di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Il 60° anniversario della nascita dell’Anzus, il patto di difesa siglato nel 1951 tra Usa, Australia e Nuova Zelanda nell’ambito della strategia di contenimento del comunismo in Asia, sarebbe passato sotto un sostanziale silenzio se non fosse stato per la decisione di Obama di aprire una base di marines a Darwin nel nord dell’Australia. La base – prima presenza militare permanente di Washington sull’isola-continente – sarà inaugurata entro la fine del 2012 con l’arrivo di 250 marines che saliranno poi fino a 2500 (Marine Air and Ground Task Force). Da parte sua l’Australia aumenterà i porti di attracco e rifornimento per le portaerei americane che operano nella regione. A questo va anche aggiunto il nuovo concetto di guerra del Pentagono, uscito allo scoperto all’inizio di novembre, concepito come risposta ai crescenti sforzi militari cinesi volti a impedire l’accesso ai territori limitrofi e al cyberspazio. L’Air Sea Battle, che per alcuni funzionari della difesa Usa segna l’inizio della guerra fredda con la Cina comunista, prevede l’utilizzo di armi antisatellite, sottomarini, aerei Stealth e missili a lungo raggio che possono colpire portaerei in mare in risposta alla crescente minaccia cinese sulle vie di navigazione strategiche [1].
Un ferro vecchio e in disuso come l’Anzus [2], che negli anni ’80 ha visto pure defilarsi la nuova Zelanda, viene ora rinvigorito in funzione del contenimento della presenza cinese in un’area calda, come quella del Mar Cinese meridionale ricca di risorge energetiche, interessata da dispute sulle acque territoriali che vedono Pechino confrontarsi soprattutto con Vietnam e Filippine. Queste ultime fin dal 1898, a seguito della vittoria della guerra con la Spagna e la dura repressione del movimento nazionalista locale [3], hanno costituito la tradizionale base d’appoggio degli Stati Uniti in vista di una penetrazione in Cina e della partecipazione alla sua spartizione. La base di Darwin, che si aggiungerà quindi ad una cintura già attiva delle basi americane delle Isole Marshall, di Guam e di Okinawa, si configura come una struttura logistica indispensabile per l’operatività statunitense nei mari del sud.
Al di là delle dichiarazione di facciata – provenienti da entrambe le parti – sulla necessaria e amichevole cooperazione tra Cina e Stati Uniti, la decisione di Obama inserisce il rinnovato impegno americano in Asia nella strategia di contenimento della Repubblica popolare cinese. Da qui la promessa che qualunque riduzione della spesa militare del Pentagono, decisa per esigenze di bilancio, non riguarderà l’area del Pacifico.
D’altronde chiare, nel senso di una rinnovata pretesa egemonica, sono state le dichiarazioni del presidente democratico: “Chiuso un decennio segnato da due guerre sanguinose e costose [Iraq e Afghanistan ndr] come presidente degli Stati Uniti ho preso la decisione strategica di rilanciare il ruolo americano nell’area dell’Asia Orientale e del Pacifico. […] Gli Stati Uniti concentreranno qui i loro sforzi per ridefinire la regione e il suo futuro sulla base dei principi che gli sono propri e che sono sostenuti anche da alleati e amici” [4].
Ancora più chiaro, per chi nutrisse qualche dubbio sulle intenzioni statunitensi, è stato il segretario di Stato Hillary Clinton che, durante un discorso tenuto al think-tank East-West Center di Honolulu, ha ricordato come le sfide della regione “richiedono una leadership americana dalla sicurezza di navigazione nel Mar Cinese Meridionale agli sforzi necessari per contenere le provocazioni e le attività di proliferazione nucleare condotte dalla Corea del Nord, fino alla necessità di promuovere una crescita economica bilanciata” [5]. L’impegno di Washington è la conseguenza naturale del fatto che “è sempre più chiaro che nel Ventunesimo Secolo il centro economico strategico del mondo si trova nell’area Asia-Pacifico, dal sub continente indiano alle coste occidentali delle Americhe”.
