La ricerca del potere egemonico nell’epoca della lotta antimperialista

usa bandiera campodi José Reinaldo Carvalho*
da vermelho.org.br | Traduzione di Marx21.it

Di fronte alle numerose critiche di contenuto antimperialista che faccio alla politica estera statunitense, mi si domanda se le recenti manovre della diplomazia di Obama – lo stabilimento di relazioni diplomatiche con Cuba e l’accordo nucleare con l’Iran – hanno assunto il significato di un cambiamento essenziale, un punto divergente dalla curva o solo mera tattica ingannatrice.

Né una cosa né l’altra. Sono fatti di reale impatto, che possono essere compresi solo nel contesto dell’evoluzione storica della politica estera nordamericana, almeno a partire dal periodo di George W. Bush e nel quadro peculiare e complesso dell’attuale congiuntura internazionale in cui opera il governo di Barack Obama, nel suo periodo finale.

Ricordiamo tutti che cosa successe non molto tempo fa. L’11 settembre 2001, un gruppo formato da 19 terroristi compì un attentato di inaudite dimensioni offrendo all’imperialismo nordamericano il pretesto che mancava per assumere un orientamento ancora più reazionario nella politica estera degli Stati Uniti, rendendola più conservatrice e aggressiva.

La scena dell’aeroplano che si scaglia contro i simboli del potere finanziario e militare, a New York e Washington, ancora oggi è il riferimento delle discussioni in merito alle politiche di intervento statunitense negli affari mondiali. Tali dibattiti tendono ora a intensificarsi, nel periodo delle primarie elettorali dei partiti Democratico e Repubblicano.

Ormai viviamo in mondo insicuro, pericoloso e instabile, con un aggravamento a partire da quel malaugurato evento.

Con il pretesto di dare la caccia a Osama Bin Laden, il suo antico alleato durante la guerra antisovietica in Afghanistan, la superpotenza imperialista scatenò, il 7 ottobre 2001, l’operazione denominata “Libertà Duratura”. In quell’occasione il Partito Comunista del Brasile diffuse un documento affermando che l’azione rappresentava, in verità l’apertura di una fase di “orrore infinito”.

In quel momento, gli Stati Uniti esibivano una forza politica e militare che sembrava invincibile. Per opportunismo o convinzione e grazie all’impatto emozionale provocato dagli attentati, gli americani hanno potuto contare all’inizio sulla solidarietà di altre potenze e diversi altri paesi, con la formazione di un’ampia coalizione internazionale, con l’appoggio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Apparentemente, si presentavano le condizioni per lo scontro congiunto del “terrorismo internazionale”, sotto la guida statunitense. Tale lotta fu condotta per mezzo del terrorismo di Stato.

Un’altra data, associata al fatidico giorno, merita di essere ricordata, il 20 settembre. In quel giorno, la superpotenza annunciò al mondo la radicalizzazione della sua politica estera, che sarebbe stata posteriormente sistematizzata nel corpo di idee e concetti denominato “dottrina Bush”.

Parlando dalla sede del Campidoglio, il presidente esortò il mondo a creare la “coalizione anti-terrorista”, divise le forze mondiali in termini manichei – “chi non sta con noi è contro di noi” -, minacciò di punire “nazioni ostili”, come preludio di ciò che pochi mesi dopo avrebbe preso il nome di “Stati canaglia”, che formavano l’ “asse del male”, e minacciò di usare le armi di cui disponeva nel suo poderoso e sofisticato arsenale.

“La nostra guerra contro il terrore comincia da Al Qaeda ma non finisce lì”, esclamò allora Bush. “Non terminerà fino a quando tutti i gruppi terroristi di portata globale saranno intercettati, colpiti e vinti (…) Come lotteremo e vinceremo questa guerra? Dedicheremo tutte le risorse in nostro possesso – tutti i mezzi della diplomazia, tutti gli strumenti dell’intelligence, tutti gli strumenti a disposizione per l’adempimento della legge, tutta l’influenza finanziaria e tutte le armi necessarie della guerra (…) Gli statunitensi non devono aspettarsi una battaglia, ma una campagna lunga, diversa da qualunque altra abbiano visto. Probabilmente, comprenderà attacchi drammatici, che possono essere visti alla televisione, e operazioni sotto copertura, che rimarranno segrete anche dopo il loro successo (…) Perseguiremo le nazioni che aiutino o coprano il terrorismo. Ogni nazione, in ogni regione del mondo, ora deve prendere una decisione. O sta dalla nostra parte, o dalla parte dei terroristi. A partire da oggi, ogni nazione che continui ad ospitare o ad appoggiare il terrorismo sarà considerata regime ostile dagli Stati Uniti”, minacciò.

