Tra messianesimo e containment: la Cina “in testa” alle presidenziali USA

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

 

presidenziali usa_2012Uno spettro si aggira per la campagna presidenziale statunitense. La Cina comunista è sempre più al centro della avviata campagna elettorale per le presidenziali Usa del 2012. E lo è con toni che potremmo definire da guerra fredda, tesi alla costruzione di un nuovo “Impero del male” che sostituisca quello sovietico e, soprattutto, quello dell’estremismo islamico targato Al Qaeda. Quest’ultimo, anzi, pare essere scomparso dal più che bicentenario elenco delle minacce agli Usa e all’american way of life dopo l’eliminazione di Bin Laden e, soprattutto, alla luce del nuovo utilizzo del variegato movimento islamico per sovvertire il governo libico di Gheddafi e controllare la cosiddetta “primavera araba“. Insomma una derubricazione dall’elenco dei nemici assoluti certo non giunta a caso, ma legata a precise esigenze strategiche della superpotenza americana.


Ma torniamo alla nuova minaccia che pare attanagliare Washington, senza particolari distinzioni fra democratici e repubblicani, e che non è certo esclusivamente legata all’aumento della temperatura politica tipica di una campagna elettorale come quella presidenziale. La creazione di una minaccia esterna, classificata anche in termini morali, è senza dubbio finalizzata anche alla creazione e al mantenimento di un fronte interno compatto, in un periodo di difficoltà economica, e al rilancio del tema dell’eccezionalismo messianico statunitense.


Le ultime dichiarazioni in ordine di tempo sono quelle del candidato repubblicano Mitt Romney, candidato che parte della stampa italiana classifica come quello con “la strategia più definita e articolata, frutto di una squadra nutrita di consiglieri esperti sui principali teatri strategici, molti dei quali ereditati dall’amministrazione di George Bush“. Tra questi consiglieri c’è Aaron Friedberg, già uomo vicino al vicepresidente Dick Cheney, che da tempo invita Usa e alleati a comprendere la serietà della rivalità strategica con la Cina e ad adottare una politica di contrasto diplomatico e commerciale perché in breve tempo Pechino “sarà in grado di minacciare seriamente non soltanto la posizione americana nella regione, ma anche la sicurezza stessa dei paesi vicini1. Per Romney la guida di Obama è coincisa con un pericoloso arretramento dell’influenza Usa sia dal punto di vista economico che da quello dei valori tradizionalmente espressi. Una sua eventuale presidenza riporterebbe, invece, il Paese a “guidare il mondo”, in ossequio ad una sorta di disegno divino – “Dio non ha creato questo paese per essere una nazione di seguaci” – prima che lo facciano altri. A questo fine sono da rivedere i tagli al bilancio militare – anche se Obama ha dichiarato che non coinvolgeranno quelle legate alla presenza in Estremo Oriente – perché gli Stati Uniti “devono mantenere sempre la loro supremazia militare per dissuadere possibili aggressori e difendere i propri alleati2.


Le accuse non sono più quelle legate alla “red scare“, cioè all’infiltrazione del virus comunista nel corpo sano statunitense da parte del centro sovversivo mondiale rappresentato da Mosca. La stessa politica estera cinese, che da decenni ha abbandonato la retorica dell’esportazione rivoluzionaria di stampo maoista per privilegiare la collaborazione tra regimi diversi in ossequio ai Cinque principi della coesistenza pacifica, renderebbe le accuse una semplice farsa priva di credibilità.


Nei confronti di Pechino si insiste sul tema del rispetto dei diritti umani e delle regole. Ovviamente a giocare sporco sono i cinesi, accusati di rubare sistematicamente tecnologia e know how avanzati e di utilizzare l’arma monetaria per truccare la competizione commerciale con gli Usa, invaderne i mercati e mettere a rischio l’occupazione. Come ha rilevato Domenico Losurdo nel suo intervento all’ultimo congresso del PdCI3, obiettivo degli Usa è quello di mantenere il monopolio tecnologico per alimentare la propria superiorità economica e militare. A ribaltare le accuse è, però, la storia del colonialismo e dell’imperialismo: ad essere vittima del gioco sporco Occidentale, quello delle guerre dell’oppio e della politica delle cannoniere, è stato proprio il Celeste Impero, costretto ad aprirsi al commercio internazionale con un immane tributo di sangue. Insomma, ad aprire le frontiere cinesi alla produzione capitalista occidentale non fu certo, parafrasando Marx, l’artiglieria dei suoi “tenui prezzi4 , ma la forza brutale delle armi.


