di Manlio Dinucci | da il Manifesto
Sul palcoscenico di Washington, sotto i riflettori dei media mondiali, Barack Obama ha declamato: «Quale presidente e comandante in capo, preferisco la pace alla guerra». Ma, ha aggiunto, «la sicurezza di Israele è sacrosanta» e, per impedire che l’Iran si doti di un’arma nucleare, «non esiterò a usare la forza, compresi tutti gli elementi della potenza americana». Comprese quindi le armi nucleari. Parole degne di un Premio Nobel per la pace. Questo il copione. Per sapere come stanno veramente le cose, occorre andare dietro le quinte.
Alla testa della crociata anti-iraniana vi è Israele, l’unico paese della regione che possiede armi nucleari e, a differenza dell’Iran, rifiuta il Trattato di non-proliferazione. Vi sono gli Stati uniti, la massima potenza militare, i cui interessi politici, economici e strategici non permettono che possa affermarsi in Medio Oriente uno Stato sottratto alla loro influenza. Non a caso, le sanzioni varate dal presidente Obama lo scorso novembre vietano la fornitura di prodotti e tecnologie che «accrescano la capacità dell’Iran di sviluppare le proprie risorse petrolifere».
All’embargo hanno aderito l’Unione europea, acquirente del 20% del petrolio iraniano (di cui circa il 10% importato dall’Italia), e il Giappone, acquirente di una quota analoga, che ha bisogno ancor più di petrolio dopo il disastro nucleare di Fukushima. Un successo per la segretaria di stato Hillary Clinton, che ha convinto gli alleati a bloccare le importazioni energetiche dall’Iran contro i loro stessi interessi.
L’embargo, però, non funziona. Sfidando il divieto di Washington, Islamabad ha confermato il 1° marzo che completerà la costruzione del gasdotto Iran-Pakistan. Lungo oltre 2mila km, è già stato realizzato quasi per intero nel tratto iraniano e sarà terminato in quello pakistano entro il 2014. Successivamente potrebbe essere esteso di 600 km fino all’India. La Russia ha espresso interesse a partecipare al progetto, il cui costo è di 1,2 miliardi di dollari. Allo stesso tempo la Cina, che importa il 20% del petrolio iraniano, ha firmato in febbraio un accordo con Teheran, che prevede di aumentare le forniture a mezzo milione di barili al giorno entro il 2012. E anche il Pakistan accrescerà le importazioni di petrolio iraniano.
Furente, Hillary Clinton ha intensificato la pressione su Islamabad, usando il bastone e la carota: da un lato minaccia sanzioni, dall’altro offre un miliardo di dollari per le esigenze energetiche del Pakistan. In cambio, esso dovrebbe rinunciare al gasdotto con l’Iran e puntare unicamente sul gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, sostenuto da Washington. Il suo costo stimato è di 8 miliardi di dollari, oltre il doppio di quello iniziale. Prevale però a Washington la motivazione strategica. I giacimenti turkmeni di gas naturale sono in gran parte controllati dal gruppo israeliano Merhav, diretto da Yosef Maiman, agente del Mossad, uno degli uomini più influenti di Israele.
La realizzazione del gasdotto, che in Afghanistan passerà attraverso le province di Herat (dove sono le truppe italiane) e Kandahar, è però in ritardo. Allo stato attuale, è in vantaggio quello Iran-Pakistan. A meno che le carte non vengano rimescolate da una guerra contro l’Iran. Anche se il presidente Obama «preferisce la pace».