di Stephen Gowans | Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova
Stephen Gowans è uno scrittore e attivista politico che vive ad Ottawa, Canada. I suoi articoli di fondo sono apparsi con regolarità su Canadian Content ed è un collaboratore assiduo di Media Monitors Network.
In passato, Gowans gestiva direttamente un proprio sito web, What’s Left in Suburbia?. Attualmente, dal febbraio 2007, Gowans ha messo in diffusione il suo lavoro su un blog dal titolo What’s Left.
per concessione di what’s left | fonte: http://gowans.wordpress.com/2011/08/28/libya-imperialism-and-the-left/ | data dell’articolo originale: 28/08/2011 | URL dell’articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=6099
Mentre nelle analisi sugli interventi imperialisti viene spesso indagato il carattere di classe dei regimi sotto assedio delle potenze occidentali, ed è spesso invocato per giustificarli, questo non spiega i veri motivi per cui le potenze imperialiste capitaliste intervengono, nemmeno si pone come giustificazione per le loro azioni.
La considerazione relativa alla spiegazione del perché gli interventi si verificano non risiede nell’orientamento politico del governo sotto assedio, nemmeno interessa le relazioni con i suoi cittadini, ma attiene agli interessi della classe dominante, di ricavare profitto nei paesi oggetto dell’intervento.
Questi, fanno buona accoglienza agli investimenti stranieri, permettono il rimpatrio dei profitti, esigono poco in termini di imposta sul reddito delle società, aprono i loro mercati, e mettono a disposizione abbondanti forniture di manodopera a basso costo e materie prime?
Oppure, impongono alte tariffe sulle importazioni, sovvenzionano la produzione nazionale, consentono le attività di imprese di proprietà statale (limitando le opportunità per le imprese straniere di proprietà privata), costringono gli investitori a trattare con partner locali, e insistono sul fatto che i lavoratori siano protetti da salari di disperazione e da condizioni di lavoro intollerabili?
Per quanto si potrebbe supporre che gli interventi imperialisti abbiano come obiettivo solo governi che operano in favore della classe operaia e contadina, questo non è il caso.
Anche regimi che promuovono gli interessi della loro borghesia nazionale, negando o limitando nel proprio paese gli interessi a scopo di lucro della classe dominante di altri paesi, sono regolarmente presi di mira per un cambio di regime, soprattutto se sono deboli militarmente o presentano sistemi politici pluralisti che offrono spazio alla destabilizzazione e ad interferenze politiche.
Per i paesi imperialisti, gli effetti prodotti da un regime locale contano nella stessa maniera: ad esempio, considerando l’espropriazione di una compagnia petrolifera di proprietà privata straniera, non importa se questa compagnia venga consegnata ad uomini d’affari locali, allo Stato, o agli impiegati della società; per i paesi imperialisti è una questione di suprema indifferenza che l’espropriazione avvenga per mano di comunisti, socialisti o nazionalisti radicali.
Che voi siate ispirati da Marx e Lenin, dal socialismo del 21 ° secolo, o dalle politiche capitaliste già messe in atto dagli Stati Uniti, Germania e Giappone a sfidare il monopolio industriale della Gran Bretagna, se state andando a mettere i bastoni fra le ruote del carro delle opportunità di fare profitti da parte di una classe capitalista di un paese imperialista, per voi saranno pasticci!
Gheddafi è stato demonizzato dal Dipartimento di Stato degli USA per le sue “politiche sempre più nazionaliste nel settore energetico”, e per aver cercato di “libianizzare” l’economia. (1)
Ha “dimostrato di essere un partner problematico per le compagnie petrolifere internazionali, spesso aumentando tasse e balzelli, e sottoponendole a continue richieste.” (2)
E la sua politica commerciale e gli investimenti esteri tutti in favore della Libia avevano creato irritazione alle banche, alle compagnie e ai grandi investitori dell’Occidente nella loro continua ricerca di cogliere le opportunità di lucrosi profitti in tutto il mondo.
