di Piotr
da megachip.globalist.it
Molte voci indipendenti confutano il dramma scritto e rappresentato negli UK sull’avvelenamento della ex spia Sergey Skripal e di sua figlia Yulia.
La prima voce è quella dell’agenzia dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC o OPCW in Inglese) che nel settembre dello scorso anno ha dichiarato di aver rigorosamente verificato la completa distruzione dell’intero programma russo di armi chimiche, compresa la produzione di agenti nervini, con un particolare richiamo alla base di Kizner, oggi tirata in ballo dal governo May.
Questa dichiarazione fu allora sottoscritta anche dagli Inglesi che adesso però la contestano, per ovvi motivi, guadagnandosi i rimproveri del direttore generale dell’OPAC.
Al contrario si sa che gli UK hanno riprodotto il gas nervino di epoca sovietica, presso il Porton Down’s Defence Science and Technology Laboratory.
Lo ha ricordato l’ex diplomatico Craig Murray, una vita nel Foreign Office, e noto per le sue posizioni anti-russe (ad esempio sulla Crimea) che però, evidentemente, non vuole far precipitare sotto la soglia di una minima decenza.
Murray ha portato questi elementi di ragionamento:
1) La Russia non ha più la possibilità di produrre questi agenti; inoltre la struttura dell’agente nervino usato è dubbia. Dovrebbe essere il “Novichok” (nome sconosciuto in Russia) ma l’unico suo punto di produzione, l’Uzbekistan, è stato smantellato proprio da una ditta americana.
2) La Russia non aveva nessun interesse politico a creare questo caso né aveva interesse specifico ad uccidere, dopo 8 anni che se ne stava tranquilla a Londra, questa ex spia, già arrestata e processata in Russia, condannata nemmeno all’ergastolo ma a 13 anni (quindi non ritenuta particolarmente pericolosa) e poi rilasciata per uno scambio tra intelligence russa e britannica (perché Sergey Skripal era una spia britannica non russa).
3) Al contrario si sa che ci sono almeno due Paesi occidentali che producono gas nervino e hanno tutto l’interesse a screditare la Russia e Putin: sono gli Stati Uniti e Israele. A questo riguardo l’ex diplomatico ricorda la lunga lista di assassinii all’estero perpetrati dal Mossad.
Infine, possiamo aggiungere, ma possibile che nessuno qui da noi si chieda come mai i servizi segreti Russi sarebbero così imbranati o inesperti da cercare di far fuori una spia (che non gli interessava più da anni) in un modo così arzigogolo, insicuro e che lascia più tracce di Pollicino? Se questo è tutto ciò che riescono a fare i Russi, allora non veniteci a dire che sono pericolosissimi.
In realtà l’evidente controsenso (ovverosia l’evidente balla) ai suoi autori è sembrato una rappresentazione molto volpina: i Russi compiono attacchi chimici in Gran Bretagna così come Assad compie attacchi chimici in Siria.
Questo è il quadro di cui vogliono convincerci, tanto sanno che tutti si sono dimenticati che sia gli USA che gli UK avevano certificato che in Russia e in Siria non c’erano più armi chimiche. E sanno che chi non se ne è dimenticato lascerà correre: il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno.
Dunque, la rappresentazione imperiale e le parole dell’ambasciatore britannico, ci portano direttamente in Siria dove possiamo verificare l’ultimo punto del ragionamento di Craig Murray. La liberazione della Ghouta Orientale è infatti vista come una disgrazia dagli USA e da Israele.
In un articolo di pochi giorni fa il Jerusalem Post scriveva a caratteri cubitali: “The fall of Ghouta threatens Israel, U.S. interests and the West”.
Difficile essere più chiari di così. Ora però non venitemi a chiedere se è stato veramente il Mossad, la CIA o l’MI6, perché io non lo so. Ma d’altra parte nemmeno la May “sa” che è stata la Russia, ma afferma che “probabilmente” è stata la Russia.
Ora, con il “probabilmente” si sono ammazzati centinaia di migliaia di civili in Iraq: “probabilmente Saddam ha armi di distruzione di massa … No, ci eravamo sbagliati, ci dispiace!”. Oggi la May col “probabilmente” apre una gravissima crisi internazionale con uno di quegli atti tipicamente occidentali dì grave indecenza politica e diplomatica che ci hanno resi totalmente non credibili agli occhi di tutto il mondo e che nascondono qualcosa di grave e oscuro. Oscuro e urgente, visto che le leggi e gli accordi internazionali sottoscritti dai membri della Convenzione sulle Armi Chimiche (e sia gli UK che la Russia sono sottoscrittori) prevedono che la nazione che muove un’accusa deve condividere le prove con la nazione accusata la quale ha 10 giorni di tempo per replicare, e non le 24 ore dell’ultimatum della May, che quindi già solo per questo è una fuorilegge internazionale.
