Il ritorno di Stranamore, e la complicità dei media

Donald Trump riding the Bombdi Angelo d’Orsi

Riceviamo dal professor Angelo d’Orsi e volentieri pubblichiamo

No, non voglio prendermela con Donald Trump, e neppure con i suoi dottor Stranamore, pronti a saltare in sella ad ogni bomba lanciata sul nemico di turno; ed egli stesso incarnazione grottesca del personaggio, nella sua versione più volgare. Non voglio cedere al sarcasmo verso quella sinistra che nello scorso novembre espresse giubilo all’elezione del nuovo presidente Usa, qualcuno addirittura spintosi fino a considerarlo una sorta di Lenin americano (abbiamo avuto i “marxisti per Trump”…). Neppure con quegli “esperti” di politica e storia nordamericana che avevano decretato il “ritorno all’isolazionismo”. Gli Stati Uniti, al di là dei cambi di amministrazione, continuano ad essere ciò che da tempo immemorabile ciò che proclamano di essere: essi si sono auto-assegnati il ruolo di giudice-sceriffo, e insieme di bandito che non teme di essere colpito da sanzioni: recitano entrambe le parti, con totale indifferenza e sovrana disinvoltura. Dopo la “caduta del Muro”, venendo meno il contraltare sovietico, hanno accentuato la loro prepotenza e la loro arroganza, mentre l’intero Occidente, ossequiente, esaltava democrazia e libertà, e i governi “alleati”, a partire dalla Gran Bretagna, accompagnavano, plaudenti, ogni loro criminale impresa. Il parziale riequilibrio geopolitico internazionale, verificatosi negli ultimi anni, con il riemergere progressivo della Russia, la crescita, su ogni piano, della Cina, e l’affacciarsi di nuovi attori rilevanti (dall’India all’Iran), non ha per ora messo in crisi l’egemonia statunitense, anche se l’ha notevolmente scalfita e messa in forse.

Per ora, comunque, la continuità tra i presidenti degli anni Novanta del secolo XX e quelli dell’inizio del XXI è forte: dopo l’era sciagurata dei Bush, nella quale il democratico Bill Clinton non introdusse novità, regalandoci, tra le altre, l’infame guerra “del Kosovo” del 1999, passando lietamente il testimone, tra una gozzoviglia e l’altra (lo ricordiamo quando si ubriacava con il sodale russo Eltsin, il più corrotto dei capi del Cremlino, restituito all’abbraccio occidentale), al peggiore dei Bush, quello della seconda guerra del Golfo, iniziata nella primavera 2003, e mai finita. Infine, fu la volta del nero africano Barack Obama, la cui elezione ci fece pensare a una inversione di rotta, (con un eccesso di ingenuo ottimismo), ma che in politica estera si è rivelato. Trump fa ciò che Obama ha promesso, o porta a compimento quel che il predecessore ha avviato, con maggiore volgarità, certo, con una rozzezza personale che non può che infastidirci,  e, soprattutto, con un accentuato decisionismo individuale: è il governo del presidente, che se ne frega (uso il verbo non casualmente) delle formalità: nessuna discussione al Congresso Usa, nessuna richiesta di dibattito urgente all’Onu, nessuna ricerca di consenso anche in seno ad una Organizzazione delle Nazioni Unite sostanzialmente piegata ai voleri statunitensi. La sindrome del cowboy che spara prima ancora di sapere se il tizio che ha di fronte abbia cattive intenzioni, e addirittura se sia armato. 

Sicché, come abbiamo visto, l’orrendo figuro che oggi è la persona più potente della Terra, decide che occorre dare una bella prova muscolare, e ordina un attacco a una base militare siriana: ossia di uno Stato sovrano, che non è in guerra con gli Usa. Le motivazioni sono risibili, e comunque extrapolitiche: Trump che si commuove per i bimbi siriani uccisi dai gas tossici. E le sue lacrime (dichiarate, non viste, peraltro) sono contagiose: con lui piange quella che viene chiamata quotidianamente “la comunità internazionale”, ossia la NATO, e la UE, e i loro alleati.  Jens Stoltenberg, segretario generale della prima (serenamente ignorata da Trump, prima di agire) ha sfornato un’apodittica dichiarazione: “Il regime siriano porta la piena responsabilità del bombardamento condotto dagli Stati Uniti. L’uso di armi chimiche è inaccettabile e non può rimanere senza risposta”. Quanto all’Unione Europea, il presidente del suo Parlamento (l’ineffabile Antonio Tajani) ha deciso di non autorizzare una conferenza sulla Siria prevista per il 10 aprile e di vietare l’accesso del vice ministro degli Esteri di Damasco, Ayman Soussan, decisione presa su pressione di un certo numero di deputati, timorosi di dare così sostegno all’odiato Assad. Commento del presidente del Consiglio della Ue (il polacco Tusk, che il suo stesso governo ha sconfessato, peraltro da destra!): “L’Unione Europea lavorerà con gli Stati Uniti per porre fine alla brutalità in Siria.” E ha aggiunto imperturbabile: “Il bombardamento americano dimostra la determinazione necessaria contro i barbari attacchi chimici”. Una ennesima conferma del fatto che la disunita Unione non conta nulla sulla scena internazionale, nemmeno là dove, come in Medio Oriente, avrebbe interesse a contare. Del resto la cosiddetta “Alta commissaria” per la politica internazionale, l’italiana Mogherini, come in precedenti circostanza, è data per dispersa. 

