di Spartaco A. Puttini per Marx21.it
La determinazione bellicista del premio Nobel della pace, santo subito della “sinistra” farlocca, rischia di trascinare il pianeta nell’abisso di una guerra termonucleare. Chiunque abbia una minima conoscenza delle vicende mediorientali sa che in caso di attacco statunitense alla Siria sarebbe difficilissimo delimitare il conflitto.
Era dall’epoca della crisi dei missili a Cuba, nell’ottobre 1962, che il mondo non si trovava sull’orlo di uno scontro diretto tra le Grandi Potenze.
Anche se i bollori del presidente americano sembrano al momento raffreddati occorre tenere la guardia alta. Il pericolo non è scampato. In questo momento drammatico ci sono alcuni aspetti che devono essere chiari. C’è una responsabilità dietro la tragedia siriana: quella di chi ha deciso di sostenere, armare, finanziare, addestrare e coadiuvare le bande armate terroriste che stanno seminando morte e distruzione in tutto il paese arabo pur di abbattere la Siria in quanto stato nazionale moderno alla guida della lotta antimperialista da mezzo secolo.
Sono ormai arcinoti i crimini compiuti dalle bande armate sulla popolazione civile, come sono palesi le finalità degli stessi gruppi, egemonizzati dal pensiero estremista di stampo wahhabita per il quale chiunque non è musulmano è empio e chiunque è musulmano, ma non secondo la visione strampalata e blasfema propagandata dalla dinastia saudita e dai suoi tirapiedi reazionari in tutto il mondo islamico, è ancora più empio.
E’ noto anche che questi gruppi sono soliti far ricadere le colpe dei loro eccidi e delle loro pratiche disumane sull’esercito siriano e che ad oggi sono stati i soli ad aver usato sicuramente il gas contro la popolazione civile, come sostenuto da Carla Del Ponte.
Non si tratta nemmeno di una lotta tra sunniti e sciiti, come raccontano certi giornali, utilizzando una chiave di lettura deformante. L’esercito siriano è composto in stragrande maggioranza da sunniti e combatte contro queste bande da ormai due anni. Evidentemente non tutti i sunniti concordano con la visione dell’islamismo reazionario che fornisce carne da cannone ai predoni imperialisti e ai satrapi del Golfo persico.
Da una parte stanno coloro che difendono la Siria come nazione sovrana e tradizionalmente multiconfessionale: sono i sostenitori del nazionalismo arabo, i socialisti del Baath, i laici, i comunisti, i cristiani di mille confessioni, e anche la maggior parte dei musulmani che rifiuta la barbarie e vuole vivere degnamente. Sa, la maggior parte dei Siriani, cosa accadrebbe al paese se queste bande criminali riuscissero a rovesciare il governo. E’ per questo che, a dispetto delle loro divergenze, sostengono la resistenza del loro paese sotto attacco e sostengono Assad.
In questa sporca guerra il governo siriano e l’esercito siriano stanno proteggendo il loro popolo dai gruppi terroristi armati, composti in gran parte da mercenari, sostenuti dal blocco imperialista occidentale, che vorrebbe spazzare via l’antemurale siriano per ri-colonizzare tutta la regione, e dalle monarchie del Golfo, strenuamente impegnate a fermare le correnti rivoluzionarie e progressiste nel Vicino oriente, siano esse laiche, nazionaliste o islamiste rivoluzionarie.
Ma la brusca accelerazione che Obama ha dato alla crisi porta in primo piano un’altra questione.
– A un passo dalla guerra
Deve essere chiaro che in caso di attacco diretto alla Siria, oltre ad assistere al dramma di una nuova guerra, con i suoi strascichi di vittime e tragedie, assisteremmo ad un inasprimento della vita internazionale tale da poter degenerare, a breve, in un conflitto mondiale, difficilmente circoscrivibile sul piano convenzionale.
La Siria non è un paese isolato, come era l’Iraq di Saddam, ma è al centro di una rete di relazioni tra stati che si oppongono all’egemonismo americano.
In evidente crisi, questo egemonismo, cerca di imporsi con la forza bruta. Visto che le bande armate non sono riuscite a rovesciare il governo siriano e a distruggere la Siria Washington pensa di intervenire in prima persona, con i suoi vassalli europei. Con quegli utili idioti dei socialisti francesi in testa al macabro corteo.