Non solo, ma la May fa capire che non ha letto le due raccomandazioni alla Camera dei Lord fatte dal Maresciallo Montgomery, il vincitore inglese della II Guerra Mondiale: mai marciare su Mosca e mai marciare su Pechino.
Perché allora questo comportamento dissennato?
Siamo di nuovo lì, in Siria. In Siria si gioca qualcosa di molto più grande del contrasto al cosiddetto (erroneamente) “asse sciita” e la “sicurezza d’Israele” come afferma il Jerusalem Post. Non c’è nemmeno solo il contrasto alle nuove vie della seta cinesi. C’è qualcosa di più importante, di epocale.
Non si capisce altrimenti perché rischiare lì, in Siria una guerra mondiale a tutto campo.
Abbiamo visto che sono di nuovo all’opera gli specialisti degli attacchi false flag e delle provocazioni più truci e la propaganda di guerra si è rimessa a lavorare, a partire dagli Elmetti Bianchi, da Amnesty e da Medici Senza Frontiere. Il loro lavoro di contrasto della verità e di creazione di fake worlds, di mondi falsi, con cui imbambolare una massa sempre più ridotta di irriducibili, è alacre.
Nel periodo in cui sono stati aperti nella Ghouta Orientale, i cosiddetti “corridoi umanitari” si sono trasformati in “corridoi di fuga”, attraverso i quali 3.000 persone all’ora si sono riversate dal territorio controllato dai tagliagole a quello controllato dal governo di Damasco, per un totale di 50.000 persone.
Le loro testimonianze sono state meticolosamente sottaciute dai media mainstream. Se volete sapere chi sono i “ribelli moderati” che tengono in ostaggio il Ghouta leggete ad esempio questa intervista dell’ex direttore di Famiglia Cristiana, Fulvio Scaglione.
L’articolo di Scaglione è seguito da un altro impressionante articolo, pubblicato sul Giornale.it.
Il “Giornale”? Certo, non troverete queste testimonianze su nessun organo di “sinistra”, essendosi essa votata da tempo al sostegno incondizionato delle guerre imperiali. Dalle sterminate manifestazioni contro le guerre di Bush jr ad oggi non sono passati 15 anni, ma un’epoca geologica. E tra un’epoca geologica e l’altra si estinguono molte cose.
Nella Ghouta si sta giocando una partita di estrema pericolosità e la vicenda inglese mette l’oasi di Damasco al centro dell’Europa, accanto al Donbass. Perché nella rappresentazione isterica concordata, ora i Russi e i Siriani attaccano con le armi chimiche sia in Asia che in Europa. E questa rappresentazione rischia seriamente di non essere un dramma ma una tragedia.
I padroni dell’Impero, allarmati nel vedere in difficoltà i tagliagole che essi sostengono, e sempre più incapaci di trovare una strategia adeguata per salvare il loro dominio (cosa infatti impossibile), si sono risolti all’unica cosa che possono fare, cioè dare un ennesimo giro di vite alla guerra mondiale a pezzetti che si sta combattendo in Siria.
Tenete a mente per l’immediato futuro questi punti:
1) I consiglieri militari degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna stanno istruendo i tagliagole a Ghouta per la preparazione di attacchi chimici false flag, esattamente come quelli del 2013.
2) La differenza con il 2013 è che allora Obama – che non era un neo-liberal-cons effettivo – fu molto esitante a sfidare la Russia con un attacco su Damasco. Non solo, il MIT di Boston provò tecnicamente che l’attacco chimico era stato originato nel territorio controllato dai “ribelli” e i medesimi risultati furono comunicati ad Obama dai suoi consiglieri di intelligence. L’attacco nel 2013 non ci fu.
3) Oggi vediamo invece un’accelerazione nella propaganda antirussa con esortazioni aperte a rispondere come “dopo Pearl Harbor e il 9/11”, cioè militarmente, mentre parallelamente alla propaganda antirussa e ai tentativi di “provocazione chimica” antisiriana gli Stati Uniti stanno posizionando gruppi di lancio di missili cruise nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nel Mar Rosso.
La situazione è quindi oggi molto più pericolosa che nel 2013.
E qui abbandoniamo per un attimo la politica estera perché entrano in ballo le politiche interne della Russia e degli Stati Uniti.