I Paesi che hanno sotterraneamente sostenuto e foraggiato lo “Stato Islamico”, come Turchia e  Arabia Saudita, si sono affrettati a plaudire all’azione Usa: è chiaro, in primo luogo perché essa dà respiro ai loro amici terroristi islamisti; e in secondo luogo, perché entrambe hanno un preciso interesse, territoriale o geopolitico, a mettere le mani direttamente sulla Siria. Israele, lo Stato terrorista per eccellenza, si è spinto oltre, riproponendo una lista di rogue States (Iran Corea del Nord “e altrove”) con esplicito invito all’alleato padrone a farsi sentire anche da loro. Gran Bretagna e Francia, pappagallescamente, in sostanza ripetono le dichiarazioni americane, mentre più prudenti suonano le parole della Germania.  V’è da rimanere stupefatti: nessuno ha conservato memoria della scena patetica del 2003, con il segretario di Stato Colin Powell che agitava una provetta davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, evidentemente. Quella avrebbe dovuto essere la prova decisiva per inchiodare Saddam Hussein alle sue “responsabilità”, ossia il possesso di armi chimiche, le famigerate “armi di distruzione di massa”. Anni dopo Powell dichiarò che quello era stato il momento più umiliante della sua carriera: “mentivo sapendo di mentire”.  Oggi, di nuovo, senza alcun accertamento, l’Impero colpisce. E la sedicente “comunità internazionale” applaude o tace.

Né abbiamo sentito o letto dichiarazioni critiche dopo le successive incursioni USA in Siria, con corredo di morti, a dispetto della stessa ammissione dei comandi militari americani (“ci siamo sbagliati”…). Ma intanto Trump non se ne stava inerte, anzi rilanciava il ruolo della nazione di cui è alla testa, quale superpotenza cui tutto è lecito, e mentre inviava una “possente armada” (testuale), assumeva l’improvvisa e imprevista decisione di sganciare una “superbomba” da circa 11 tonnellate di tritolo in  Afghanistan: quasi un experimentum in corpore vili, da testare su una terra coloniale: del resto la MOAB  («Massive ordnance air blast» ovvero, simpaticamente, «Mother of all bombs», la madre di tutte le bombe) non era mai stata usata in una vera guerra. E magari rischiava persino di diventare obsoleta. Se n’è accorto anche il moderatissimo Amid Karzhai, uomo di fiducia di Washington, con una dichiarazione assai polemica. 

La bomba è stata comunque un “messaggio” alla Corea del Nord e alla stessa Cina, i cui governanti hanno peraltro reagito con grande saggezza: il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha dichiarato che Stati Uniti e Corea del Sud da una parte e Corea del Nord dall’altra stanno creando “un’atmosfera potenzialmente pericolosa” e un conflitto in Corea del Nord “potrebbe scoppiare in qualsiasi momento”. E ha aggiunto che se scoppiasse una guerra in Corea l’esito sarebbe una situazione dalla quale non vi sarebbero vincitori né vinti. Ma gli USA di Trump, riprendendo il peggio della politica estera aggressiva di Obama, non agiscono solo in Estremo e in Medio Oriente, ma anche in Europa centro-orientale, annunciando il dispiegamento di ben 150.000 militari al confine orientale in Polonia, pronta ad accoglierli a braccia (e tasche) aperte.

