Siete pronti per la guerra termonucleare globale?

Patriot usadi Spartaco A. Puttini
“Gramsci oggi” marzo 2015

Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica ad oggi, gli Stati Uniti non hanno più trovato un argine che potesse contenere le loro mire, volte ad imporre al mondo un “nuovo ordine” unipolare, ad instaurare quello che definiscono il loro “dominio a pieno spettro”.

Questa situazione è durata fino a che la Russia è tornata a far sentire la propria voce nel contesto internazionale grazie al nuovo corso instaurato dal presidente Vladimir Putin, corso che mira a favorire l’emergere di un equilibrio multipolare nelle relazioni internazionali che sia rispettoso della sovranità dei diversi paesi. La Russia, con le sue iniziative, è dunque tornata ad essere un antagonista strategico degli Stati Uniti. Questo semplice dato di fatto spiega in gran parte il motivo dell’accanimento mediatico contro il leader russo.

Gli Stati Uniti coltivano già da qualche anno l’ipotesi di minacciare una guerra termonucleare globale per piegare i loro avversari diretti: Russia e Cina. Basterebbe forse solo questo a dimostrare il pericolo rappresentato dalla politica statunitense per la pace nel mondo e per la stessa sopravvivenza della razza umana. Guidando la corsa agli armamenti (anche in campo strategico), inseguendo il sogno delle guerre stellari e della militarizzazione dello spazio e dislocando elementi ABM in Europa, gli Usa puntano a costruirsi uno scudo dietro al quale ripararsi per svuotare di significato la capacità di deterrenza atomica russa e cinese.

Con il dispiegamento dello scudo antimissilistico in Europa orientale e in Estremo oriente Washington punta alla completa supremazia termonucleare sui suoi antagonisti. Nei piani americani lo scudo antimissile non deve essere preso in considerazione in un contesto difensivo ma in una modalità operativa offensiva al fine di neutralizzare possibili risposte ad un primo strike nucleare statunitense lanciato contro Russia e/o Cina[1]. Gli Stati Uniti vorrebbero utilizzare la loro supremazia nucleare per distruggere gran parte del potenziale ritorsivo russo e cinese e, grazie allo scudo, restare pressoché immuni da eventuali rappresaglie. Un tale progetto distrugge il meccanismo della deterrenza e la sua realizzazione lascerebbe Washington arbitra dei destini del pianeta, ed al caso pericolosamente incline ad usare il proprio potere distruttivo. Tale possibilità consentirebbe agli Usa di ottenere la resa dei propri rivali agitando la clava nucleare e, in caso di insuccesso, li renderebbe inclini ad utilizzare come ultima ratio il lancio di un first strike, opzione che entra così pericolosamente nel novero delle possibilità operative.  Il Cremlino si è così posto l’obiettivo di modernizzare il proprio tridente atomico: la Forza Strategica Missilistica, le Forze Strategiche Navali e l’Aviazione Strategica per bucare lo scudo e tener alta la propria capacità di ritorsione. Anche nella regione Asia-Pacifico gli Usa si adoperano per stabilire componenti del loro ambizioso progetto di scudo antimissilistico. Così come il sistema ABM in corso di allestimento in Europa centro-orientale è stato giustificato con la scusa della supposta minaccia iraniana, in Estremo oriente gli americani si nascondono dietro la supposta minaccia nordcoreana. Per Mosca e Pechino le reali intenzioni del progetto sono comunque evidenti, dati gli effetti, e le scuse accampate da Washington vengono considerate cibo per i gonzi. Per far fonte allo scudo Russia e Cina puntano a aumentare le proprie lance e a coordinarsi informandosi reciprocamente circa i rispettivi piani di puntamento e lancio dei missili balistici[2]. Il pericolo per il pianeta è talmente alto che a denunciarlo è stato persino l’ex sottosegretario al Tesoro dell’Amministrazione Reagan, Paul Craig Roberts, il quale ha giustamente rimarcato che l’ipotesi di restare immuni da uno scontro nucleare della rilevanza che viene ipotizzato sia pura follia, ma che lo stesso fatto che si coltivi tale assurda convinzione può portare alla degenerazione di qualsiasi crisi internazionale che coinvolga gli interessi vitali delle Grandi Potenze.

L’allarme rosso del rischio di un conflitto diretto tra Grandi Potenze del resto negli ultimi anni ha preso a lampeggiare nervosamente con drammatica frequenza.