Hanno la stessa probabilità di essere bersaglio di disegni imperialisti anche i rivali capitalisti, che competono per l’accesso alle opportunità di investimento e commerciali nei paesi del terzo mondo. Anche loro possono diventare gli oggetti di destabilizzazione, di guerra economica, e di accerchiamento militare.
Ciò è evidenziato da uno dei ruoli della NATO: contendere sfere di sfruttamento.
Il segretario generale dell’organizzazione Anders Fogh Rasmussen, nello spiegare perché i paesi della NATO devono spendere di più per le loro forze armate, sottolineava che: “Se non siete in grado di schierare truppe oltre i vostri confini, allora non vi sarà possibile esercitare un’influenza a livello internazionale, e quindi questo vuoto sarà riempito da potenze emergenti che non necessariamente condividono i vostri valori e il vostro modo di pensare.” (3)
Da questo si può trarre la conclusione significativa che quando si tratta di Africa e Medio Oriente, che sono probabilmente le aree del mondo a cui Rasmussen allude, la ragion d’essere dell’Alleanza è quella di sostenere il gioco dei Nord-americani e degli Europei occidentali, di escludere i Russi, i Cinesi e i Brasiliani, e di mantenere sottomessi i nativi .
Ma comunque lo si interpreti, è chiaro che il segretario generale dell’Alleanza non vuole intendere che la NATO deve essere solo un’organizzazione di mutua difesa, ma uno strumento che deve essere utilizzato dai paesi sviluppati per competere con quelli emergenti.
L’interesse e la preoccupazione per la legittimità degli interventi dei paesi della NATO, pur in riferimento al carattere di classe dei governi presi di mira, non coglie il punto. Non è il carattere di classe di un regime, né il modo in cui vengono trattati i suoi cittadini, che spiegano le ragioni per un intervento contro di esso, ma il carattere di classe dei paesi che intervengono. Questo dunque illumina se l’intervento sia legittimo o meno!
I principali paesi della NATO sono tutte società incontestabilmente di classe, in cui grandi compagnie, banche e investitori ultra-ricchi esercitano una influenza gigantesca sulle loro società.
I loro rappresentanti e i loro leali servitori occupano posizioni chiave dello Stato, anche e soprattutto quelle che determinano gli affari militari e stranieri, e i ricchi sistemi societari hanno accesso a risorse che permettono loro di esercitare pressioni sui governi, molto più energicamente di quello che possa esercitare qualsiasi altra classe o gruppo di interesse.
Di conseguenza, la politica estera di questi paesi riflette gli interessi della classe che domina questi paesi. Sarebbe oltremodo strano se non fosse così.
Comunque, le ansietà di fare profitti non si dissolvono quando amministratori delegati delle corporation, giuristi societari e banchieri vengono assegnati a posti statali chiave per la politica estera, e nemmeno quando costoro elaborano le raccomandazioni di politica estera per i governi nell’ambito di organizzazioni delegate a costruire consenso élitario, come il Council on Foreign Relations; o quando esercitano pressioni in favore di presidenti, primi ministri e segretari e ministri di gabinetto. [Il Council on Foreign Relations (Consiglio sulle relazioni estere) è un’associazione privata statunitense, composta soprattutto da uomini d’affari e leader politici che studiano i problemi globali e giocano un ruolo chiave nella definizione della politica estera degli Usa.]
Evidentemente sono necessari interventi diretti!
Dunque, per questo motivo, gli interventi degli Stati Uniti e della NATO, spacciati come umanitari per ovvie ragioni di pubbliche relazioni, in buona sostanza sono pratiche per proteggere e promuovere gli interessi della classe che domina la politica estera. Questo risulta abbastanza chiaro dalle pagine economiche dei principali quotidiani.
Nei giorni scorsi, la sezione “affari e finanza” del New York Times annunciava che “Ha inizio la corsa per accedere alle ricchezze petrolifere della Libia.”
