La pace conviene. Chi pagherà i costi della guerra? Editoriale

Francesco Galofaro, Università di Torino

Di solito nei sondaggi vince il partito dei valori, mentre nelle urne vince quello del portafogli. Per questo motivo mi sembra che l’argomento più efficace per riportare al senno perduto chi fosse caduto preda della propaganda bellica sia porre la domanda: chi paga tutto questo? E per quanto tempo? E siamo sicuri di avere abbastanza risorse?

Ho una macchina che va a metano. In dicembre, un kg di metano costava circa un euro; il pieno ne costava 17 e potevo percorrere 500 km: spendevo un euro ogni 30 km. In gennaio, il prezzo ha toccato i 2 euro al kg; il pieno è arrivato a 32 euro. Oggi siamo a 2,3 – 2,6 euro al kg. Per fare 500 km se ne vanno più di 50 euro. Spendo un euro per 10 km. Non ho fatto altri calcoli, ma anche chi va a benzina o diesel oggi si chiede se sarà possibile reggere questi e ulteriori aumenti e se dovremo ridurre drasticamente i nostri spostamenti.

Leggo che l’aumento del prezzo dell’energia ha conseguenze drammatiche sull’inflazione. Ecco i dati: dicembre 3,9%; gennaio 4,8%, febbraio, 5,7%. L’aumento si deve in parte al prezzo dell’energia: 38.6% in gennaio, 45,9% in febbraio. Il resto riguarda i generi alimentari. L’aumento dei prezzi si sta mangiando il “rimbalzo” della crescita del PIL dopo la drammatica crisi del COVID, che si è attestata al 6.6% nel 2021. La ripresa che ha alimentato le speranze di quanti hanno dovuto chiudere o ridurre le proprie attività e sperare nei sussidi sta svanendo nel nulla. I prezzi salgono, gli stipendi non crescono, i consumi si riducono.

Il punto è che siamo in guerra. Certo, non inviamo uomini in Ucraina, ma abbiamo deciso di mandare le nostre armi. Non abbiamo scelto una posizione neutrale, volta a mediare tra i due contendenti; abbiamo scelto di sostenere una delle due parti anche a costo di prolungare il conflitto e il suo costo in vite umane. Pertanto, come accade in ogni guerra, stiamo ristrutturando la nostra economia. L’Unione europea ha amputato attività, scambi commerciali e culturali con la Russia anche quando questo va a nostro svantaggio: questo è il prezzo che la nostra leadership ha deciso di farci pagare. Bisogna dire che questa decisione non è priva di effetti perversi: poiché il prezzo del gas è aumentato in pochi mesi di un ordine di grandezza, sfondando i 200 euro al megawattora, è chiaro che non stiamo pagando solo i fucili ucraini, ma anche i carri armati russi. 

I nostri governi hanno indossato l’elmetto e hanno deciso per il conflitto “costi quel che costi”. Draghi e il PD, guidano il gruppo dei guerrafondai. Con il “decreto Ucraina” hanno portato la spesa militare dall’1,4 al 2% del PIL, e hanno tagliato la cooperazione allo 0,22%, il minimo storico. Al movimento 5 stelle che annuncia di non voler aumentare le spese militari Debora Serracchiani replica: non bisogna disturbare il Governo. Ma chi paga questo prezzo? In primo luogo, il temuto spread dei BTP a 10 anni sui Bund tedeschi è passato in sei mesi da 100 a 160 punti, con picchi di 180 punti. Dunque, in Europa non tutte le nazioni pagano il prezzo della guerra allo stesso modo. Inoltre, il governo non ha fatto nulla per evitare il rincaro dei carburanti, dei generi alimentari e della vita. Il taglio di 25 centesimi delle accise sui carburanti non solo fatica ad affermarsi, ma rischia di venire vanificato dall’aumento del prezzo del Brent (oltre 118 dollari al barile il 21 marzo). Secondo il ministro Cingolani, gli aumenti sono in gran parte dovuti a storture nel mercato europeo dell’energia, monopolizzato da due grandi hub del gas, e a speculazioni che non è possibile correggere se non in sede europea – auguri … Il ministro se la prende coi governi precedenti, che non hanno differenziato le fonti energetiche e non hanno effettuato nuovi sondaggi e trivellazioni per assicurarsi il gas nazionale, meno caro. Peccato che a sostenere il suo governo ci siano tutte le forze politiche che in passato hanno fatto queste scelte. Infine, Cingolani prevede di affrancarsi dal gas russo … in 3 anni! Posto che anch’io, come lui, spero che la guerra termini presto, è chiaro che l’affermazione di Cingolani equivale a dire che non siamo in grado di far fronte alla crisi e che possiamo solo subire le conseguenze del conflitto. Quello che vediamo oggi è il principio di una crisi senza termine. Ce ne accorgeremo, probabilmente, il prossimo novembre.