La politica di contenimento dell’ascesa della Cina comunista non si limita al solo ambito militare, ma coinvolge pure quello economico [6]. Il summit dei ventuno paesi riuniti nell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) del 12-13 novembre ha visto infatti il rilancio in pompa magna, su iniziativa di Washington, della TPP (Trans Pacific Partenership), una zona di libero scambio che nel 2005 era limitata a Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore. Dopo il sì strappato anche ad un riluttante Giappone, la zona potrà ora contare su circa 800 milioni di consumatori e rappresentare il 40% dell’economia mondiale. Resta esclusa per il momento proprio la Cina.
Il riferimento di Obama alla ridefinizione di tutta la regione in base ai “principi” che sono “propri” degli Stati Uniti e dei loro alleati è solo l’ennesima riproposizione delle tematiche della missione di civiltà, che compete all’unica superpotenza, e della vocazione universale della “american way of life”. Da qui il monito alla Cina che con la sua ascesa “deve affrontare nuove responsabilità” e giocare “secondo le regole”. “Se Pechino lo farà, – continua Obama – riconoscendo il suo nuovo ruolo, questo sarà sì di beneficio a tutti. Tuttavia, in alcune occasioni Pechino potrebbe non giocare lealmente, e noi invieremo un chiaro messaggio ai cinesi per far comprendere loro che devono accettare le regole e assumersi le responsabilità che spettano a una grande potenza mondiale”. Chiaro no? Gli Usa, nel loro rinnovato impegno nel sud est asiatico, devono essere ancora i soli a dettare le regole ed esigerne il rispetto. In questo senso vanno le tradizionali accuse, puntualmente riprese da Obama e dal suo segretario di Stato, relative al mancato rispetto dei diritti umani in Cina e ala repressione nel Tibet. Argomentazioni che da tempo, fino alla recente aggressione alla Libia, accompagnano l’imperialismo dell’esportazione della democrazia e che a Pechino hanno prodotto sempre più dure prese di posizione. Non pare certo un caso che, proprio in questi giorni, sia sia fatto sentire il celebre dissidente cinese Ai Weiwei che ha nuovamente ricordato come il problema è la permanenza al potere del Partito comunista [7].
Ebbene, passiamo ora alle reazioni di Pechino alla decisione di Obama sulla base di Darwin e alle dichiarazioni provenienti da Washington. Già il progetto della TTP aveva spinto Pechino a denunciare la volontà americana di “dominio completo” nella regione Asia-Pacifico saltando i meccanismi collaudati dell’Apec e il processo 10+3, cioè Asean + Cina, Giappone e Corea del Sud sostenuto proprio dal governo cinese. Per lo storico quotidiano comunista la strategia a stelle e strisce è chiara: “Gli Stati Uniti stanno attualmente sviluppando una nuova strategia economica per l’Asia-Pacifico, questo al fine di dominare l’ordine economico mondiale, perché l’Asia-Pacifico è ancora il motore dello sviluppo economico nel mondo. Nonostante gli effetti della crisi finanziaria globale, le economie dell’Asia orientale hanno progressivamente recuperato nel 2010, con un certo numero di economie emergenti che hanno mantenuto il loro slancio e una forte crescita. Gli Stati Uniti sono posti di fronte al rischio di trovarsi isolati nel quadro di cooperazione regionale, perché Washington è rimasto indietro in termini di sottoscrizione di accordi di libero scambio con i paesi asiatici. Tra il 2000 e il 2009, il numero di zone di libero scambio (ALS), in Asia è aumentato da 3 a 54, con altre 78 in fase di negoziazione, ma gli Stati Uniti hanno firmato accordi di libero scambio solo con l’Australia, Singapore e Corea del Sud nella regione Asia-Pacifico” [8].
La Repubblica popolare cinese ribadisce, alla luce anche del recente Libro Bianco sullo sviluppo pacifico [9], la sua tradizionale linea diplomatica basata sul rifiuto dell’ingerenza straniera e dei tentativi egemonici. Sempre in un articolo di commento apparso su Xinhua – titolato “La regione Asia-Pacifico ha bisogno di un partner non di un leader” – si più leggere: “C’è un solo paese della regione che si augura gli Usa come leader? La risposta sarebbe probabilmente un no reticente. Ogni paese della regione Asia – Pacifico ha di conseguenza delle buone ragioni per mostrarsi sospettoso di fronte all’ambizione mostrata dagli Stati Uniti. Non sorprenderebbe nessuno se cercassero nei fatti e semplicemente di imporre la loro egemonia nella regione, in conformità con le loro aspirazioni di superpotenza mondiale” [10]. Insomma, in una situazione economica complicata e avviata dalla crisi dei subprimes negli Usa, ogni paese dovrebbe avere come priorità quella “di mettere in ordine la sua casa, prima di scegliere di aiutare il resto del mondo” perché la regione ha bisogno, in ottica multilaterale, di un “partner solido e affidabile”.