Eric Reguly, editorialista economico per The Globe& Mail, il giornale dell’élite finanziaria del Canada, riecheggiava la questione:
“I più importanti protagonisti dell’industria petrolifera, nel frattempo, stanno sbavando per reclamare le loro vecchie concessioni e per nuove ruberie, tanto più in quanto la loro produzione di petrolio è in declino. I grandi bacini petroliferi di Ghadames e Sirte, in gran parte off-limits per le compagnie petrolifere straniere da quando il colonnello Gheddafi è salito al potere 42 anni fa, sono particolarmente attraenti. E così sono i giacimenti petroliferi della Libia in mare aperto.
Chi otterrà il premio? Il Consiglio nazionale di transizione ha già detto che premierà quei paesi che hanno bombardato le forze del colonnello Gheddafi.
‘Non abbiamo problemi con i paesi occidentali e con le compagnie italiane, francesi e britanniche,”così la Reuters ha riportato le dichiarazioni di Abdeljalil Mayouf, un portavoce della compagnia petrolifera ribelle Agogco, sottolineando che ‘Invece, possiamo avere alcuni problemi politici con la Russia, la Cina e il Brasile.’”
L’editoriale di Reguly si sviluppava secondo il titolo “Hanno bombardato e quindi mieteranno.”
Per altro, queste nazioni raccoglieranno i frutti anche in altro modo:
“Colui che sta alla testa del Consiglio nazionale di transizione, Mustafa Abdel-Jalil, esplicitamente ha promesso di premiare con contratti nella ricostruzione post-bellica dello Stato quelle nazioni, che hanno sostenuto la rivolta della Libia” (4)
Questo è il cerchio incantato dell’imperialismo aggressivo!
Miliardi di dollari vengono pompati dalle tasche dei contribuenti e riversati in quelle dei produttori di armi per costruire l’apparato bellico. La macchina da guerra viene tenuta sotto pressione, pronta contro i paesi i cui governi hanno negato o limitato le opportunità di fare profitti alle compagnie, alle banche e ai grandi investitori del paese imperialista (molti dei quali hanno interessi nella produzione di armamenti), causando gravi danni alle infrastrutture dei paesi vittima.
Vengono imposti regimi “compradori”, che spalancano le porte del loro paese alle esportazioni e agli investimenti del paese che ha messo in atto l’aggressione, e invitano questo paese prevaricante a insediare basi militari sul loro territorio. Allo stesso tempo, i nuovi regimi incanalano contratti per la ricostruzione verso il paese aggressore, per ricostruire ciò che il suo apparato bellico ha distrutto.
Così, la classe capitalista del paese aggressore fa profitti secondo tre modalità: attraverso contratti per il sistema di difesa, attraverso la ricostruzione post-bellica, attraverso nuove opportunità di investimenti ed esportazioni.
Una risoluzione pacifica della guerra civile in Libia avrebbe interrotto questo cerchio magico. C’è da meravigliarsi, allora, che Washington, Parigi e Londra abbiano ignorato tutte le proposte per una soluzione negoziata?
Potrebbe essere offerta una spiegazione alternativa. Per quanto le più importanti compagnie petrolifere e le società di ingegneria dei paesi leader della NATO trarranno profitto dalla caduta di Gheddafi, le motivazioni per l’ intervento erano tuttavia indipendenti da grossolane preoccupazioni di natura commerciale, ed invece erano essenzialmente umanitarie.
Ma se così fosse, si dovrebbe spiegare come è stato che le preoccupazioni umanitarie della NATO venivano unicamente riversate su un paese, la Libia, in cui possono ottenersi ancora opportunità di fare profitti per l’industria petrolifera occidentale, mentre la NATO non è rimasta scossa da preoccupazioni umanitarie per la situazione degli Sciiti del Bahrein, le cui proteste pacifiche sono state represse violentemente da una monarchia assoluta – con l’aiuto dei carri armati e delle truppe di tre altre monarchie assolute.
