di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Agli attentati terroristici di Parigi sono seguite diverse reazioni che, con una accettabile approssimazione, possono essere condensate in due tipologie che rappresentano anche le divisioni all’interno delle classi dominanti continentali: da un lato c’è chi, soffiando sul fuoco della guerra di civiltà, sulla difesa dell’occidente e dei suoi valori “universali”, e approfittando dell’indignazione diffusa, punta ad un’ulteriore stretta bellica e autoritaria – si pensi alla volontà del governo Hollande di modificare la costituzione francese per estendere i termini dello stato di emergenza – invocando la creazione di un esercito comune europeo che sappia affrontare anche il pericolo rappresentato dall’espansionismo russo (“Perché serve l’esercito unico europeo”, G. Chiellino, il Sole24Ore); dall’altra si prende atto del fallimento della lunga lotta al terrorismo condotta dagli Stati Uniti (e della Nato) alla guida di una coalizione con Paesi notoriamente finanziatori del jihadismo armato, più propensa alla destabilizzazione del Medio oriente (Libia, Siria…) che alla lotta al cosiddetto Califfato, per chiedere un cambio di rotta nelle relazioni con Mosca.
Scrive il 16 novembre Davide Fumagalli su Milano Finanza: “Il colloquio chiesto ieri da Obama a Putin, con l’ammissione della strategicità dell’intervento militare russo in Siria contro quei ribelli, armati dagli Usa, i cui legami con l’Is sono sempre più evidenti, ha infatti confermato la vittoria del disegno strategico del presidente russo, che può ora raccogliere attorno a sé una parte crescente di leader politici europei. Difficile immaginare, quindi, che il tentativo di isolamento della Russia portato avanti da Obama negli ultimi mesi possa proseguire, mentre il fallimento della politica statunitense in Medio Oriente potrebbe condizionare l’esito delle prossime elezioni presidenziali”. D’altronde connivenze ed ambiguità che hanno contraddistinto la “Coalizione dei volonterosi” nella campagna militare contro lo Stato islamico in Siria sono state denunciate subito dopo l’intervento politico-militare russo a sostegno del governo siriano, in Italia da lucidi interventi di Alberto Negri che, sul Sole24ore, ha più volte ragionato in questi termini: “I jihadisti non sono soltanto quelli dell’Isis – non più sostenuto da Turchia e Arabia Saudita – ma anche il Fronte al Nusra e Ahrar al Sham, ancora appoggiati dalle monarchie del Golfo: anche se concorrenti tra loro, questi gruppi condividono la stessa ideologia e gli stessi obiettivi. La Russia invia militari in Siria. Gli Usa in allerta. Kiev chiude lo spazio aereo ai voli russi diretti a Damasco. Ma di questo si parla assai poco perché Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno legami economici inestricabili con questi alleati arabi e hanno consapevolmente appoggiato l’afflusso di jihadisti in Siria, insieme alla propaganda delle versioni più radicali e inaccettabili dell’Islam. […]. I jihadisti hanno conquistato Palmira perché la coalizione anti-Isis, in pratica l’aviazione americana, non ha sganciato neppure una bomba contro il Califfato per non dare l’impressione di volere aiutare Assad. Non solo, dopo avere appoggiato i curdi in funzione anti-Isis, l’Occidente li ha lasciati in balìa di Erdogan che con l’obiettivo di combattere il Pkk sta colpendo in realtà tutto il movimento curdo e anche il partito politico Hdp entrato in Parlamento nel giugno scorso […]”.
Fermiamoci sulla seconda tipologia di reazione, non solo perché fuori dal coro più belligerante e oltranzista, ma soprattutto perché, preso atto di una sonora sconfitta, potrebbe fungere da terreno comune per una coalizione ampiamente rappresentativa della comunità internazionale, liberata da contraddizioni, quando non connivenze, nel proprio impegno nella lotta al terrorismo internazionale.
E l’impegno comune senza reticenze e doppi fini è proprio quanto chiesto ufficialmente dalla Cina popolare nel momento in cui ha espresso la propria solidarietà nei confronti del popolo francese. Un “Fronte unito”, sotto egida Onu – quindi sotto il controllo collegiale delle potenze impegnate – per condurre una “guerra globale” al terrorismo all’intero della quale venga riconosciuta l’importanza della lotta contro il separatismo terrorista nello Xinjiang, la strategica provincia cinese nella quale agiscono organizzazioni terroristiche come Movimento islamico del Turkestan orientale, con alle spalle diverse azioni sanguinarie. E la premessa indispensabile per avviare e rendere credibile un tale processo unitario è l’abbandono di atteggiamento – tutto occidentale – di doppia lettura del fenomeno terrorista, quando ad esserne vittima sono Paesi considerati rivali strategici, proprio come la Cina guidata dal partito comunista. Una “doppia morale” che va inquadrata all’interno di progetti di medio-lungo periodo che prevedono la sovversione e la disintegrazione di Stati e che si guarda bene dal condannare le azioni violente e criminali di gruppi militarizzati (e con appoggi esterni) la cui presenza risulta conveniente proprio alla luce di quei progetti.
Pensiamo appunto alla Cina (ma il discorso potrebbe valere anche per la Russia) e alla puntale assenza delle campagna di indignazione che si scatenano (e vengono debitamente sostenuta) allorquando gli attacchi si verificano in Occidente e in Paesi aderenti alla Nato, nonostante non siano mancate le occasioni per esprimere piena solidarietà: l’attentato a piazza TienAnMen (luogo altamente simbolico) nell’ottobre del 2013 (5 morti e quaranta feriti), l’attacco alla stazione di Kunming nel marzo successivo (29 morti e 130 feriti) e le autobombe di poco successive alla stazione ferroviaria e al mercato di Urumqi (39 morti e quasi duecento feriti). Invece in questi casi, la stampa mainstream occidentale ha preferito procedere per “distinguo” e “analisi” cui solitamente antepone “l’indignazione” e la “condanna”: sì, in questi casi non ci troviamo di fronte a “terrorismo”, ma ad attacchi, certo “violenti” da parte di movimenti che rappresentano minoranze i cui diritti sono conculcati dal regime comunista. Si è persino giunti ad accusare apertamente di Pechino per aver rifiutato di ri-accogliere come liberi cittadini di 22 uiguri (minoranza islamica residente soprattutto nello Xinjiang) liberati da Guantanamo dopo essere stati prelevati da un centro di addestramento talebano in Afghanistan. In poche parole, il fenomeno non va condannato, ma compreso nel suo contesto specifico.
Pensiamo solo un attimo a quale reazione susciterebbe ora in Europa chi chiedesse che i tragici fatti di Parigi venissero analizzati nel loro “contesto specifico”, in base alla politica estera francese in Siria e Medio oriente, alla situazione desolante nelle periferie….
Un impegno della comunità internazionale contro il terrorismo è credibile solo se all’interno di questa “comunità” vengono accolti tutti i Paesi su di un piano di parità; in sostanza se si abbandona la persistente mentalità coloniale e suprematista dell’Occidente. La Cina non chiede molto, ma pare che, in questo senso, ci sia ancora molta strada da percorrere…