E in Italia? Il presidente del Consiglio, Gentiloni (ritengo che Renzi sarebbe stato più cauto), con un misto di impudenza e di imprudenza, ha giustificato l’azione militare Usa asserendo, stentoreo, che la responsabilità è di Assad. E toccando il ridicolo ha aggiunto, indossando i panni improbabili di fine analista strategico: “Sono convinto che l’azione di questa notte debba, non ostacolare, ma accelerare nella direzione di una soluzione negoziale duratura”. Sono parole che dobbiamo inserire nel libro dei ricordi, come quelle di altri grandi strateghi nostrani, in relazione ai precedenti innumerevoli esempi della guerra infinita che da oltre un quarto di secolo insanguina l’intero orbe terracqueo. Il PD, in generale, il suo sempre agonizzante giornale l’Unità (a dispetto dei continui salvataggi sempre più sospetti) si sono schierati in prima fila nel coro plaudente.  Le reazioni critiche, anche se variamente espresse, sono venute da destra (Lega e Fratelli d’Italia) e, in modo non univoco, dal M5S, il quale comincia ad avere una parvenza di politica estera, lodevolmente, anche quando appaia incerta. 

E a sinistra? Beh, non essendoci (quasi) più una sinistra provvista di forza e di competitività politica reale, abbiamo registrato silenzi, balbettii, vaghe lodevoli proteste, tanto più lodevoli anche se iperminoritarie, in quanto, in qualsiasi forma venissero emesse, le voci dissenzienti, al solito, sono state soffocate, silenziate, ignorate; troppo grande è la sproporzione, tra questo campo e il campo vastissimo che organizza il consenso. La medesima sproporzione che si vede sul campo, tra la Superpotenza Usa e i suoi alleati da un canto, i loro avversari dall’altro: è una guerra ineguale, anche quella della propaganda. Fogli di carta, siti internet, schermi tv, microfoni radio sparano raffiche di menzogne come verità assodate, incontrovertibili: sparano ogni giorno, ogni ora, talora in tempo reale, mentre i fatti cui si riferiscono accadono, o vengono fatti accadere, con strategica sagacia. È quasi impossibile difendersi, perché non sono proiettili o schegge di bombe, quelle che ci cadono addosso: ma è un gas tossico, e non abbiamo sufficienti antidoti, per evitare di essere attossicati. E un po’ alla volta tutti finiranno per ripetere ciò che la voce del padrone, amplificata dai suoi innumerevoli megafoni, recita.

Le “fonti” informative di costoro sono i gruppi della cosiddetta “opposizione siriana”, dove si trova di tutto: ma prevalentemente terroristi professionali, o imbroglioni in busca di un salario, tagliagole pronti ad ogni bassezza, agenti al soldo dell’Occidente, in forma pubblica o privata. Quanti ospedali abbiamo visto bombardati dall’aviazione di Assad? Quanti dottori solitari sono sopravvissuti per raccontare sempre la stessa favola, resistendo “eroicamente” alla pioggia di bombe? Quanti “arsenali” chimici sono stati individuati e bombardati, per poi rispuntare puntualmente? E poi quando si scopre un vero arsenale chimico, di “proprietà” delle forze di opposizione, e viene distrutto, e gli effetti si propagano su chiunque, allora è ovvio che la “colpa” è di Assad.

Già, Assad. In questa narrazione seriale ci sono due “cattivi”: in primo luogo, appunto, il tiranno Assad  e alle sue spalle, il “nuovo zar” Putin. Ogni fatto viene incasellato all’interno di una trama in cui i protagonisti sono loro, il primo da “scalzare”, abbattere, eliminare (dead or alive…), seguendo l’esempio magari di Milesovic, di Saddam, Bin Laden, di Gheddafi; il secondo da “isolare”, contenere, ridimensionare. Le guerre sporche degli anni Novanta, quelle sporchissime degli anni Duemila, nulla hanno dunque insegnato ai nostri commentatori? A parte i defunti, che avevano sostenuto quei conflitti, indefettibilmente schierati sotto le bandiere a stelle e strisce (Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Norberto Bobbio, per limitarsi a citare tre grandi), gli altri sono perlopiù ancora là, a sparare le loro bombe tossiche, all’insegna della russofobia e del filoamericanismo: dai cosiddetti “grandi nomi” del giornalismo politico, che preferisco ignorare,  fino a giornalistucoli insignificanti che conducono le loro personali battaglie, dal basso di una totale insipienza di fatti e problemi, e di una meravigliosa capacità di imbastire frottole, all’insegna di un moralismo d’accatto, che, naturalmente, funziona a senso unico. Per le vittime di Stoccolma, dobbiamo piangere, e sventolare bandiere, ma per San Pietroburgo, no: Vittorio Zucconi, in un tweet che ha rasentato l’infamia (e va oltre), si è spinto ad accusare Putin di aver organizzato l’attentato per distogliere l’opinione mondiale e russa dalle contestazioni interne (ridicole, peraltro). Nessuna sostanziale differenza tra i maggiori quotidiani, con la parziale eccezione del Sole 24 ore, peraltro in gravi difficoltà, come sappiamo, dove Alberto Negri ha firmato inutili articoli improntati alla saggezza e alla competenza. Tutto il resto della carta stampata, con l’ovvia eccezione del Manifesto, è stata una sfacciata grancassa dello zio Sam; e le testate che avevano fino al giorno prima palesato disprezzo per Trump, improvvisamente lo hanno riconsiderato, riattribuendogli quel ruolo di “presidente” che avevano finto quasi avesse usurpato. Gli anchormen e le anchorwomen televisivi sono stati ancora peggio, molto peggio.  Del resto davanti alle telecamere chiunque diventa un esperto, e può colpire qualsiasi bersaglio, purché sappia essere “brillante”, sia in grado di urlare più forte dei suoi interlocutori, e sia possibilmente esperto nell’arte di spezzare il discorso altrui, facendogli perdere il filo.