Nel corso della precedente campagna presidenziale Obama aveva chiaramente intimato alla Cina: “Guardate, ecco la linea di fondo: voi ragazzi continuate a manipolare la valuta, noi allora cominciamo chiudendo l’accesso ad alcuni dei nostri mercati”. Alle parole sono seguiti i fatti. Nell’ottobre di quest’anno il Senato Usa, di fronte al crescente deficit commerciale con la Cina ha approvato una legge – “Currency Exchange Rate Oversight Reform Act” – che consentirebbe al Dipartimento del Commercio di annullare i vantaggi di una moneta debole attraverso imposizioni fiscali (“countervailing duties”) in aggiunta ai dazi doganali5.


Misure e prese di posizione che non sono certo una novità quando gli Usa si trovano in crisi economica. Nel settembre del 1985, pochi giorni dopo il Plaza Accord che diede via libera in sede G5 ad un nuovo deprezzamento del dollaro per aiutare la manifattura americana, l’amministrazione Reagan denunciò le politiche scorrette di alcuni Stati asiatici con una serie di minacce di chiusura del mercato statunitense per costringerli a limitare volontariamente le loro esportazioni nello stesso6.


Tanto che, ironia della storia, è ormai la Cina a dare lezioni di liberalismo agli Usa. In occasione delle celebrazione dei dieci anni dell’ingresso di Pechino nel Wto, l’ex vice ministro del commercio cinese Wei Jianguo, già protagonista dei negoziati, ha affermato che mentre la Cina “è diventata una convinta sostenitrice della liberalizzazione degli scambi e della globalizzazione economica“, al contrario “gli Stati Uniti, a lungo impegnati nella diffusione di queste dottrine, hanno virato verso l’inclinazione al protezionismo e al bilateralismo7.


A riprendere i toni tipici dell’eccezionalismo americano, della “Casa sulla collina” la cui luce illumina il mondo, è Ian Huntsman, ex ambasciatore di Obama a Pechino, considerato la colomba tra i candidati repubblicani. Certo, è per il ritiro dall’Afghanistan, ma al contempo considera una minaccia la esistenza dell’Iran islamico tanto da considerarlo il caso perfetto per l’utilizzo della forza americana. Ai suoi occhi i valori americani hanno ancora valenza universale: “Metà del mondo può vedere la luce di questa nazione. Ovunque i dissidenti la possono vedere. O tu hai questa luce o non ce l’hai. Questo è il valore dell’America nel mondo oggi. Quando facciamo brillare la nostra luce all’estero amplificata da una forza interna a casa nostra siamo invincibili8. In giro per il mondo – quello non ubbidiente ai dettami di Washington – agiscono degli “eletti”, i dissidenti appunto, che hanno il compito di portare la libertà e che, proprio per questo motivo, vanno sostenuti. Infatti, sempre secondo il candidato repubblicano, “coloro che perseguono le riforme e il cambiamento traggono forza dai valori della nostra nazione: l’apertura, la libertà di parola, di riunione, di religione e di stampa”.


Tematiche, queste, che riportano alle origini degli Stati Uniti e che permangono come un condiviso codice fondativo. Peter Bulkeley, pastore anglicano emigrato in Massachusetts nel 1635, espose chiaramente questi concetti: “Siamo come una Città sulla collina, in piena vista per tutta la terra, gli occhi del mondo sono su di noi, perché ci professiamo un popolo che ha stretto un patto con Dio9. Ancora più emblematico è il discorso del 1898 “La marcia della nostra bandiera” del senatore Beveridge: “E’ un popolo potente che Egli [Dio] ha piantato su questo suolo, un popolo germogliato dal sangue più padronale della storia: […] un popolo imperiale per virtù della sua potenza, per il diritto conferitogli dalle sue istituzioni, per l’autorevolezza dei suoi scopi diretti dal Cielo – propagatori, non avari, della libertà10.


