Safe zone e armi chimiche: nuove vie per la guerra in Siria

di Diego Angelo Bertozzi

newsdalmondo bannerIl 17 marzo del 2011 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu adottava – grazie all’astensione di Cina e Russia – la Risoluzione 1973 che istituiva una No-fly zone sulla Libia a protezione dei civili bombardati – in assenza di prove – dai caccia di Gheddafi. Quella risoluzione diede via libera ad una aggressione vera e propria della Nato ai danni della Libia con massicci bombardamenti sulle infrastrutture militari e civili.

In sette mesi furono effettuate 30mila missioni con l’impiego di oltre 40mila bombe e missili1. Il cosiddetto interventismo umanitario, mascheratura ideologia dei progetti imperialisti di Usa e alleati, trovava così una nuova giustificazione: la responsabilità della comunità internazionale – si legga Nato più alleati di turno – nella protezione di un popolo bombardato dal suo dittatore.

Normalizzata la Libia, si è poi passati alla Siria. Ma ancora oggi la volontà di Usa, Nato e alleati arabi di imporre una no fly-zone per proteggere il popolo siriano in rivolta dai bombardamenti di Assad è stata bloccata dal veto di Pechino e Mosca in nome del rispetto della sovranità nazionale e della non interferenza negli affari interni di un Paese. Mentre Cina e Russia – e con loro gli altri Brics e una larga fetta dei Paesi del Movimento dei Non Allineati – puntano ad una soluzione interna che preveda riforme e il dialogo con le forze di opposizione, il fronte anti- Assad autonominatosi “Amici della Siria” – nel quale militano con zelo missionario democratico retrive autocrazie come l’Arabia Saudita e il Qatar – continua nell’appoggio militare, logistico e finanziario alle formazioni ribelli, costituite anche da forze mercenarie e da forze dell’islamismo estremo.

Bastano, per dare un esempio dell’impegno messo in campo dalla Nato nel rovesciare il governo siriano, le recenti notizie relative alla guerra segreta condotta in Siria dai servizi segreti britannico e tedesco. Lo riporta, con evidente soddisfazione bellica degna di una saga alla Rambo, un articolo di Repubblica a firma del corrispondente Andrea Tarquini: “Parliamo del leggendario MI5, il servizio segreto di Sua Maestà britannica, e del Bundesnachrichtendienst (BND), l’intelligence tedesca. Le loro informazioni, raccolte con le tecnologie più sofisticate, forniscono agli insorti siriani notizie preziose, e secondo i media dei due Paesi anche addestramento. È una guerra segreta, con a fianco i droni da spionaggio della US AirForce, ed è difficile immaginare che il dittatore di Damasco possa vincerla”2. Quella qui descritta è una vera e propria guerra di aggressione che viola apertamente il diritto internazionale.

La resistenza e la controffensiva dell’esercito siriano hanno dato nuovo vigore al fronte interventista. Lasciata da parte la prospettiva della No-fly zone, il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu ha lanciato il 20 agosto l’ipotesi della costituzione di una “Safe zone” all’interno della Siria per l’accoglimento e la protezione dei profughi siriani. Ipotesi che sarà in discussione nell’incontro ministeriale dei membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in programma il prossimo 30 agosto.

È facile capire che la parola “protezione”, come nel caso di quella dei civili da bombardamenti, si presta ad ogni possibile interpretazione e estensione: proteggere i rifugiati non implica forse un attacco all’esercito siriano e alle strutture militari che li minaccerebbero? Non significherebbe anche attaccare – come già è stato chiesto – le televisioni siriane che propagandano odio? E non sarebbe anche facile inscenare un attacco ad un campo profughi per avviare una operazione militare su vasta scala sfruttando l’indignazione pubblica? E questa zona di protezione non costituirebbe un contropotere politico-militare, una embrionale “Siria liberata”, fuori da qualsiasi controllo di Damasco e dalla quale alimentare sempre più l’aggressione? Il precedente libico ci fornisce chiare risposte.

Poco prima, sempre il governo turco, allarmato per la crescente attività militare dei curdi del PKK, aveva chiesto l’istituzione di una zona cuscinetto di 20 km all’interno del territorio siriano.

All’appello mancava solo la minaccia delle armi chimiche o di distruzione di massa, anche se, in verità, per qualche giorno è circolata l’ipotesi che proprio in Siria fossero nascoste quelle mai trovate nell’Iraq di Saddam Hussein. Ma ci ha finalmente pensato il presidente statunitense Barack Obama che, dimentico del fatto che contro Assad sono state scatenate anche forze riconducibili ad Al Qaeda, ha minacciato un intervento militare diretto Usa, in coordinamento con Turchia e Israele, nel caso Damasco perdesse il controllo sul proprio arsenale chimico con il rischio che cada in mano a pericolose forze terroristiche quali – e non ne avevamo dubbi – la libanese Hezbollah3.

Contro questa prospettiva resiste ancora l’asse Mosca – Pechino. Al termine dell’incontro di martedì 21 agosto, il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov e il consigliere di Stato cinese Dai Bingguo hanno ribadito la necessità del rispetto della Carta dell’Onu e la contrarietà ad interferenze esterne che minano la possibilità di ogni dialogo di pace.

NOTE

1 Manlio Dinucci, “Libia un’anno fa: memoria corta”, il Manifesto, 19 marzo 2012.

2 Andrea Tarquini, “Navi spia, droni e commando. La guerra segreta di Londra e Berlino per abbattere il regime siriano”, 20 agosto 2012,

3 Mark Landler, “Obama Threatens Force Against Syria”, New York Times, 20 agosto 2012.