Due sono l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti; la terza che ha contribuito alla violenta repressione della rivolta del Bahrein, il Qatar, merita una menzione speciale.
Magnificata dalla stampa occidentale per il suo contributo ai ribelli libici, ai quali ha fornito armi, aerei da guerra, addestramento, riconoscimento diplomatico, e strumenti propagandistici (Al Jazeera è di proprietà dello Stato del Qatar!), questa monarchia assoluta è stata portata alle stelle come una vera amica dei “democratici” nella loro lotta contro la dittatura e la repressione.
Il New York Times faveca riferimento ad Al Jazeera come un “canale di notizie indipendente” (5), anche se non è chiaro da chi Al Jazeera sia indipendente. Il Times non ha mai, a mia conoscenza, fatto riferimento ai mezzi di informazione di proprietà statale dei paesi sotto assedio imperialista come “indipendenti”, questo aggettivo elogiativo e impossibile (tutti i media sono dipendenti, che si tratti dello Stato o di investitori privati) è riservato ai mezzi di comunicazione che hanno adottato punti di vista conformi agli interessi del consiglio di amministrazione del New York Times e dei suoi più importanti proprietari.
Il Bahrein, una società modello esemplare per gli investitori occidentali, ha già riversato a piene mani le occasioni di fare profitti sulle compagnie petrolifere occidentali. È anche sede della Quinta Flotta degli Stati Uniti. Quindi, “de facto” costituisce una zona di espansione dell’economia degli Stati Uniti, ed inoltre del territorio degli Stati Uniti, e così il suo governo può fare ciò che gli pare, fintanto che continuerà a mantenere felice Wall Street.
Bombardamenti, sanzioni, destabilizzazione e rinvii a giudizio presso la Corte Penale Internazionale sono riservati a quei governi che “aumentano tariffe e tasse” per le imprese petrolifere statunitensi e tentano di nazionalizzare le loro economie, una chiara “linea rossa” in un’epoca di imperialismo.
Secondo il punto di vista di qualche settore della sinistra, interventi imperialisti sono sopportabili fintanto che producono il rovesciamento di un regime capitalista, a prescindere dal fatto che un altro regime capitalista gli possa succedere. Naturalmente, l’esito di ogni intervento imperialista di successo contro un regime nazionalista borghese si manifesta con la sostituzione di questo regime con uno “compradore”. Ad un intervento capitalista molto difficilmente corrisponde un avanzamento.
Per ancora un altro settore della sinistra, quello che conta decisamente è il carattere del governo sotto assedio. Il carattere dello Stato che aggredisce, al contrario, non importa per nulla – non che questo Stato sia sottoposto al dominio dettato dagli interessi corporativi, delle banche e degli investitori; non il suo operato nel perseguire guerre di conquista; nemmeno il suo continuo ricorso alla falsificazione per giustificare le sue aggressioni.
Per questi “membri della sinistra”, così come sono, ad essere riprovevole è il governo preso di mira, mentre il loro modo di considerare è angelico o ben intenzionato. In questo quadro, per loro, il tentativo di Gheddafi di schiacciare una rivolta deve intendersi collocato su un piano ben più barbaro rispetto, ad esempio, alla guerra in Iraq, che ha creato una catastrofe umanitaria su una dimensione che le repressioni di Gheddafi non avrebbero mai uguagliato.
Che sorta di illusione porta a credere che gli Stati Uniti e Gran Bretagna, gli architetti di rapacità e di macellazione su scala globale, siano (a) angelici e ben intenzionati, (b) motivati nella loro politica estera da umanitarismo, e (c ) che stiano sostenendo un ruolo costruttivo in Libia?