Dure, anche a livello ufficiale, sono state le reazioni alla decisione statunitense di aprire un base di marines a Darwin e di inserirsi in annose dispute territoriali. Di fronte alla nuova proiezione Usa nel Mar cinese meridionale, il premier Wen Jiabao, nel discorso pronunciato davanti ai leader dell’Asean, ha escluso la possibilità di interferenze straniere nelle controversie in atto nelle acque della regione: “Le controversie tra le nazioni dell’area proseguono da anni e dovrebbero essere risolte attraverso consultazioni e discussioni amichevoli tra i Paesi coinvolti. Le forze esterne non devono entrare nella questione, con nessun pretesto” [11]. Più smussata, ma sostanzialmente in linea, era stata la dichiarazione rilasciata dal ministro degli Esteri Liu Weimin: “Intensificare ed espandere le alleanze militari nella regione non è decisamente appropriato e può non essere nell’interesse delle nazioni di quest’area” [12]. Il quotidiano ufficiale GlobalTimes, noto per le posizioni nazionaliste, ha chiesto in un editoriale al governo comunista di prevedere ritorsioni nei confronti dei paesi della zona che accettassero la guida americana: “Ogni nazione che sceglie di essere una pedina nella partita a scacchi lanciata dagli Usa nel Mar cinese meridionale perderà l’opportunità di trarre beneficio dalla crescita economica cinese”.
A Pechino il messaggio è giunto chiaro e poco o nulla potranno modificare le ovvie dichiarazioni di amicizia e collaborazione che le due potenze reciteranno. La scelta della base a Darwin, come hanno compreso gli stessi osservatori cinesi [13], ha un forte valore simbolico: l’ultimo suo utilizzo risale ai primi giorni della seconda guerra mondiale in funzione anti-nipponica.
NOTE
1 “Pentagon battle concept has Cold War posture on China”, Washington Times online, 9 novembre 2011.
2 Vale la pena ricordare, in ambito Anzus, il sostegno militare di Australia e Nuova Zelanda, in aggiunta a quello britannico, al governo malese contro la guerriglia comunista del Malayan National Liberation Army nella guerra civile tra il 1948 e il 1960.
3 Per la conquista Usa delle Filippine e la repressione del movimento indipendentista si veda “L’invasione Usa delle Filippine”, Diego A. Bertozzi, StoriaIn Network, http://www.storiain.net/arret/num103/artic3.asp
4 Obama: “Il Pacifico è la nostra priorità”, Corriere della Sera, 18 novembre 2011
5 Clinton: “E’ il secolo dell’Oceano Pacifico”, www.agichina24.it, 14 novembre 2011
6Dal 2003 al 2008, la quota cinese nell’insieme di tutti gli scambi del Sud-Est asiatico è esplosa con un ritmo medio annuo del 26%. Un ritmo che non può essere eguagliato dagli Stati Uniti. Si veda “US, China role play for Asean”, Asian Times, www.atimes.com.
7 Ai Weiwei, Cina bloccata da partito unico, www.ansa.it, 19 novembre 2011.
8 Si veda su www.marx21.it la traduzione dell’articolo “Gli obiettivi trans Pacifico degli Stati Uniti” comparso sul Quotidiano del Popolo il 14 novembre.
9 Si veda a questo proposito “La Cina e il rifiuto dell’egemonia”, Diego A. Bertozzi su www.marx21.it
10 Xinhua, www.chinaview.cn, 17 novembre 2011.
11 “Wen: No a interferenze straniere nel Mare cinese”, www.agichina24.it, 18 novembre 2011.
12 “Obama, marines in Australia per contenere le mire cinesi”, La Stampa, 17 novembre 2011
13 Si veda “Beijing questions US military boost in Australia”, People’s Daily online, 17 novembre 2011.