di Gianmarco Pisa
Siria, due anni dopo. Quella che nella primavera 2011 aveva rappresentato una mobilitazione, animata soprattutto dai giovani siriani, contro la burocrazia e l’immobilismo e per la democrazia e la libertà, oggi, alle soglie dell’estate 2013, sembra tramutarsi nel suo contrario. Proprio nei giorni in cui le forze armate siriane riprendono il controllo di Qusayr, piazzaforte strategica lungo la direttrice che dal Libano porta nel cuore della Siria, e si reinstallano solidamente sul valico di Quneitra, presso le alture del Golan sotto occupazione israeliana, unico passaggio diretto tra Damasco e Tel Aviv, è Al Qaeda ad intervenire, per la prima volta in questi termini, a sostegno dell’insurrezione armata e contro il governo siriano, incitando alla jihad contro Assad: «Unitevi, estendetevi ed impegnatevi a non deporre le armi e non lasciate le vostre trincee fino a quando non sarà instaurato uno Stato islamico che opererà per il ristabilimento del califfato».
Quella che sin dall’estate 2011 aveva sempre più assunto i connotati di una vera “guerra civile e per procura”, viene ora ad assumere anche il profilo di una vera guerra regionale: con l’impegno attivo di Hezbollah al fianco del governo, l’intervento armato dell’aviazione israeliana e, ennesima conferma di quanto già segnalato da diverse fonti, una saldatura inquietante tra ampi settori dell’opposizione armata e le frange qaediste e salafite del cosiddetto “islamismo radicale”. Al netto delle ragioni della originaria primavera siriana, dunque, la minaccia cui è esposta la Siria non è più semplicemente racchiusa nella dialettica tra il “libertarismo” del movimento e l’”autoritarismo” del regime, bensì diventa quella, attraverso la torsione radicale dell’insurrezione armata, di un vero e proprio “precipizio” verso il bagno di sangue settario, la disgregazione del Paese e la deriva reazionaria e confessionale.
Sono le connessioni internazionali del jihadismo politico e del ribellismo confessionale a segnalare il “livello di guardia” nell’escalation del conflitto: connessioni internazionali che non risparmiano l’Europa, non tanto nel senso dei piani delle diplomazie (ormai tutte “con l’elmetto”, dalla riapertura del mercato delle armi per gli insorti ai proclami guerrafondai del “Ministro di Guerra” Bonino, che ha appena dichiarato, 5 Giugno, che «l’uscita di scena di Bashar al-Assad deve essere l’oggetto del negoziato di Ginevra 2», a prescindere, dunque, dalla volontà e l’auto-determinazione del popolo siriano); quanto, in particolare, nel senso di fare un vero e proprio “fronte arretrato” del nostro continente. In particolare, dei Balcani Occidentali. Già la scorsa estate era stata confermata da diverse fonti la notizia del “retroterra kosovaro” del conflitto siriano: delegazioni di ribelli siriani armati sarebbero giunte a Pristina direttamente dagli Stati Uniti, dove si ritiene avessero ricevuto assistenza, consigli e istruzioni funzionali a tale “missione”. Sebbene le autorità albanesi-kosovare abbiano ufficialmente negata l’esistenza dei campi di addestramento militare, tra il Kosovo e l’Albania, degli insorti siriani, venne riportata, a suo tempo, dalla stampa locale, una dichiarazione di un “attivista siriano”, che, a quanto si apprende, risponde al nome di Ammar Abdulhamid, il quale ha riferito di “istruzioni” ricevute da ex membri del UCK (Armata di Liberazione del Kosovo, organizzazione secessionista e terrorista della guerriglia kosovara degli Anni Novanta) su come unire i diversi gruppi armati presenti in Siria, sviluppare un vero e proprio coordinamento logistico e militare e condurre una guerriglia profonda e sistematica contro il governo siriano di Bashar al-Assad.
Non sempre, quando si ripete, la storia assume le sembianze di una farsa. Talvolta, finisce con il diventare una vera e propria tragedia nella tragedia. È recentissima la notizia, sviluppata in un lungo reportage del quotidiano svizzero Le Temps, in merito alla presenza, ormai ampiamente accertata, di islamisti e salafiti provenienti soprattutto dalla Bosnia e dal Sangiaccato, la regione islamica a sud della Serbia, tra le file degli insorti siriani. Di due guerriglieri morti negli scontri di Aleppo si è accertata la provenienza dalla cittadina di Zenicar, nel Sangiaccato; fonti di informazione bosniache accreditano la presenza di almeno 52 estremisti salafiti, provenienti dalla Bosnia, tra i guerriglieri islamici; la comunità wahabita di Gornja Maoča, nel nord della Bosnia, poco distante dal corridoio di Brčko, sembra essere la vera e propria “centrale” di questa connection. Roccaforte del Wahabismo in terra di Bosnia, si tratta della stessa località dalla quale, il 28 Ottobre del 2011, un estremista di nome Mevlid Jašarević, attaccò l’ambasciata statunitense, nella capitale Sarajevo, a colpi di AK-47.