servizi) voci sulla presenza in Siria a fianco dei «disertori» – già ora – di forze speciali Usa, britanniche, del Qatar (come fu durante la guerra civili in Libia).
Anche l’evolversi della crisi siriana all’Onu assomiglia molto al caso Libia. Solo che questa volta Russia e Cina, bruciati dalla risoluzione 1973 che lasciarono passare astenendosi, hanno deciso sabato scorso di bloccare con il veto la risoluzione di occidente e petromonarchie che, in tutta evidenza, apriva la strada a un intervento militar-«umanitario» e a un altro «regime change» etero-diretto. Il cambio di regime, alla fine, ci sarà ma potrebbe essere molto più complicato e doloroso di quanto non sia stata la liquidazione di Gheddafi.
Il gruppo degli «amici della Siria», sotto l’impulso della Turchia, dovrebbe riunirsi «il più presto possibile» a Istanbul per vedere come aggirare il veto russo-cinese (forse con il ricorso all’Assemblea dell’Onu come si fece … nel 1950 per aggirare il veto Urss contro l’intervento Usa nella guerra di Corea; forse con l’installazione di un «cuscinetto umanitario» al confine turco-siriano). Domenica i ministri degli esteri della Lega araba si riuniranno al Cairo e probabilmente risconosceranno il Consiglio nazionale siriano come «unico rappresentante legittimo» della Siria. Ieri la «nuova» Libia delle milizie armate e dei morti sotto tortura ha cacciato da Tripoli i diplomatici siriani e il ministro degli esteri del governo transitorio Ashour bin Kayal ha dichiarato che ex-insorti libici di Misurata sono in Siria per combattere a fianco dei disertori siriani (e tre sono morti).
L’Italia dei «tecnici» è più filo-americana che quella di Berlusconi e ieri il ministro degli esteri Terzi incontrando a Washington il segretario di stato Hillary Clinton ha garantito che «Usa e Italia sono impegnati a lavorare assieme su tutte le questioni in campo: abbiamo una comune visione sui problemi dell’area del Mediterraneo, del Medio Oriente e in particolare seguiamo attentamente gli sviluppi in Sirian e in Iran». Chiaro?