Schiacciando la Siria gli Usa contano di spezzare l’Asse della Resistenza (Siria-Iran-Resistenza libanese) che argina i piani dell’imperialismo nella regione. A quel punto il Libano imploderebbe quasi sicuramente, per la gioia dell’espansionismo coltivato dal gruppo dirigente di Israele, e l’Iran si troverebbe isolato in una regione ostile. Orde di pazzi fanatici drogati da una visione distorta del messaggio coranico, disposti a lanciarsi in un jihad per il dio dollaro, si lancerebbero oltre il Caucaso e l’Asia centrale per portare la destabilizzazione nel cortile della Russia e al confine della Cina, rimaste a quel punto senza più alleati di rilievo sulla Grande Scacchiera.
La via di Damasco porta a Teheran, secondo i piani imperialisti. La caduta di Teheran altererebbe enormemente l’equazione energetica globale e permetterebbe agli Usa di ipotecare seriamente la partita per ridefinire il sistema internazionale.
C’è davvero qualcuno disposto a credere che nelle capitali delle Potenze che svolgono un ruolo antagonistico rispetto alle mire imperialiste statunitensi non si tirino le somme dal ruolino di marcia seguito dal bellicismo Usa negli ultimi anni? Difficilmente questa volta resteranno a guardare. Russia e Cina hanno già inviato navi da guerra nel Mediterraneo orientale. E’ probabile che non interverranno direttamente, quanto meno all’inizio dell’ipotetico conflitto. Ma interverranno.
Al G20 di San Pietroburgo Putin ha detto senza mezzi termini che in caso di guerra la Russia sosterrà la Siria con armi e denaro.
C’è chi ha avanzato un parallelo con quanto avvenuto durante la guerra del Vietnam, quando URSS e Cina sostennero indirettamente Hanoi. Ci sono tuttavia delle complicazioni dal punto di vista logistico. Il Vietnam confinava con uno dei due paesi, la Cina, la Siria non confina con nessuno dei suoi alleati. In caso di attacco statunitense sarebbe impossibile attuare un ponte aereo e gli unici aiuti potrebbero arrivare via terra dall’Iran tramite il rischioso territorio irakeno o dal mare.
La presenza della Flotta russa a ridosso delle coste siriane potrebbe servire all’uopo. E’ al momento dotata di numerose unità da sbarco che potrebbero fungere da navi da trasporto per gli aiuti. La presenza della Flotta si spiega però anche e soprattutto in un altro modo. Potrebbe servire per monitorare le mosse occidentali e fornire preziose segnalazioni ai sistemi contraerei presenti sul territorio siriano.
In ogni caso un dispiegamento imponente di forze navali, come quello che ora si concentra nel Mediterraneo orientale, in un contesto così teso è sempre un pericolo.
All’inizio della sua presidenza Putin visse la tragedia del sottomarino d’attacco nucleare Kursk.
Il Kursk si inabissò con il suo equipaggio nel corso di esercitazioni. La commissione d’inchiesta presieduta dal procuratore generale Ustinov sostenne che la tragedia venne provocata da un siluro difettoso, che esplodendo innescò una reazione a catena dagli esiti fatali. Ma il ministro della Difesa russo dell’epoca, Sergeyev, parlò di una collisione tra il Kursk e un analogo statunitense, classe Los Angeles, che incrociava vicino alla zona delle manovre della flotta russa per reperire informazioni.
Washington ammise la presenza in quelle acque del Toledo e del Memphis ma negò qualsiasi incidente. Secondo alcune ricostruzioni, invece, il sottomarino statunitense Toledo si sarebbe avvicinato troppo, andando a sbattere contro il Kursk, che azionò i sistemi di difesa. Il Memphis avrebbe allora lanciato un siluro che colpì il Kursk a prua, innescando una santabarbara. Il Kursk si sarebbe successivamente inabissato.
Al di là di come andarono effettivamente le cose è ovvio che il verificarsi di un incidente, anche involontario, tra unità delle due marine da guerra che incrociano nel Mediterraneo orientale in un contesto internazionale così incandescente e in pieno teatro d’operazioni potrebbe avere conseguenze più serie e far precipitare tutto.
– La lezione di Putin a Obama
Russia e Cina con il loro impegno per risolvere la crisi siriana per via diplomatica stanno servendo la causa della pace e per ora sono riuscite ad evitare l’esplosione di un nuovo conflitto.
Per quanto sia da apprezzare il contributo del Papa alla causa della pace, per onestà intellettuale, occorre ammettere che se Obama non ha ancora commesso la follia di iniziare una guerra d’aggressione diretta contro la Siria, ciò è dovuto essenzialmente alla fermezza mostrata da Mosca e Pechino.
Per questa ragione non si scandalizzerà nessuno se ci uniamo al coro di chi ringrazia il presidente russo. Del resto dopo che un certo Paolo Ferrero ebbe la pensata di salutare “a pugno chiuso” quella banda di volgari spostate delle “Pussy Riot” chiamandole addirittura “compagne” (a questo si è giunti?) non ci si può certo stupire se i movimenti progressisti e antimperialisti di mezzo mondo oggi guardino con stima e riconoscimento il leader del Cremlino.