La nostra economia va dunque verso un periodo di transizione che ci porterà ad importare gas più caro da Paesi come gli Stati uniti, oltre che una parte della sovrapproduzione di merci di quel sistema produttivo arrugginito, dato che produrre qui una serie di prodotti diverrà troppo caro. Si tratta di un processo di ristrutturazione economica che coinvolgerà tutta l’Unione, destinata a un ruolo sempre più subalterno agli USA. Per questo Biden ha tutto da guadagnare nel trasformare l’Ucraina in un pantano in cui far affondare non tanto i russi, quanto l’Unione europea. Invece di cercare soluzioni internazionali condivise, Blinken spara sui possibili pontieri tra Russia e Ucraina, minacciando tutti i giorni la Cina. Quest’ultima avrebbe tutto l’interesse nel favorire la pace, dato che la nuova via della seta ferroviaria transita proprio per l’Ucraina, e proprio per questo gli USA la attaccano.

Ora mi arrischio a dire una cosa controintuitiva, che suona vecchia e inefficace: la ristrutturazione dell’economia europea in funzione di quella USA rivela chiaramente il carattere imperialista del conflitto tra NATO e Russia (l’Ucraina è considerata, purtroppo, soltanto una scacchiera). Bisogna che provi a spiegarmi, prima che mi si accusi di essere ciecamente ideologico. Di solito, quando pensiamo all’imperialismo la prima cosa che viene in mente è il Vietnam. Ma non bisogna scambiare il fenomeno – la guerra – con le sue cause strutturali – l’imperialismo. Questo è a propria volta causato dalla caduta tendenziale del rapporto tra capitali investiti e profitti: occorre investire sempre più capitale per assicurarsi gli stessi profitti. Questo porta i grandi oligopoli (multi)nazionali a cercare di assicurarsi il controllo delle risorse energetiche e delle materie prime, e a ristrutturare l’economia di intere regioni del globo perché assorbano le proprie merci (e non quelle della concorrenza). Da questo punto di vista il conflitto attuale ricorda purtroppo le due guerre mondiali del XX secolo: una fazione della borghesia occidentale, filoamericana, liberale, cosmopolita, applaude alla guerra sperando di ricavarne il controllo del commercio delle materie prime e delle fonti energetiche e di riplasmare a proprio vantaggio il complesso industriale dell’Europa. Questa fazione lucra sulla minaccia militare rappresentata dalla NATO e lavora contro ogni ipotesi di riduzione degli armamenti. Questa fazione guerrafondaia è oggi al potere anche in Italia e ha tutto l’interesse nel fomentare la guerra, favorire l’escalation, vendere armi, ristrutturare i rapporti internazionali isolando la Russia e, di riflesso, anche la Cina, rendendo sempre più difficile l’ipotesi diplomatica e facendo pagare il prezzo ai lavoratori, alle famiglie e alle piccole imprese italiane. Senza assolvere Putin dalle responsabilità che ha deciso di prendersi di fronte alla Storia, occorre che ciascuno di noi chieda a voce alta perché nulla è stato fatto per una trattativa che fermi la guerra e riporti in sicurezza l’Europa.

Bisogna dunque unire le forze: ci sono, tra le organizzazioni popolari, nell’intelligentsia, nel mondo cattolico e tra gli intellettuali forze e personalità che, con analisi diverse, lavorano per la pace, per cercare un mediatore credibile che non sia parte in causa, per un nuovo sistema delle relazioni internazionali basato sul rispetto del diritto dei popoli e sulla reciproca sicurezza. Mai come oggi è urgente trovare un luogo che tenga insieme questa pluralità eterogenea. Si tratta di una posizione politicamente vincente: solo il 40% degli italiani approva la vendita di armi all’Ucraina; il 6% vorrebbe un intervento della NATO; il 3% vorrebbe un impegno diretto dell’esercito. Occorre un forte movimento per la pace, che inchiodi alle proprie responsabilità quei partiti che si dichiarano pacifisti pur sostenendo un governo guerrafondaio e che sappia portare in primo piano le contraddizioni tra le forze di governo. Oggi c’è bisogno di una classe politica nuova, che sappia ripensare per l’Italia un ruolo di primo piano e autonomo nelle relazioni europee e internazionali, e che lavori a dar vita a un sistema che garantisca a tutti i popoli che lo compongono (russi, polacchi, ucraini, bielorussi) sicurezza e pace.

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