I più pusillanimi fra quelli di sinistra sono coloro che condannano allo stesso modo i brutalizzati e i brutalizzatori. Assumono una posizione di tutta comodità, anche se moralmente vile, ma la loro condanna dei governi presi come bersaglio è non pertinente. Dato che la natura dei governi sotto assedio non ha nulla a che vedere con le ragioni dell’intervento, e interventi da parte del capitale imperialista non portano questa giustificazione, in questo contesto non può esistere che un’unica ragione per fare la scelta di condannare la vittima di questa aggressione e parimenti l’aggressore: il desiderio di rispettabilità e un’inclinazione ad adeguarsi all’opinione pubblica corrente, non contestandola e non offrendo una analisi alternativa, anti-egemonica.
Supponete di avere come vicina della porta accanto una donna dalle cattive maniere, completamente antipatica, che è riuscita ad allontanare tutti quelli che conoscete. Un giorno, il marito la picchia. Voi condannate il marito che picchia la moglie, e non dite nulla del carattere di questa donna. Perché dovreste fare così? Sottolineare il carattere della donna non scusa il comportamento del marito. Oppure, potreste condannare entrambi ugualmente, facendo notare quanto sia deplorevole chi picchia la moglie, ma stigmatizzate anche la vittima per le sue cattive maniere e i suoi modi fastidiosi. Questo secondo agire è insostenibile, e chi si comporta così dovrebbe giustamente essere rimproverato.
Tuttavia, questi che stanno seduti nel recinto della sinistra fanno lo stesso quando insistono nel condannare i governi dei paesi aggrediti dai paesi imperialisti capitalisti, per dimostrare che loro non appoggiano i crimini per cui vengono accusati quei governi.
Peggio ancora, si rifiutano di indagare sulla veridicità delle accuse, per poi perfino contestare se queste accuse non reggono ad un esame obiettivo, per paura di essere denunciati come apologeti. Invece, costoro molto semplicemente accettano come vere le accuse, anche se accuse simili contro altre vittime in occasioni simili si sono dimostrate pure e semplici invenzioni (le armi di distruzione di massa dell’Iraq, per esempio.)
Questa è apologia di un altro tipo, in nome della classe che controlla il recinto dove stanno tranquilli questi di sinistra. E lì vengono tenuti su un terreno sicuro. In seguito, costoro potranno affermare, come hanno fatto in tanti in concomitanza con la truffa delle armi di distruzione di massa degli Iracheni: “Non sapevamo. Sono sconvolto, sconvolto!, che il governo ci abbia ingannato.”
Tuttavia, l’analogia suggerisce che gli interventi avvengono solo nei paesi in cui i governi si comportano in modo riprovevole, e questo non è il caso.
Certo, l’impressione prodotta dagli assalti della propaganda che accompagnano gli interventi è che quei regimi presi di mira sono assolutamente detestabili e, di conseguenza, la loro scomparsa è da desiderarsi, anche se l’intervento prodotto è stato scatenato per ragioni sbagliate.
E dagli appartenenti alla sinistra, se costoro vogliono essere accettati alla corte dell’opinione corrente dei “rispettabili”, ci si aspetta la genuflessione davanti alla raffigurazione come criminali dei paesi fatti segno dell’aggressione, per tema di essere accusati di essere apologeti di dittatori, o utili idioti. Ma succede a volte che i crimini di cui sono accusati i regimi colpiti non esistono assolutamente, o si tratta di azioni sconsiderate non pesanti, nel peggiore dei casi.
La narrazione per spiegare la necessità di un intervento in Libia è che una rivolta pacifica di Libici fautori della democrazia contro la dittatura di Gheddafi stava sul punto di essere schiacciata nel sangue. Una narrazione che naviga più vicino alla verità è che l’insurrezione, scatenata dagli eventi che si stavano succedendo in Tunisia e in Egitto, traeva le sue origini dalla frattura in corso da lunga data tra un governo laico, nazionalista, da un lato, e Islamisti e elementi “compradori” dall’altro. Anche se questo non spiega del tutto la rivolta, spiega una buona parte delle sue cause.