Putin ha risposto colpo su colpo alla calunniosa campagna mediatica imbastita per far passare le bande armate come rappresentanti del popolo siriano che lottano per la democrazia e difendono il popolo. In tutti questi mesi ne ha ricordato la filiazione estremista e ne ha ricordato i crimini. Quando si vide a Ginevra con il premier britannico Cameron chiese ironicamente da quando l’Occidente, con il suo carico di valori, avesse cominciato ad impegnarsi per sostenere i cannibali. Pochi giorni prima, infatti, era stato diffuso un video dove alcuni componenti delle bande armate si nutrivano davanti alle telecamere delle viscere delle loro vittime. Durante l’ultimo G20 il presidente russo ha rigettato le accuse sull’uso delle armi chimiche da parte dell’esercito siriano e ha definito il crimine “una provocazione delle bande armate”.
A differenza di quanto avvenuto nel recente passato ora gli Usa hanno a che fare con un leader che risponde a tono alle loro campagne propagandistiche. La meritoria decisione di offrire asilo politico al dissidente statunitense Snowden, considerato un eroe in gran parte del pianeta, è stata una prova di questo. Con la questione siriana tale concetto viene ribadito.
Putin ha anche scritto una lettera aperta al popolo americano, dalle colonne del “New York Times”.
Il presidente russo ha ricordato che le Nazioni Unite sono il frutto dell’alleanza antinazista tra la Russia e gli Stati Uniti e che il ricorso ad un’azione militare al di fuori del Consiglio di Sicurezza dell’Onu equivarrebbe ad un atto di aggressione. L’unica cosa ammessa dalla Carta dell’ONU è una guerra difensiva ma, ha ricordato, la Siria non ha dichiarato guerra a nessuno. Ha paragonato le iniziative unilaterali a quelle che spezzarono la Società delle Nazioni negli anni Trenta (una velata allusione all’aggressività delle Potenze fasciste).
Ha fatto presente che i costi di un’aggressione alla Siria sarebbero incalcolabili, rischiando di innescare un’escalation che renderebbe difficile circoscrivere il conflitto. Ha aggiunto che contro il governo siriano stanno combattendo più che sostenitori della democrazia molti integralisti, anche in organizzazioni riconosciute come terroriste dagli stessi Usa. Ha ricordato che nelle bande armate militano moltissimi stranieri e ha retoricamente chiesto quali garanzie ci siano circa il loro comportamento quando torneranno nel loro paese dopo questa esperienza sanguinaria.
Ha concluso dicendo che oggi in molti non guardano all’America come a un modello di democrazia ma come a una Potenza disposta a ricorrere disinvoltamente alla forza bruta. Ma questa inclinazione, ha constatato, non rende il mondo più sicuro, bensì spinge sempre più nazioni a dotarsi di armi di distruzioni di massa: “E’ logico, se io possiedo la Bomba, nessuno oserà toccarmi”1.
Questa postura assunta da Putin è segno di determinazione. Determinazione di resistere all’imperialismo. La Russia è tornata a svolgere il suo storico ruolo antiegemonico. Una presenza della quale i popoli del mondo avevano bisogno e che possiamo solo augurarci non venga meno in futuro.
Obama, invece, è ormai nudo. La maschera accuratamente costruita dal circuito mass-mediatico, per rinverdire quel prodotto fraudolento che potremmo definire il “mito americano”, è caduta presso un largo pubblico. Buona parte di coloro che si erano illusi, sono ora delusi.
Ma la questione è ovviamente più profonda, e le sue implicazioni vanno ben oltre le caratteristiche reali o immaginarie del personaggio di turno.
E’ palese la preoccupante tendenza statunitense a generare gravi crisi internazionali. A cercare di risolvere la propria bancarotta economica con la guerra pur di non rinunciare alla propria agognata primazia, ai propri progetti universalistici.
Gli Usa durante le Amministrazioni di Bush e di Obama hanno manifestato la pericolosa inclinazione a rischiare grosso. Hanno avuto la chiara sensazione che l’evoluzione naturale delle cose erodesse la supremazia statunitense e mettesse in discussione il progetto americano di mettere il guinzaglio al pianeta. Da qui la politica muscolare attuata senza scrupoli, ma anche con pochi risultati. Tra questo quello di aver spinto all’avvicinamento i propri antagonisti: Russia, Cina e Iran anzitutto.