Chi, ovunque, abbia tentato di dire che non c’erano, non ci sono prove che le armi chimiche siano state usate dall’esercito siriano, è stato zittito in malo modo; Giulietto Chiesa, uno dei pochissimi giornalisti informati che si abbia in Italia, è stato insultato e aggredito da un signor Nessuno che da tempo spadroneggia su un canale radiofonico, e si permette di attribuire patenti di verità. La verità, insomma, come altre volte nelle guerre post-1989, e secondo del resto una norma universale non scritta ma da tutti applicata, ferreamente, è stata la prima vittima.

Quello che turba è la coazione a ripetere. Quante prove abbiamo avuto che l’Impero colpisce sulla base di decisioni arbitrarie? Quante volte abbiamo poi sentito proferire, anche in tempi recentissimi, dei sommessi “c’eravamo sbagliati”?! Per poi veder riprendere da parte di costoro, gli imbonitori disonesti, l’indomani stesso, il cammino della menzogna.  Tutto questo sulla pelle degli iracheni, degli afghani, dei serbi, e ora dei siriani, di ogni genere, età, religione.  L’eliminazione dei “tiranni” in nome degli astratti principi (mera giustificazione di mire neocoloniali da parte di Washington, Londra, Parigi, e al seguito le altre) ha generato situazioni di caos mostruoso, ha prodotto una conflittualità perenne, distrutto le economie di nazioni in cui il benessere era diffuso, vanificato enormi progressi civili raggiunti nel corso degli anni, e ha ripiombato quelle società in un oscuro medioevo di barbarie. Salvo che in Serbia, caso a sé, in Iraq in Afghanistan, in Libia, oggi, l’esistenza delle persone non assomiglia più a nulla che possa essere chiamato “vita”. E la spirale del terrore si allarga, si estende, si aggrava, e tracima come un fiume incontrollabile fino alle nostre piazze. Abbiamo creato e fomentato il terrorismo, in una con la disperazione (le due cose vanno di pari passo), con la nostra pretesa di portare l’ordine e la civiltà. Le situazioni precedenti, anche quando gestite da capi dittatori, erano infinitamente migliori: poi è giunto l’Occidente a portare la libertà e la democrazia, e il risultato è quello. Sicuramente Saddam, Gheddafi, e, anche se meno, Assad rientrano nella categoria della tirannide; ma Al Sisi? Ed Erdogan? E gli sceicchi del Qatar e del Kuwait? E la famiglia Saud, in Arabia? Quelli sono i tiranni buoni, per l’Occidente, e possiamo loro vendere bombe che massacrano “nemici” esterni (vedi guerra in Yemen), o coprire i loro misfatti interni (il richiamo del nostro ambasciatore dal Cairo, non ha bloccato gli affari  dell’ENI, con l’Egitto finito in mani assai peggiori di Mubarak, e Trump ha appena ricevuto Al Sisi tributandogli ampi riconoscimenti, e tacendo dei “diritti umani”, altrove giudicati dirimenti).

Il fatto più grave è che “loro” (classe politica e professionisti della dis/informacija) sanno tutto questo, ma dovrebbero, per ammettere la verità, rinunciare ad essere ciò che sono – dipendenti che eseguono la volontà del padrone, senza alzare mai la testa – e provare a salvare la dignità, invece che lo status (e lo stipendio).