Questo pronunciamento di George Bush del 20 settembre 2001 è il documento fondante del “nuovo ordine”, la proclamazione dei mezzi e dei modi per raggiungere il preteso “nuovo secolo americano”. Segnava un cambiamento di fase nelle relazioni degli Stati Uniti con il resto del mondo e nell’esercizio dell’egemonia nordamericana. Si apriva un nuovo periodo, che le forze antimperialiste nel mondo hanno definito di tirannia globale, espressione usata dall’allora presidente cubano Fidel Castro, un periodo di uso indiscriminato della forza bruta, di disprezzo per la legalità internazionale e per le istituzioni multilaterali. Si apriva una fase di intensa militarizzazione delle relazioni internazionali e di decisioni di forza.

Inebriato dall’uso della forza, sentendosi all’auge del potere – George W. Bush arrivava ad affermare  che prima della guerra “conversava con Dio” -, l’imperialismo statunitense scatenava la guerra contro l’Iraq. Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti e il Regno Unito bombardavano e invadevano il paese arabo, sostenendo che il regime di Saddam Hussein stava producendo armi di distruzione di massa. Fu un’azione unilaterale, senza l’autorizzazione dell’ONU, i cui ispettori, non avevano trovato prove incriminanti. Nel 2004, operando sul terreno come autorità di occupazione, i governi di Stati Uniti e Regno Unito riconoscevano la non esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq.

Non rendiamo conto qui degli eventi dell’epoca testimonianti i preparativi della guerra contro l’Iraq. In due libri (1), che raccolgono testi miei e del sociologo Lejeune Mato Grosso, sono fornite argomentazioni sulla dottrina Bush e riportati cronologicamente quegli sfrontati preparativi, durante i 18 mesi trascorsi tra gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’inizio della guerra contro Baghdad. Ciò che voglio far risaltare in questo articolo è il fatto che all’epoca ci trovavamo di fronte a una specie di tour de force tra la democrazia e la guerra, in contrasto con l’ONU, il sistema multilaterale e il diritto internazionale, la cui assenza fu decretata dalla pratica.

La guerra in Iraq subì una forte contestazione. Milioni di persone in tutto il mondo scesero nelle strade con un veemente appello alla pace. All’interno degli stessi Stati Uniti, la guerra in Iraq non raccolse consenso. L’allora senatore democratico Ted Kennedy disse che si trattava di una guerra scelta, e non necessaria, con un abuso grossolano delle informazioni dell’intelligence e un’arrogante mancanza di rispetto nei confronti delle Nazioni Unite. Bush e la linea dura neoconservatrice non hanno esitato ad esagerare e manipolare i dati sulle armi di distruzione di massa. Hanno inventato immagini come quella di un fungo gigante sopra gli Stati Uniti e i legami inesistenti di Saddam Hussein con Al Qaeda, affermò il senatore. Altre potenze, come Francia, Russia e Cina contestarono l’aggressione americana, senza comunque che alcuna iniziativa concreta la impedisse.

Esattamente come in altre fasi dell’esercizio della politica estera aggressiva  americana – sotto Theodore Roosevelt, all’inizio del 20° secolo, Truman, nell’immediato dopoguerra, Nixon (agli inizi del decennio 1970), Reagan (1980), Bush padre, tra la fine del 1980 e gli inizi del decennio 1990 -, l’enunciato con cui si cerca di giustificare l’azione internazionale della superpotenza è il contenimento di nemici esterni e la garanzia della democrazia, dei diritti umani, dell’economia di mercato in tutto il mondo e la salvaguardia degli interessi nazionali degli Stati Uniti. Da allora e fino ad oggi, multilateralismo, legittimità, equilibrio di potere e diritto internazionale, nella retorica statunitense, esistono solo come contraffazione o discorso ingenuo.

La natura della politica estera degli Stati Uniti, che trova la sua espressione più aggressiva nell’orientamento dei neoconservatori, ma anche nei cosiddetti settori centristi del Partito Repubblicano e nella maggioranza del Partito Democratico, corrisponde all’obiettivo della superpotenza di instaurare un’egemonia ampia, legata agli interessi dell’economia nordamericana, in evidente declino. I suoi teorici sono convinti che gli Stati Uniti hanno il dovere di proclamare il loro dominio, affermare la loro egemonia, abbastanza contrastata e in crisi, ricorrendo a tutti i mezzi a loro disposizione, tra i quali la guerra di aggressione, la militarizzazione del mondo e la minaccia nucleare.

