di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Tra le tanti armi utilizzate dagli Stati Uniti fin dagli inizi della “Guerra fredda” le sanzioni economiche hanno avuto un ruolo cruciale. Se concentriamo la nostra attenzione sull’Asia orientale vediamo che, in ossequio alla “Trading with the Enemy Act”, la Cina fu sottoposta ad embargo in coincidenza con la guerra di Corea, vale a dire fin dalla fondazione stessa della Repubblica popolare. Embargo che fu alleggerito a partire dal 1969 e annullato solo nel 1972 in seguito alla visita a Pechino di Nixon e allo stabilimento di normali relazioni diplomatiche. Un nuovo embargo, anche se non totale e confermando alla Cina lo status di “nazione più favorita”, fu introdotto da Bush all’indomani dei fatti di Piazza Tiananmen. Il congresso Usa, tuttavia, ha più volte chiesto di collegare la concessione di tale status al rispetto dei diritti umani da parte di Pechino, facendo riferimento all’emendamento Jackson-Vanik al Trade Act (1974) originariamente concepito in funzione anti-sovietica. Se nel 1999, durante la presidenza Clinton, lo status di “nazione più favorita” concesso a Pechino è diventato permanente dando il via al suo ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio, tuttavia oggi restano in vita, collegati al mancato rispetto dei diritti umani e al pericolo di proliferazione nucleare, l’embargo statunitense relativo alla esportazioni di tecnologia avanzata e quello dell’Unione Europa riguardante quella di armi. Nell’ultimo caso, tuttavia, si fanno insistenti anche le richieste di una sua revoca da parte di diversi stati europei, anche alla luce dei continui emendamenti. Entrambe le misure restano comunque percepite dalla Cina come una umiliazione nazionale e un affronto al suo emergere come potenza responsabile sulla scena internazionale.
Alla luce di una storia vissuta direttamente, oltre che ad una tradizionale fedeltà al principio di non intervento negli affari interni di un paese sovrano, la Cina popolare si oppone con fermezza alla escalation di sanzioni contro la repubblica islamica dell’Iran avviata da Obama e che dovrebbe ora estendersi ai prodotti petroliferi di Teheran. Il portavoce del ministero degli esteri della Cina, Hong Lei, ha infatti ribadito la contrarietà di Pechino al fatto che “una legge nazionale prevalga sulle regole internazionali ed imponga delle sanzioni unilaterali ad altri Paesi. La Cina mantiene con l’Iran scambi economici, commerciali ed energetici normali, aperti e trasparenti che non violano le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu“. Su questo piano forte è l’intesa con la Federazione Russa visto che il viceministro degli esteri russo Gennadij Gatilov ha sottolineato come le nuove sanzioni contro l’Iran “sarebbero percepite dalla comunità internazionale come un tentativo di cambiare il regime di Teheran” [1].
Un editoriale pubblicato sul Quotidiano del popolo del 13 gennaio, a firma del ricercatore Mei Xinyu dell’Istituto di ricerca del ministero del commercio [2], inquadra la posizione di Pechino nei confronti dell’utilizzo unilaterale dell’arma dell’embargo e, soprattutto, sottolinea che l’escalation di misure ai danni dell’Iran svolge pure una funzione anti-cinese alla luce della stretta e approfondita relazione tra i due paesi. Insomma, pare proseguire quella politica di accerchiamento della Cina che vede impegnata l’amministrazione Obama. Ancora fresca è, infatti, la scottatura causata dall’intervento nato in Libia dove si trovavano ben 36 mila ingegneri cinesi ed erano avviate collaborazioni negli ambiti petrolifero e delle infrastrutture [3].
Mentre viene ribadito che la Cina, in quanto “paese sovrano indipendente” non può “seguire alla cieca il passo degli Stati Uniti se non nel caso in cui le sanzioni fossero imposte da una risoluzione del Consigli di sicurezza delle Nazioni Unite“, il ricercatore cinese ripercorre la storia a stelle e strisce degli embarghi economici, delineando il suo crescente utilizzo nella fase post guerra fredda: “Nel periodo che va dal 1914 al 1990, ci sono state 116 sanzioni economiche internazionali delle quali 77 sono state applicate dagli statunitensi. Poi, dalla fine della Guerra Fredda fino al 2007, tra i circa 80 casi di sanzioni economiche, più di 60 sono state volute dalla parte americana e hanno coinvolto più della metà della popolazione mondiale“.
Ma quali sono i risultati di questa escalation ufficialmente intrapresa per scopi umanitari o di salvaguardia della pace? “Il caso tipico post guerra fredda è stato quello dell’applicazione di sanzioni economiche all’Iraq dal 1991 al 2003 da parte degli Stati Uniti con l’approvazione dell’Onu. Le sanzioni hanno causato una seria catastrofe economica che ha coinvolto gravemente il popolo iracheno facendolo soffrire molto: nel paese il reddito medio per abitante che era di quattro mila dollari nel 1989 è caduto a meno di trecento nel 2000; l’insegnamento gratuito in vigore da una trentina di anni è completamente scomparso nel settembre del 2000, perché si è stati obbligati ad annullarlo e sopprimerlo a causa della situazione economica disastrosa del paese; sono stati registrati i decessi di circa 1 milione e 723 mila persone a causa dell’insufficienza di personale e di prodotti medici e tra i decessi più della metà sono di bambini“.
Veniamo ora agli interessi che legano Pechino a Teheran e che sarebbero colpiti non poco dalle misure che Washington vuole imporre: “La partecipazione alle sanzioni economiche contro l’Iran porterà un grave e serio pregiudizio agli interessi strategici della Cina, soprattutto nel campo economico. Solamente per quanto riguarda gli interessi economici, l’Iran costituisce per essa una dei principali e più importanti punti di approvvigionamento di petrolio e ugualmente un grande mercato per lo sbocco dei suoi prodotti di consumo, per l’esportazione di capitali, di attrezzature e per la realizzazione di grandi progetti a pacchetto. Nel 2010, il commercio tra la Cina e l’Iran ha raggiunto i 24 miliardi di dollari. L’anno successivo è aumentato di circa 41 miliardi di dollari durante il periodo gennaio – novembre, vale a dire una crescita del 55,8%. L’Iran occupa un posto preponderante nell’importazione di petrolio in Cina“.
Insomma la Cina popolare che fin dalla sua nascita, al termine di una tragica ed eroica guerra di liberazione, ha sperimentato sulla propria pelle l’arma dell’embargo, difficilmente potrebbe schierarsi a favore dell’ennesima prova di forza unilaterale statunitense, soprattutto ora che è oggetto di una chiara strategia di contenimento.
1 “Iran: Mosca, nuove sanzioni sono tentativo di mutare regime”, Agi.it, 13 gennaio 2012
2 “Il est impossible que la Chine n’achete plus le petrol iranien”, Quotidiano del popolo (versione francese), 13 gennaio 2012.
3 “The war is with China, the battleground Africa”, By Dieter Neumann, www.atimes.com, 13 gennaio 2012