Russia. La situazione è stata brillantemente sintetizzata da Pierluigi Fagan nel suo recentissimo articolo Putin e il problema dei tre corpi. Aggiungiamo solo che il forcing attuale dell’Impero occidentale contro Putin rischia di far accelerare le cose anche nella politica interna russa, nel senso di una stretta contro lo schieramento filo occidentale, per altro forte da un punto di vista economico ma molto debole sul lato dei consensi perché dopo l’esperienza Yeltsin nessun russo raziocinante ha alcuna propensione verso le oligarchie filo occidentali e ai giovani – per ora – Putin non dispiace.
Questo cambiamento, drastico, in politica interna si potrebbe giocare sull’onda di una risposta, stavolta militare, a un attacco americano importante – cioè non come quello dell’aprile 2017 contro la base di Shayrat o quello del settembre 2016 contro l’Esercito Arabo Siriano a Deir-Ezzor a diretto sostegno dell’ISIS. Anche perché le cose da allora sono molto peggiorate col bombardamento americano di inizio febbraio sulle forze governative a Deir Ezzor che ha ucciso diversi combattenti russi e i continui attacchi alla base russa di Khmeimim.
Il discorso di Putin del 1° marzo aveva proprio questo scopo: avvertire gli USA che una nuova escalation in Siria non rimarrà senza conseguenze.
Vediamo allora i problemi interni degli Stati Uniti.
USA. Trump sembra ormai ingabbiato dai neo-liberal-cons. L’avvicendamento al Dipartimento di Stato, non è stato la defenestrazione di un ministro colomba, ma ha preannunciato un cambiamento di marcia. Rex Tillerson era una sorta di “temporeggiatore” che puntava a una lunga guerra di logoramento nel teatro mediorientale. Con Mike Pompeo “in office”, c’è da aspettarsi una escalation. Perché allora questa mossa, vista con gli occhi della politica interna americana?
Quale minaccia vedono gli USA in Siria? Ecco cosa scrive un giornale come The Conservative:
“Così come molta politica estera americana oggi, la minaccia agli Stati Uniti in Siria è suppergiù proporzionale a quanto abbiamo deciso di esporci ad essa. Nessuna delle cinque missioni che Tillerson ha lasciato qua e là agli sforzi militari statunitensi in Siria – sconfiggere l’ISIS e al-Qaida, inaugurare uno stato post-Assad, contenere l’influenza iraniana, facilitare il ritorno dei rifugiati e liberare la Siria da armi di distruzione di massa –sono vitali per proteggere il benessere e la sicurezza fisica degli Stati Uniti”.
Ovvero, il benessere e la sicurezza fisica degli Stati Uniti non dipendono strettamente dalla sua egemonia mondiale. E questo è vero. La sicurezza fisica degli USA non è mai stata messa in discussione da nessuno e nessuno ha interesse a farlo. Non la Russia, non la Cina (che poi sono le uniche che potrebbero farlo) e tanto meno la Siria. Per quanto riguarda il benessere, occorre invece intenderci: benessere di chi? Se si parla degli enormi, stratosferici interessi dell’élite che fa la spola tra Washington e Wall Street, ebbene per essi la perdita di egemonia mondiale da parte degli Stati Uniti sarebbe un colpo mortale. Ma non lo sarebbe per la gente comune, anche perché il 90% di quegli interessi mastodontici sono potere+carta straccia.
So che è un paragone azzardato, ma si consideri che anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476, l’Italia continuò ad avere il Pil più alto pro capite fino al XVII secolo quando fu sorpassata dall’Olanda. Un paragone più vicino a noi è la perdita dell’egemonia mondiale da parte della Gran Bretagna dopo la I Guerra Mondiale, che non le fece perdere la leadership del PIL pro capite in Europa occidentale (se si esclude la Svizzera) almeno fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, per poi assestarsi comunque tra i primi.
Cosa c’è di diverso, di molto diverso negli USA? Forse la scala degli interessi (anche se non ne sono così sicuro) ma sicuramente il fatto che la situazione negli USA è socialmente, politicamente ed economicamente particolare, e per un motivo poco bello per gli Stati Uniti, cioè perché secondo molte evidenze la sua classe media è estremamente vulnerabile anche a piccole variazioni del benessere degli strati molto alti della popolazione. Si consideri che il coefficiente di Gini degli USA, cioè l’indice di disuguaglianza, è tra i più alti del mondo sviluppato, la popolazione carceraria è la più ampia del mondo, dato che con il 5% della popolazione mondiale gli USA hanno il 25% della popolazione carceraria mondiale —, e la sanità pubblica è la peggiore tra i Paesi ad alto reddito secondo un rapporto della rivista Lancet relativo al 2015. Sono fenomeni interconnessi e da soli testimoniano dello stato di sfilacciamento della società americana tenuta assieme ormai più che altro da miti.
