di Marinella Correggia
Autunno 1990: il Consiglio di sicurezza dice sì al sequestro dell’Onu da parte statunitense, nella preparazione della devastante «Tempesta del deserto» contro l’Iraq, scatenata a partire dal 17 gennaio 1991.
Il 29 novembre dovrebbe essere una delle tante “giornate del ringraziamento” a Cuba per la funzione storica che ha avuto, spesso da sola, piccola gigante, contro l’imperialismo delle guerre e dei privilegi. Vediamo cosa accadde nei mesi dell’autunno-inverno 1990, mentre l’Occidente (e l’Italia dell’art. 11 della Costituzione…) scivolavano verso una atroce guerra all’Iraq. Uno spartiacque nella storia recente. E forse nella vita di alcuni di noi. Appartenere a un paese guerrafondaio è atroce.
Il 2 agosto 1990 l’Iraq invade il Kuwait, che accusa di condurre una guerra economica perché invadendo il mercato con il suo petrolio ha contribuito ad affossarne il prezzo, con enormi perdite per gli iracheni appena usciti dalla disastrosa guerra con l’Iran. Pochi giorni prima, l’ambasciatrice statunitense April Glaspie ha dato al presidente Saddam Hussein una sorta di (ingannevole) via libera all’azione militare.
Nei mesi che seguono, gli Stati uniti mettono i bastoni fra le ruote a qualunque soluzione possibile diplomatica e preparano la legittimazione dell’Onu alla loro guerra aerea, la «Tempesta nel deserto» che distruggerà l’Iraq, a partire dalla notte del 16 gennaio 1991, con la partecipazione di diversi paesi arabi e occidentali fra i quali l’Italia. Ma già da agosto Bush manda in Arabia saudita centinaia di migliaia di uomini; è l’operazione «Scudo nel deserto».
Lo Yemen è l’unico paese arabo nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e, prendendo sul serio il compito di rappresentare l’insieme della regione, rifiuta di partecipare al voto sull’immediata risoluzione 660 che chiede il ritiro dell’Iraq dal Kuwait. Intanto la Giordania cerca una soluzione negoziale presso la Lega araba, ma dopo una prima riunione, con divisioni nette (unici a non sposare la posizione Usa sono Libia, Giordania, Algeria e Yemen), ma gli Usa procedono come carri armati al Consiglio di sicurezza e la Lega araba è estromessa.
Al Consiglio di sicurezza George Bush e alleati rifondano l’Onu trasformandola in strumento del volere e del potere statunitense. Come scrive Phillis Bennis nel libro Calling the Shots. How Washington Dominates Today’s UN (Olive Branch Press, 1995), le Nazioni unite sono fra le «vittime della guerra del Golfo», «diventando agente legittimante per le decisioni unilaterali dell’unica superpotenza rimasta»: «Del resto, Washington aveva bisogno di un confronto militare, con una chiara vittoria garantita, e con l’avallo Onu, per far capire che, pur rimanendo l’unica superpotenza strategica, non aveva intenzione di piegare le tende; e che Mosca ormai era in linea con il nuovo ordine mondiale».
Alle risoluzioni sull’Iraq, l’Unione sovietica, in totale declino, prossima alla dissoluzione, fortemente dipendente dagli aiuti occidentali, non oppone mai il veto a cui ha diritto in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza: «chi siamo noi» risponde mestamente l’ambasciatore sovietico all’Onu a un giornalista, «per dire che il Pentagono non può prendere tutte le decisioni di una guerra che sarà condotta in nome dell’Onu?». Anche la Cina asseconda, non opponendosi a Washington sia per avere un ruolo diplomatico più influente, sia per ottenere un alleggerimento delle sanzioni di cui è gravata dopo i fatti di piazza Tienanmen (1989).
La risoluzione clou che porta alla guerra, il cosiddetto ultimatum all’Iraq, è la 687 del 29 novembre 1990, che autorizza i paesi membri a cooperare con il Kuwait usando tutti i mezzi necessari, quindi la forza. Gli Stati uniti e le petromonarchie preparano per bene il terreno utilizzando il bastone e la carota per acquisire il consenso dei membri non permanenti. Fra questi ultimi, a parte i paesi occidentali (Canada, Finlandia) e la Romania post-muro, uniformemente schierati a favore delle decisioni Usa, gli altri membri di turno, appartenenti al gruppo dei non allineati vengono convinti a suon di pacchetti di aiuti, militari e non: Costa d’Avorio, Colombia, Etiopia, Malaysia, Zaire. L’Unione sovietica, agli sgoccioli, e pronta a tutto pur di avvicinarsi all’Occidente, ottiene 4 miliardi dai sauditi.
Cuba e Yemen sono i due membri di turno del Consiglio di sicurezza che fin dall’inizio della crisi hanno puntato i piedi, spesso in solitudine, ricordando al Consiglio la Carta dell’Onu che invoca soluzioni pacifiche alle controversie, e cercando di convincere altri membri ad allontanarsi dalla linea belligerante di Washington. Contro Cuba e Yemen, gli Usa e i sauditi usano il bastone. Alla vigilia della risoluzione cruciale, la pressione sui due disobbedienti si intensifica.
Veramente il bloqueo contro Cuba dura da decenni, quindi gli Stati uniti non hanno molti strumenti diplomatici ed economici ancor da giocare. Ma ci provano lo stesso: alla vigilia del voto, si svolge a Manhattan il 28 novembre il primo incontro a livello ministeriale fra Washington e l’Avana da 30 anni. E’ chiaramente una verifica della possibilità di convincere i cubani a desistere. Niente da fare: Cuba e Yemen votano no alla 687 (la Cina si astiene, tutti gli altri dicono sì).
Lo Yemen, il paese più povero della regione, da poco unificato, paga un prezzo altissimo per il coraggio di violare il consenso ordinato dagli statunitensi. Pochi minuti dopo il voto, gli Usa informano l’ambasciatore Abdallah Saleh al-Ashtal: «Sarà il no più caro che abbiate mai detto»; e cancellano il piano di aiuti di 70 milioni di dollari. Non basta: dal canto suo, l’Arabia saudita espelle centinaia di migliaia di lavoratori yemeniti. Una ritorsione nazista.
La notte del 16 gennaio 1991 Usa e alleati iniziano a bombardare, malgrado la risposta positiva dell’Iraq agli ultimi tentativi negoziali, da parte del segretario generale dell’Onu, dell’Iran (appoggiato da Mosca), e di Nicaragua, India e Germania (Daniel Ortega fu l’ultimo capo di Stato a recarsi a Baghdad per scongiurare la guerra).
Mentre le città irachene vengono distrutte dalle bombe poco intelligenti, e i soldati che si stanno ritirando dal Kuwait vengono sepolti vivi nel deserto dai marines, Mosca appoggia l’accettazione da parte irachena della risoluzione 660: il ritiro dal Kuwait. Ma Usa e Gran Bretagna chiedono di più e subito; e continuano a bombardare.