La politica della forza e l’aggressività che gli Stati Uniti promuovono nel loro agire internazionale suscita non solo dibattiti, ma molta inquietudine e insicurezza tra gli altri attori della politica internazionale, sulle strade che essi intendono imboccare e sul mondo che aspetta l’umanità nel corso del 21° secolo.

La politica bellicista di George W. Bush fu elettoralmente sconfitta nel 2008. Barack Obama governa già da due mandati con molte promesse di ristabilimento della pace, ma non ha operato un cambiamento di fondo nelle linee guida dell’intervento esterno. Il ritiro delle truppe di occupazione dall’Iraq e dall’Afghanistan si configura più come una sconfitta che come una scelta pacifista. Obama ha governato con il motto dell’impegno ad assicurare la leadership nordamericana nel sistema internazionale, ha cercato di rifondare l’ordine mondiale a partire dagli interessi nazionali e globali dell’imperialismo statunitense. La differenza fondamentale è oggettiva non soggettiva. E’ necessario adattarsi a una nuova realtà in cui l’unipolarismo si è trasformato in fenomeno del passato. La grande domanda che inquieta l’establishment americano è il che fare per sopravvivere come potenza egemonica in una situazione in cui emergono nuove potenze e si sta vivendo una transizione in cui emerge il declino degli USA.

E’ ciò che spinge una figura come Henry Kissinger a pubblicare un’opera (2), in cui cerca il filo che lega legittimità e potere, supremazia americana ed equilibrio delle forze, sotto l’involucro di una ambiguità ideologica ed etica tra idealismo e realismo. Fa professione di fede nei valori sovranisti della Pace di Westfalia (3), arriva anche a mostrare le ambiguità della potenza americana, ma giustifica nell’essenziale tutti i golpe e le guerre scatenate dagli Stati Uniti da quando emersero come potenza mondiale all’inizio del 20° secolo.

Tutto ciò che accade dimostra che l’ambiente politico in cui si formano le relazioni internazionali attualmente continua ad essere caratterizzato da tensioni e conflitti. Il principale vettore del quadro politico mondiale, che ha come sfondo la profonda crisi del sistema capitalista, è la coinvolgente e brutale offensiva degli Stati Uniti per imporre la loro egemonia, il che costa un prezzo elevato ai popoli e ai paesi che accidentalmente si trovano ad essere bersaglio di questa offensiva.

Nell’insieme del Medio Oriente e del Nord Africa, l’imperialismo statunitense ha approfittato della cosiddetta primavera araba per portare avanti antichi piani di riconfigurazione della regione conformemente ai propri interessi. La guerra contro la Libia e le minacce di intervento in Siria lo dimostrano. La militarizzazione si espande, con il nuovo concetto strategico della NATO, la Quarta Flotta in America Latina, l’Africom, nel continente africano, la disputa per il controllo dell’Oceano Indiano e la proliferazione di basi militari.

In questo quadro, è una forzatura presentare come multilateralismo e multipolarismo l’esistenza di un consorzio di potenze che agiscono di concerto tra loro per dividersi il dominio del mondo e la spoliazione dei popoli. In questi termini, la guerra contro la Libia è considerata come un’espressione del multilateralismo, in quanto fatta dalla “comunità internazionale”, sotto la supervisione dell’ONU. La guerra contro la Libia, con o senza l’avallo dell’ONU e il silenzio complice della “comunità internazionale”, è modellata sul medesimo cliché delle politiche aggressive dell’imperialismo.

Il multilateralismo e il multipolarismo, per essere utili ai popoli, dovrebbero essere inseriti nell’ambito della strategia e della tattica della lotta antimperialista, e non subordinati a una logica di accomodamento, adattamento e capitolazione all’ordine vigente.

Oggi non è così difficile osservare, trascorso ormai quasi tutto il mandato di Obama, che nell’essenziale, gli interessi di Stato e strategici dell’imperialismo nordamericano permangono e il margine di variazione della politica estera è minimo, con i repubblicani o i democratici alla guida della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato.

Sotto Obama, sembra esserci una specie di sintesi tra le posizioni più centriste dei due partiti, principalmente dopo che la destra più retrograda e conservatrice ha presentato le sue armi nella campagna elettorale del 2008.

Si persegue una politica che possa sembrare accettabile, un preteso “imperialismo benigno”. Oggi l’establishment nordamericano tende a una candidatura democratica più incline al conservatorismo o una repubblicana che inclini verso il centro. E’ ciò che sarà in gioco nelle prossime elezioni presidenziali negli USA.

La politica che prevarrà e il mondo in cui l’umanità vivrà non risulteranno solo dalle scelte degli Stati Uniti. Siccome la politica internazionale è sempre una relazione di potere sui piani nazionale e globale, le stesse scelte americane saranno condizionate dall’evoluzione della realtà oggettiva, evoluzione che, a sua volta, è legata tanto al potere nordamericano quanto a quello di altre potenze e all’evoluzione della lotta politica dei popoli.