A un passo dalla guerra

La primavera 2013 ha registrato una escalation in Estremo oriente che ha riguardato la Corea del Nord da una parte e gli Usa e la Corea del Sud dall’altra. Anche la questione coreana deve essere valutata obbligatoriamente all’interno dello scenario più articolato e complesso che misura i rapporti di forza tra Cina e Russia da una parte e gli Usa dall’altra. La concatenazione delle mosse sulla scacchiera nel corso della crisi, tra fine marzo e inizio aprile 2013, dimostra chiare reciprocità e dovrebbe suggerire prudenza:

Questa mobilitazione cinese, con lo spostamento verso la Corea del Nord di mezzi meccanizzati, corazzati e dell’aviazione ovviamente non serviva, come aveva scritto qualcuno, nell’ipotesi in cui, per il possibile degenerare della situazione, vaste folle di profughi fossero scappati dal nord della penisola, ma rappresentavano “un pieno supporto alla Corea del Nord”[3] e un chiaro monito alle provocazioni americane.

Durante l’estate dello stesso anno si è arrivati a un passo dalla guerra a causa della minaccia di un intervento diretto degli Usa contro la Siria, dopo che le milizie mercenarie sostenute da Occidente, Turchia e satrapi del Golfo avevano dimostrato di non essere in grado di rovesciare il presidente Assad. Nel corso della crisi siriana è apparsa evidente la determinazione della Russia. Determinazione di far presente ad Obama che erano gli Stati Uniti ad essersi avvicinati troppo a quella linea rossa che può segnare il punto di non ritorno. Determinazione di resistere all’imperialismo. La fermezza russa (e iraniana) ha rappresentato un deterrente alla ripetizione nel Levante arabo dello scenario già visto in Libia, dove alla polverizzazione di un paese con i bombardamenti è seguita la frammentazione tra clan e bande criminali rivali. La crisi siriana ha avuto come conseguenza diretta il rafforzamento della partnership strategica tra Mosca e Teheran, la Siria è infatti un alleato storico di entrambi i paesi.

Poi è stata la volta dell’Ucraina che, pur di annettere alla propria zona di influenza, gli americani sono stati disposti a precipitare in una sporca guerra civile. Ora, nonostante le sconfitte subite sul campo dall’esercito ucraino e dalle milizie mercenarie e fasciste, Washington si incaponisce nel tenere alta la tensione. Queste tre crisi hanno rappresentato provocazioni gravissime per la pace mondiale.

In Ucraina la forzatura è passata tramite la promozione di un golpe sostenuto dall’Occidente, e sta provocando la frammentazione del paese secondo uno scenario di tipo jugoslavo. Da tempo gli Usa avevano stabilito l’obiettivo di staccare l’Ucraina dalla Russia per inibire la capacità russa di proiettare la propria iniziativa e la propria influenza verso l’Europa e per tenerla sotto scacco. Un antesignano di questo calcolo strategico è stato Brzezinski. Ma una sfida simile non poteva restare senza risposta. La Crimea è già tornata alla Russia. Data la posta in gioco e dato l’azzardo operato dall’Occidente e dalle frange filo-occidentali della politica ucraina, l’intervento russo era più che prevedibile.

Ma la politica estera russa resta in fondo reattiva rispetto alle iniziative statunitensi. Nonostante quanto raccontato dai media, la disponibilità di Putin al dialogo è stata elevata. Il Cremlino ha addirittura riconosciuto il risultato delle elezioni ucraine, avvenute in un clima di brogli e pesanti intimidazioni. Le repubbliche della Novorossija si difendono strenuamente in una lotta per la vita e  per la morte contro una minaccia di vero e proprio annientamento. In questo contesto è naturale che l’opinione pubblica russa, di tutti i colori, guardi prevalentemente con simpatia ai patrioti del Donbass e spinga perché la Russia non li abbandoni, un lusso che Putin non si potrebbe comunque permettere.