La repressione delle forze reazionarie che minacciano lo Stato è un crimine? Se sei un Libico islamista, monarchico o un esule mantenuto dalla CIA, la risposta è “sì”, così come è “sì”, se sei un ideologo di questo particolare intervento imperialista. Ma se siete Gheddafi, e i suoi sostenitori laici e nazionalisti, la risposta è “no”.
È significativo il fatto che poche persone stiano lanciando seri appelli alla NATO perché l’Alleanza organizzi un’operazione a protezione dei civili del Bahrein dalla repressione violenta di una monarchia assoluta. Per quanto molto del giro di vite del regime di Khalifa contro i manifestanti del Bahrein sia considerato criminale, non è un crimine di dimensione abbastanza grande da giustificare un intervento della NATO.
Infatti, è difficile concepire una qualche giustificazione per un intervento NATO, poiché i paesi della NATO sono solo buoni a impegnarsi in interventi come investimenti.
Ci deve essere una promessa di una ricompensa lucrativa per una élite di padroni capitalisti, perché l’investimento in costi di sangue e di denaro possa essere giustificato: concessioni petrolifere libere da imposizioni e tasse che riducono i profitti; nuove opportunità di investimenti ed esportazioni; contratti per la ricostruzione. L’umanitarismo non deve costituire il punto essenziale.
Ma ammettiamo pure per il momento, ed è ingenuo il farlo, che la NATO decida di intervenire per ragioni di altruismo: questo è tanto possibile quanto il leone accucciato con l’agnello.
Perché dovremmo invocare un intervento contro Gheddafi, ma non contro Khalifa? Le ragioni per cui banchieri, imprese e grandi investitori dominano la politica estera dei paesi della NATO dovrebbero rendere lampante tutto ciò. Che appartenenti alla sinistra agiscano nello stesso modo, fa sorgere l’immediata domanda su cosa si intende per “sinistra”.
Diana Johnstone e Jean Bricmont hanno accusato settori importanti della sinistra europea per non essersi opposti con forza all’intervento della NATO nella guerra civile della Libia, e in molti casi di averla sostenuta. (6) Ma questo è come biasimare le pecore perché pascolano sull’erba. Mentre, purtroppo, non vi è nulla di strano o senza precedenti, che persone che si considerano parte della sinistra politica, anche socialisti, vadano a schierarsi con le eruzioni imperialiste del loro governo.
Questo è accaduto almeno a partire dalla Prima guerra mondiale.
Lenin ha offerto una spiegazione – e che si trovi la sua spiegazione convincente o no, il fenomeno che si è proposto di spiegare non si può negare. Un settore della sinistra regolarmente si mette al fianco del proprio governo imperialista, mentre un altro settore trova il modo di sottilmente appoggiarlo, mentre professa opposizione.
L’unico settore della sinistra occidentale, con una o due eccezioni, che può essere considerato affidabile per una effettiva opposizione all’imperialismo, e in possesso di un qualche tipo di consapevolezza evoluta e sofisticata su questo, sono i Leninisti.
Max Elbaum puntualizza questo fenomeno nel suo libro sul Nuovo Movimento Comunista degli anni ’60, “Revolution in the Air”.
Egli scrive: “Gli attivisti degli ultimi anni sessanta hanno sentito un forte legame politico ed emozionale con l’ala leninista del movimento socialista. Durante la Prima guerra mondiale, quest’ala rompeva decisamente ‘con quei socialisti che avevano sostenuto la guerra, o almeno avevano fatto poco o nulla per opporvisi’.
Gli attivisti erano attratti dal leninismo perché, come i primi seguaci di Lenin, ‘anche loro avevano trascorso anni in lotte frustranti con le forze più autorevoli della sinistra che si erano trascinate stancamente, o peggio, nella campagna contro la guerra’.”
Elbaum attribuisce il rifiuto del socialismo democratico ad opporsi con vigore alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam al sostegno che la costruzione del Nuovo Movimento Comunista riceveva.