Lo scenario attuale è quello della competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. Gli Stati Uniti, davanti alle proprie difficoltà economiche strutturali, di fronte all’emergere di aree economiche, geopolitiche e finanziarie che minacciano il loro primato, optano per la forza, tentano di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono estremamente più forti e in economia cercano di invertire una tendenza oggettiva.

Un fattore nuovo appare nell’evoluzione del quadro mondiale. Sebbene ancora il periodo sia di difesa strategica, risorgono le lotte antimperialiste e per un nuovo ordine mondiale.

Se è vero che emergono nuovi poli economici e di potere politico, come fenomeno oggettivo e tendenza inesorabile, ciò non significa che avverrà spontaneamente la democratizzazione delle relazioni internazionali.

La prospettiva dell’aggravamento delle tensioni e rivalità si accentua se osserviamo il comportamento di altri grandi attori della scena internazionale e l’evoluzione degli eventi.

La Cina proclama il suo impegno per la pace, la coesistenza pacifica e la cooperazione internazionale. Ma indipendentemente da volontà e proclami, il suo vertiginoso emergere allo status di potenza economica, militare e nucleare, insieme all’aumento della sua influenza politica e diplomatica, fa oggettivamente in modo che sia considerata, in prospettiva, come rivale strategico degli Stati Uniti.

Quanto alla Russia, in evidente recupero del suo potere nazionale, manifesta anch’essa tratti di rivalità, manifestando dure reazioni all’espansionismo statunitense e occidentale faccia a faccia nell’Europa Orientale.

L’esame di altri fatti in corso e anche di altre tendenze che si delineano ci mostrano elementi di conflitto nello scenario internazionale. Il secondo mandato presidenziale di Bush aveva come compito prioritario il piano di “ristrutturazione del Medio Oriente”. Costruire un “Medio Oriente americano”, con regimi docili e la distruzione dei nemici degli USA, è stato l’obiettivo perseguito. Per quanto ironico possa apparire, Obama e i suoi alleati europei della NATO sono quelli che stanno portando avanti questi piani, come dimostra il comportamento della politica estera e militare di queste potenze alla luce degli eventi nella regione e nel Nord Africa a partire dal dicembre 2010, la cui maggiore espressione fino a questo momento è stata la guerra contro la Libia.

E’ in formazione un nuovo scenario politico internazionale, con l’accumulazione di fattori di conflitto nazionali e sociali, scenario rivelatore del sorgere di nuove tendenze storiche. In tale quadro, è difficile, se non impossibile, procedere ad un’analisi univoca e arrivare a conclusioni definitive in quanto al senso in cui evolverà la situazione internazionale. Essendo una fase di transizione, sembrerebbe trattarsi di una transizione conflittuale, in cui il governo globale e condiviso, fondatore di un’ordine di pace e armonia è, in un orizzonte visibile, mera speculazione e persino una chimera. Come è pure illusorio depositare le speranze di pace sull’intesa tra le grandi potenze.

La crisi del capitalismo, con le sue conseguenze di aggravamento delle condizioni di vita delle masse popolari, l’intensificazione dell’aggressività dell’imperialismo e l’aumento del pericolo di guerra esigono risposte energiche dei popoli e delle forze progressiste e rivoluzionarie. Come mai prima d’ora la lotta antimperialista si trova all’ordine del giorno, il che richiede coscienza, mobilitazione e organizzazione dei popoli.

Le flessibilità nel comportamento statunitense in merito a Cuba e all’Iran è una vittoria democratiche e della lotta per la sovranità dei due paesi, la dimostrazione del valore della resistenza. Trova spiegazione non nel mutamento della natura e del carattere della politica estera statunitense. E’ una battuta d’arresto che gli Stati Uniti sono stati obbligati a compiere, senza rinunciare ai loro obiettivi permanenti.

Note:

1-Conflitos internacionais num mundo globalizado
José Reinaldo Carvalho e Lejeune Mato Grosso, 2003, Alfa Ômega, São Paulo e A Luta anti-imperialista x hegemonia americana, 2004, Alfa Ômega, São Paulo.

2– A Nova Ordem
Henry Kissinger, 2015, Objetiva, Rio de Janeiro

3 – Em 1648, põe fim à Guerra dos Trinta Anos e estabelece o princípio da coexistência entre os Estados nacionais soberanos. 

*José Reinaldo Carvalho è segretario internazionale del Partito Comunista del Brasile (PCdoB) e editor del blog Resistencia