La retorica sui diritti umani coinvolge anche il falco repubblicano Newt Gingrich per il quale è strategico il rapporto con il “popolo cinese” più che con il governo comunista. Maggiori rapporti commerciali e di scambio tra i due popoli permetterebbero la diffusione del contagio della libertà e il ripristino dei diritti di libertà donati da Dio.


Negli stessi giorni nei quali Obama rilanciava la presenza statunitense nel Pacifico, il segretario di Stato Hillary Clinton ricordava a Pechino il rispetto dei diritti umani in Tibet e la fine della repressione. Proprio a favore della “causa tibetana”, in linea con una strategia che punta ad una balcanizzazione del Celeste Impero – culminata nel 1957 con l’aperto sostegno al tentativo di rivolta dei seguaci del Dalai Lama – è da sempre impegnato in prima linea il Dipartimento di Stato. Infatti, attraverso la NED (National Endowment for Democracy), sovvenziona da decenni l’opposizione indipendentista tibetana attraverso sedici specifici programmi tra i quali, a titolo esemplificativo, troviamo l’International Campaign for Tibet (ITC), l’International Tibet Support Network, Students for a Free Tibet, il Tibetan Center for Human Rights and Democracy (TCHRD), Voice of Tibet e la Tibetan Women’s Association11. Occorre ricordare che per ottenere i finanziamenti della NED, ogni associazione deve rinunciare ad attività che hanno come fine quello di influire sulle scelte politiche statunitensi12.


Il viaggio appena concluso di Hillary Clinton in Myanmar (Birmania), tutto in linea col rilancio della presenza Usa nell’Asia Orientale a scopo di contenimento della crescente potenza cinese, è stato presentato come una nuova crociata di libertà a favore dell’ “eroina dell’opposizione democratica13 Aung San Suu Kyi. Non può sfuggire che l’attenzione statunitense è rivolta ad un regime militare che è diventato un partner economico strategico della Cina per il rifornimento di gas e petrolio e che rappresenta una via di sbocco per Pechino sull’Oceano Indiano e sul sud-est asiatico. A beneficiare delle relazioni economiche sono soprattutto le regioni meridionali cinesi del Hunan e del Sichuan con un interscambio di 1,19 miliardi di dollari su un totale di 2,4 miliardi14. Dopo l’annuncio dell’apertura di una base di marines a Darwin (Australia), alla Cina comunista arriva un nuovo e chiaro messaggio: la perdita di influenza sulla Birmania potrebbe rendere vulnerabili i suoi confini meridionali. Fu così negli anni ’80 dell’Ottocento quando la Birmania, da Stato vassallo del Celeste Impero, divenne protettorato britannico dando il via alla spartizione in zone di influenza delle province meridionali cinesi.

 

NOTE

 

1 Si veda Bertozzi D. A., La Cina e il rifiuto dell’egemonia, www.marx21.it

2 Romney: God Wants U.S. to Lead, Not Follow, www.foxnews.com, 7 ottobre 2011

4Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma 1999, p. 11.

5 S. Arcudi, Il congresso Usa vota i dazi per “punire” lo yuan cinese, Il Sole24Ore, 4 ottobre 2011.

6 Arrighi G., Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008, pp.125.127.

7 Ten years in the WTO sees turnaround in philosophy, South China Morning Post, 12 dicembre 2011.

8 “Romney, la Cina nel mirino. Cain infila gaffe in serie”, www.lastampa.it, 18 novembre 2011

9 Bonazzi T., Il sacro esperimento, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 23.

10 Citazione contenuta in Poole G., Nazione guerriera. Il militarismo nella cultura degli Stati Uniti, Colonnese Editore, Napoli, 2002, p.58.

11 Si veda http://www.ned.org, gennaio 2011.

12 Si veda a questo proposito M. Vivas, La face cachée de Reporter sans frontières. De la Cia aux faucons du Pentagon, Paris, Aden, 2007.

13 Lee Myers S., Dissident Leader in Myanmar Endorses US Overtures, International Herald Tribune, 2 dicembre 2011.

14 Si veda Viggiano M. E., Cina-Birmania: una relazione pericolosa, Limes, http://temi.repubblica.it/limes/cina-birmania-una-relazione-pericolosa/8618?h=0