Di fatto il mondo è ancora diviso in due blocchi, ma questa volta la loro metà è quella più piccola.
– La teoria del rischio calcolato: come si decide un conflitto
L’aspetto più grave della vicenda è l’inclinazione statunitense a tirare la corda fino al punto di rottura, irresponsabilmente.
Solo nel corso dell’ultimo anno abbiamo assistito a due crisi internazionali di inaudita gravità, e non sono certo i titoli della stampa che vengono dedicati alle autentiche barzellette della politichetta o del gossip che possono sminuire la portata di queste vicende.
Con la crisi della penisola coreana Obama ha saggiato la determinazione della Cina a difendere la sua zona di sicurezza in Asia orientale. Durante le manovre congiunte Usa-Corea del Sud, che prevedevano il bombardamento atomico della Corea del Nord, Pyongyang mobilitò e la Cina procedette ad una mobilitazione parziale dei suoi effettivi in Manciuria e nel braccio di mare che separa le coste cinesi dalla penisola di Corea. Pechino manifestò così la propria determinazione a difendere il piccolo vicino.
Ora, con le minacce alla Siria, il rischio è ancor più serio.
In caso di guerra, anche ammettendo che la Russia e la Cina riescano a non farsi trascinare in un conflitto diretto (ma questo ovviamente non dipende solo da loro) limitandosi a supportare indirettamente Damasco, sarà difficile che l’Iran non presti soccorso al suo storico alleato siriano. Tra i due paesi c’è un’alleanza militare e strategica che renderebbe difficile circoscrivere il conflitto.
Secondo alcune informazioni, nei giorni più caldi della crisi Teheran aveva messo in allerta le proprie truppe e si sarebbe preparata a inviare oltre confine (Siria) una parte dei suoi effettivi2. In caso di attacco alla Siria e di probabile coinvolgimento iraniano potrebbe innescarsi un’escalation. Le alleanze difensive servono proprio a scoraggiare aggressioni, a meno che l’aggressore non sbagli i calcoli o non sia disposto a giocarsi il tutto e per tutto.
C’è un inquietante precedente al comportamento irresponsabile assunto da Washington.
Anche un secolo fa, durante la crisi dell’estate 1914 che portò allo scatenamento del primo conflitto mondiale, la Germania pensò che tanto valeva rischiare (e al limite fare) una guerra generale in quel frangente, perché lo scorrere del tempo le avrebbe giocato contro. Per questo diede il disco verde all’Austria-Ungheria, che procedette presentando alla Serbia un ultimatum irricevibile. Berlino e Vienna in realtà non pensavano che a quel punto la Russia sarebbe intervenuta per proteggere i Serbi. In fondo non lo aveva fatto l’anno prima, quando bisognava spartirsi i frutti delle guerre balcaniche. Né la Francia l’avrebbe mai seguita. Questo calcolo si rivelò, come è noto, ampiamente errato e innescò il meccanismo stritolante delle reciprocità tra le Potenze: la catena delle alleanze e il peso degli interessi in gioco trascinarono a uno a uno tutti nell’abisso della grande carneficina.
Ora Washington sembra ripercorrere le stesse orme. Sente lo scorrere del tempo che annienta le sue ambizioni, i privilegi conquistati in più di un secolo di guerre, rapine ed ingerenze varie e forza pericolosamente la situazione.
Sposta nella base di Incirlik il suo aereo E-41, adatto a tenere i contatti tra l’alto comando Usa e le truppe impegnate in un teatro operativo anche in caso di guerra nucleare globale, per dimostrare che fa sul serio.
Nel momento in cui scriviamo la fermezza di Russia, Cina e Iran e la netta contrarietà alla guerra della maggior parte dell’opinione pubblica internazionale (opinione pubblica che in Inghilterra ha paralizzato l’azione del governo) hanno fermato la mano del boia, che in questa storia, sia detto per inciso, non è certo Assad.
Ma il rischio che l’umanità sta correndo non è rientrato, e non ha precedenti. Solo avendo coscienza della posta in gioco, del carattere della sfida portata a tutta l’umanità dall’egemonismo statunitense e delle rispettive posizioni assunte sulla crisi siriana dalle forze politiche e statuali è possibile svegliare le coscienze e riprendere a costruire un solido movimento per la pace anche qui in Europa.
Perché l’andamento delle crisi con cui ci confronteremo nel prossimo futuro impone la necessità di un rilevante spostamento nei rapporti di forze nel nostro paese e negli altri paesi europei, prima che la gabbia transatlantica si chiuda e che le luci si spengano sull’Europa.
NOTE
1 “The New York Times”, 11 settembre 2013
2 Strategika 51, 30 agosto 2013