Lo scivolamento dell’Ucraina nel campo atlantico e occidentale e la sua trasformazione in una base per un’aggressione diretta alla Russia sono, ovviamente, per Mosca, inammissibili. Il golpe di Kiev implica una minaccia diretta alla sicurezza della Russia e per ciò stesso la crisi ucraina contribuisce ad un’ulteriore aumento della tensione internazionale. Le forze golpiste e mercenarie che rispondono a Kiev hanno patito brucianti sconfitte sul campo di battaglia, e il paese è al collasso economico. Come sempre, quando le forze ucraine hanno la peggio, come è avvenuto nella prima metà di febbraio del 2015 quando le formazioni novorusse hanno accerchiato le truppe golpiste nella sacca di Debeltsevo, si è attivata la diplomazia europea per cercare un’uscita dall’impasse. Ma gli Usa continuano a spingere verso un coinvolgimento sempre più scoperto nella sporca guerra in corso al confine dell’Europa, alle porte della Russia. Il fine è quello di mettere Putin di fronte al fatto compiuto di un’annessione dell’Ucraina alla loro orbita geopolitica (che potrebbe avere evidenti ripercussioni politiche in tutto lo spazio ex sovietico) oppure balcanizzare il paese. In ogni caso la politica del “diaframma” per troncare i ponti e le potenzialità di una cooperazione euro-russa farebbe un importante passo in avanti e sancirerebbe la colonizzazione definitiva dell’Europa minor da parte dello Zio Sam. Mentre, cupa, si fa sempre più prossima l’ipotesi che l’Unione europea venga risucchiata nel Trattato transatlantico, la “Nato economica”.

Il cappio al collo

A Washington è chiarissimo che per poter perpetuare la propria supremazia è necessario tenere ben stretto in un unico blocco a guida americana la Triade dei paesi capitalistici avanzati. Così, da un lato gli Usa si muovono per garantire l’allineamento dei satelliti europei, in questo favoriti dal mutamento degli equilibri di politica interna che sono avvenuti in paesi come l’Italia e la Francia, dove correnti neutraliste e autonomiste un tempo molto forti sono state nel corso degli ultimi due decenni praticamente emarginate. In Estremo oriente questa preoccupazione americana ha trovato una declinazione particolare nel favoreggiamento delle tendenze nazionaliste e revansciste nipponiche in funzione anticinese. In Europa la partita condotta dagli Usa mira a favorire la rottura dei rapporti di sempre più stretta collaborazione che naturalmente caratterizzerebbero le relazioni tra la Russia e i paesi della Ue. Tale politica trova solidi piloni in avamposti russofobi come la Polonia e la Lituania e oggi trova un ulteriore paletto nel regime instaurato a Kiev. Il tentativo di precludere all’Europa la possibilità di stabilire relazioni con mutuo beneficio con la Russia ad est e con l’Algeria ed altri paesi arabi a sud (significativa in proposito è stata la riduzione della Libia in macerie) serve a stringere l’Europa ancor di più nell’orbita atlantica, ad evitare l’emergere di configurazioni di potere anche solo potenzialmente antagoniste rispetto all’ordine americano, a fagocitare in un unico blocco occidentale gli stati europei. A questo mira la proposta del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) che rappresenta al momento un pericolo enorme per i popoli europei e per le loro civiltà.

A causa delle loro sudditanza atlantica i paesi europei hanno accettato persino di stringersi da soli attorno al collo il cappio delle sanzioni alla Russia. Una scelta masochista e controproducente. Ma il rischio che si arrivi a un punto di non ritorno è forse apparso troppo innaturale persino a Merkel e Hollande, che sono corsi a Mosca a cercare di disinnescare la tensione. Nello stesso lasso di tempo Obama ha continuato a proferire minacce, mentre ha chiesto al Congresso mano libera per agire nel Vicino oriente, ufficialmente contro i suoi figliocci dell’ISIS, di fatto contro Damasco. Attizzando due crisi gravissime in simultanea Washington spera forse di far arretrare la Russia almeno in uno dei due quadranti. Due quadranti di primaria rilevanza per la definizione degli equilibri mondiali. Ancora una volta il mondo balla a un passo dalla guerra termonucleare per l’ambizione statunitense di dominare il pianeta e assoggettare il resto della razza umana.

L’umanità è al bivio: o dittatura planetaria statunitense, o sviluppo pacifico nell’equilibrio multipolare. O l’unipolarismo, o la difesa della sovranità nazionale. O il liberismo, o la possibilità di scegliere autonome strade di sviluppo. O il crollo della nostra civiltà, o il suo riposizionamento accanto alle altre che sono ricomparse sulla scena o che si affacciano ora a reclamare il loro giusto spazio nel concerto delle nazioni. O Occidente, o scelta eurasiatica e antimperialista.

NOTE

[1] Keir A. Lieber, Daryl G. Press, The Rise of U.S. Nuclear Primacy, “Foreign Affairs”, marzo-aprile 2006
[2] Reuters, 13/10/2009
[3] “Russia Today”, 2/4/2013: http://rt.com/news/chinese-military-korea-alert-184/