Siria «vietata» agli Stati Uniti

di Henry A. Kissinger | da il Sole 24 Ore

marinesUn interessante articolo di Kissinger sulla vicenda siriana che riflette l’esistenza di una spaccatura profonda nell’amministrazione USA circa le implicazioni e le conseguenze di un’eventuale nuovo intervento militare diretto dell’imperialismo nordamericano.

Della Primavera araba in genere si parla in termini di prospettive per la democrazia. Altrettanto importante è l’appello sempre più frequente – nello specifico, negli ultimi tempi in Siria – a intervenire dall’esterno per indurre un cambiamento di regime, ribaltando così i criteri comunemente accettati di ordine internazionale. Il concetto moderno di ordine internazionale si palesò per la prima volta nel 1648, con il Trattato di Westfalia che pose fine alla guerra dei Trent’anni. Il Trattato distinse nettamente la politica internazionale dalla politica interna. Gli stati, costituiti su entità nazionali e culturali precise, furono considerati sovrani nell’ambito delle loro frontiere, mentre la politica internazionale fu relegata alla loro interazione entro limiti molto precisi. 

La diplomazia nata dalla Primavera araba sostituisce i principi dell’equilibrio di Westfalia con una generica dottrina dell’intervento a scopi umanitari. In questo contesto, i conflitti civili sono visti a livello internazionale attraverso la lente degli interessi democratici o settari. Le potenze straniere esigono che il governo in carica negozi con l’opposizione la fase di trasferimento dei poteri. 

In Siria vanno fondendosi e sovrapponendosi gli appelli a un intervento a scopi umanitari e strategici. Al cuore del mondo musulmano la Siria – sotto il regime di Bashar al-Assad – ha sostenuto la strategia iraniana nel Levante e nel Mediterraneo. Ha appoggiato Hamas, che si oppone categoricamente allo stato di Israele, e Hezbollah, che mette a repentaglio la coesione del Libano. Gli Stati Uniti hanno motivazioni di ordine strategico per volere la caduta di Assad e per incoraggiare la diplomazia internazionale affinché si adoperi per la sua destituzione. D’altro canto, non tutti gli interessi strategici diventano altrettante cause per fare guerra: se così fosse, altrimenti, non resterebbe più spazio alcuno per la diplomazia. 

Quando si prende in considerazione l’uso della forza militare, occorre tener conto di varie questioni a ciò correlate: nel momento in cui gli Stati Uniti accelerano il ritiro dei loro contingenti da interventi strategici in Iraq e Afghanistan, paesi confinanti, come possono motivare un nuovo impegno militare nella stessa regione, soprattutto qualora si trovassero alle prese con problemi di equivalente natura? Questo nuovo criterio – meno esplicitamente strategico e militare, e posizionato più verso questioni diplomatiche e morali – risolve i problemi che hanno afflitto i precedenti sforzi americani in Iraq o in Afghanistan, e che si sono conclusi con un ritiro e un’America profondamente lacerata? Oppure tale criterio aggrava ulteriormente le difficoltà, mettendo in gioco il prestigio dell’America? Chi sostituirà la leadership destituita e allontanata? E che cosa ne sappiamo su di essa? Tale risultato migliorerà la vita della popolazione e la situazione della sicurezza? Oppure rischiamo forse di ripetere l’esperienza fatta con i talebani, che in un primo tempo furono armati dall’America per combattere l’invasore sovietico e che in seguito si sono trasformati in una minaccia per la nostra stessa sicurezza?

La differenza tra intervento per scopi umanitari e intervento per scopi strategici si fa pertanto sempre più importante. L’opinione pubblica mondiale definisce l’intervento umanitario tramite il consenso, così difficile da raggiungere che in genere limita gli sforzi. D’altro canto, un eventuale intervento unilaterale o basato su una “coalizione di volenterosi” evoca le resistenze di paesi che temono che questa politica sia applicata ai loro territori (per esempio Cina e Russia). Ne consegue che è molto più difficile raggiungere un consenso interno su ciò. La dottrina dell’intervento umanitario corre il rischio di restare a mezza via, sospesa tra le regolamentazioni che la riguardano e la capacità di metterle in pratica. L’intervento unilaterale, al contrario, si raggiunge a prezzo del sostegno internazionale e interno. 

Un intervento militare – sia esso umanitario o strategico – deve avere due requisiti fondamentali: prima di tutto è di importanza cruciale il consenso sulla governance che subentrerà dopo il rovesciamento dello status quo. Se infatti l’obiettivo dell’intervento si limita a destituire un leader particolare, nel vuoto che si verrebbe a creare in seguito a ciò scoppierebbe sicuramente una guerra civile, dato che gruppi armati rivali avrebbero da ridire in merito alla successione al potere e i paesi stranieri si schiererebbero su posizioni diverse. 

In secondo luogo, l’obiettivo politico deve essere esplicito e raggiungibile in un periodo di tempo ragionevole a livello interno. 

Dubito che la situazione in Siria abbia questi requisiti. Non possiamo permetterci di essere indotti da un espediente all’altro a dare il via a un coinvolgimento militare a tempo indeterminato in un conflitto che sta assumendo sempre più una connotazione settaria. Nel reagire a una tragedia umana, dobbiamo prestare la massima attenzione a essere prudenti, così da non favorirne un’altra. In mancanza di un concetto strategico chiaramente articolato, un ordine mondiale che eroda i confini e faccia tutt’uno di guerre internazionali e civili non potrà mai avere un attimo di respiro. Per dare una prospettiva alla proclamazione di principi assoluti occorre il senso della misura. Questa non è una faccenda di parte e così dovrebbe essere trattata dal dibattito nel quale ci stiamo inoltrando. 

Traduzione di Anna Bissanti 
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