“Anche se i socialisti democratici di oggi non parlano molto di questo”, scrive Elbaum, “i socialdemocratici degli Stati Uniti hanno avuto un ruolo di freno o addirittura trainante all’indietro nel movimento contro la guerra del Vietnam.”
L’affiliato ufficiale degli Stati Uniti all’Internazionale Socialista, il Partito Socialista, “in realtà sosteneva il conflitto” ed “era quasi del tutto assente dalle attività contro la guerra.”
Il direttore di Dissent, Irving Howe, tra i più influenti socialdemocratici degli Stati Uniti, “a lungo si oppose alla richiesta di immediato ritiro dal Vietnam.”
Michael Harrington, forse il più noto fra i socialdemocratici degli Stati Uniti, mai ha pronunciato senza mezzi termini una denuncia della guerra. Secondo il suo sodale biografo, Maurice Isserman, Harrington faceva riferimento alla guerra come una forza della natura piuttosto che un prodotto dell’azione umana (una tragedia, come un uragano o un terremoto, piuttosto che uno strumento dell’imperialismo statunitense), per paura di alienarsi “i suoi compagni politici più stretti e di lunga data, che sostenevano il massacro …” Harrington considerava i suoi compagni socialdemocratici favorevoli alla guerra non come collaborazionisti reazionari ed arretrati ma come “buoni socialisti con i quali egli differiva solo su questioni marginali.” (7)
A livello internazionale, i socialisti democratici hanno agito in modo da provocare disgusto.
“I socialisti francesi, mentre stavano al governo hanno condotto la guerra coloniale in Algeria, completa di torture. Il governo del partito laburista in Gran Bretagna, guidato da Harold Wilson, ha sostenuto la politica americana in Vietnam, nonostante le sue perplessità.” E “i socialdemocratici in tutto il mondo sono stati tra i sostenitori del sionismo e gli oppositori più accesi dell’autodeterminazione palestinese.”
Musica familiare?!
Alla fine degli anni sessanta, scrive Elbaum, “sembrava del tutto naturale identificarsi con la tendenza che aveva combattuto contro simili arretratezze dei socialdemocratici durante il precedente bagno di sangue imperialista.”
Ed ora, ancor di più nel 2011!
Note:
1. Steven Mufson, “Conflict in Libya: U.S. oil companies sit on sidelines as Gaddafi maintains hold – Conflitto in Libia: le compagnie petrolifere statunitensi siedono in panchina, come Gheddafi le vuole mantenere”, The Washington Post, 10 giugno 2011.
2. Clifford Kraus, “The scramble for access to Libya’s oil wealth begins – Ha inizio la corsa per l’accesso alle ricchezze petrolifere della Libia”, The New York Times, 22 agosto 2011.
3. Stephen Fidler e Alistair MacDonald, “Europeans retreat on defense spendine – Gli Europei riducono le spese per la difesa”, The Wall Street Journal, 24 agosto 2011.
4. Steven Lee Myers e Dan Bilefsky, “U.N. releases $1.5 billion in frozen Qaddafi assets to aid rebuilding of Libya – L’ONU autorizza la distribuzione di 1,5 miliardi di dollari dei beni congelati a Gheddafi per aiutare la ricostruzione della Libia”, The New York Times, 25 agosto 2011.
5. David D. Kirkpatrick e Kareem Fahim, “Inside a Libyan hospital, proof of a revolt’s costs – All’interno di un ospedale libico, la prova dei costi di una insurrezione”, The New York Times, 25 agosto 2011.
6. Jean Bricmont e Diana Johnstone, “Who will save Libya from its Western saviours? – Chi salverà la Libia dai suoi salvatori occidentali?” www.counterpunch.org, 16 agosto 2011.
7. Max Elbaum, Revolution in the Air: Sixties Radicals turn to Lenin, Mao and Che – Rivoluzione nell’aria: i radicali degli anni sessanta si rivolgono a Lenin, Mao e al Che, Verso, 2006, p. 46