È un punto su cui ritornare in una disamina più ampia di cosa sono gli imperi, quali sono i tipi di impero e quali sono i loro limiti. Per ora ci limitiamo ad osservare che il problema di Trump è che la sua base di massa sta proprio in questa vulnerabile classe media che si è contrapposta in termini culturali e persino geografici alle grandi città sotto l’influenza culturale ed economico-finanziaria liberal (e liberal-cons). Ma Trump non potrà mai mantenere nemmeno una promessa se non viene a patti con le élite finanziarie, con quelle politiche e con quelle gestionali (il deep state) o, alternativamente, se non affronterà contro di esse una battaglia campale. Difficile che ciò possa avvenire, se non con un potente assist da parte … sì, proprio da parte dei competitor degli USA, e in primo luogo la Russia. In quest’ultimo caso potrebbe mantenerne molte di più; nel primo caso sarà solo una pantomima, come il “social pillar” europeo rilanciato dall’oblio e dalla muffa dopo gli scossoni “populisti” in Europa.
E le elezioni di mid term negli USA sono tra otto mesi.
Le situazioni interne della Russia e degli USA sono quindi quasi speculari. Dalla parte della Russia giocano a favore una possibilità di crescita molto ampia e una capacità politica superiore. Probabilmente anche una maggiore solidità “ideologica” comprendendo con questo termine il sistema di valori e credenze che tengono unita una comunità (cosa che ha ovviamente anche aspetti conservativi e conservatori, molto utili per una nazione sotto attacco, come sapeva bene anche Stalin che implicitamente antepose le icone sacre alla falce e martello quando si trattò di difendersi dall’attacco nazista).
Contro Trump gioca il fatto che gli USA sono il grande impero del passato e finora nessun impero è sopravvissuto a se stesso nemmeno dopo guerre sanguinosissime. È in questa situazione storica che si è andato a infilare dentro una forchetta, o meglio tra l’incudine e il martello, tra il Russiagate e le promesse ai suoi elettori disperati ed esasperati dal capitalismo finanziarizzato neo liberista e dal suo disprezzo per le sue vittime. Non è stato il primo né sarà l’ultimo a mettersi in una situazione simile. Berlusconi lo fece prima di lui, nella piccola Italia di trapasso dalla Prima alla Seconda Repubblica (altro frutto della crisi mondiale) adottando un atteggiamento politico quasi simile. È finito triturato tra le minacce legali sostenute dalla sinistra e la promessa di Obama che se faceva quello che gli veniva richiesto sarebbe “caduto in piedi”. Ed essendo il suo orizzonte finale solo se stesso fece quello che gli veniva richiesto: tradì Gheddafi e fece la guerra alla Libia. Poi se ne pentì con lacrime che avrebbero fatto vergognare un coccodrillo.
Ma una guerra con la Russia non è una guerra con la Libia. È molto più pericolosa, lo capisce chiunque. Penso che anche negli Stati Uniti molti ambienti, non escluso ambienti militari, siano preoccupati dalla piega che stanno prendendo la crisi mondiale e la guerra mondiale a pezzetti. Inoltre Trump è stato messo lì da un settore dell’élite statunitense proprio in contrapposizione ai piani guerrafondai della Clinton. Finora si è però vista una sequenza di ritirate di Trump dal suo programma (a partire da quello di distensione con la Russia) alternate a pochi tentativi di contrattacco. Negli USA c’è quindi una sorta di dualismo di potere, ormai in atto dalla seconda amministrazione Obama.
Nessun dualismo di potere può durare troppo a lungo. Qualcosa dovrà succedere. Uno show-down.
Dio ci protegga da questo show-down.
Ma non basta affidarci a Dio. Dobbiamo incalzare il nostro governo (se ci sarà o i partiti se non ci sarà) e i governi europei su un punto preciso: se qualche pazzo negli USA vuole iniziare una guerra contro la Russia noi non lo dobbiamo seguire. Noi, in Italia, abbiamo già dato ai tempi di Hitler e Mussolini e non vogliamo ricascarci. Al contrario, la comunità internazionale, e noi alleati per primi, possiamo aiutare gli USA ad accettare un mondo multipolare qualora il buon senso e il senso dell’umanità abbia il sopravvento a Washington.
Anche questa sarebbe una novità mondiale, un nuovo modo di vedere e praticare le relazioni internazionali. Una sfida tutta da giocare, perché è una questione di vita o di morte.
Morire si deve pure. Ma mi seccherebbe e dispiacerebbe morire per l’ubris dei detentori di trilioni di aria fritta.