di Francesco Maringiò, Responsabile Relazioni Internazionali PdCI
I giorni scorsi sono stati ricchi di appuntamenti internazionali che, per i temi trattati e le ripercussioni dirette sul nostro paese, assumono un interesse particolare. Ma forse è utile fare brevemente il punto e rileggere i fatti sotto una luce diversa da quella con la quale ci sono stati presentati dalla stampa italiana.
1. Al termine del summit del G8 di Camp David, negli Usa, quasi tutti hanno parlato di un asse Obama – Hollande – Monti, lasciando intendere una nuova concertazione a tre che punta a ridimensionare le pretese “rigoriste” della Germania e ad un maggiore equilibrio tra rigore e crescita. È lo stesso documento finale ad essere improntato a questo spirito. “Il nostro imperativo – si legge – è di favorire la crescita. (…) Ogni paese, a seconda di esigenze e possibilità, dovrà trovare un equilibrio tra l’attenzione alla spesa e il rilancio dell’economia (…) per promuovere la crescita e l’occupazione”.
Eppure, a ben guardare, questa politica della “botte piena e della moglie ubriaca” non sembra essere molto convincente. Se le analisi fatte dalla Goldman Sachs (ma non solo) sono esatte, nell’arco di 20-30 anni ci troveremo di fronte ad un mondo nel quale i due terzi del Pil mondiale saranno prodotti dai paesi del BRICS e delle loro aree di influenza e solo un terzo dai paesi del G7. Ad essere scalzati nel primato economico e geopolitico sono praticamente tutti i convitati di Camp David, ad esclusione della Russia, che non a caso ha tenuto un basso profilo ed il cui presidente ha preferito, per la prima volta in vent’anni, disertare un appuntamento negli Stati Uniti per volare a Pechino.
È pensabile quindi, a fronte del mantenimento di politiche rigoriste basate sulla centralità del pagamento del debito, sulla tassazione dei ceti bassi e medi, sullo smantellamento dello stato sociale ed a fronte di un progressivo impoverimento dei paesi del G7, che sia realistico reperire ulteriori fondi a favore della crescita e dell’occupazione? Decisamente no. A meno di una nuova intesa internazionale tra stati che riconfiguri ruoli e poteri: un grande patto tra i paesi emergenti e gli Usa che ridimensioni quest’ultimi nel ruolo egemonico che hanno avuto dalla fine della seconda guerra mondiale. È di questo avviso Brzezinski che identifica in Pechino – e più in generale nell’Asia – l’orizzonte verso il quale l’Occidente può trovare margini di sviluppo espansivo per diventare «più grande e vitale», scongiurando il rischio del declino nel XXI secolo. Ciò di cui ci sarebbe bisogno, per una diversa redistribuzione dei poteri e delle risorse ed il reperimento dei fondi necessari per avviare un nuovo ciclo di crescita in Occidente, è essenzialmente un compromesso storico delle grandi potenze imperialiste e degli USA coi BRICS ed in particolare col nuovo asse russo-cinese. Stando alle analisi contenute in Strategic Vision, il suo ultimo libro, Brzezinski sprona l’Alleanza transatlantica e guardare all’Asia per trovare nuove energie e potenziali di sviluppo pacifico. In caso contrario, sarà la guerra.
Dello stesso avviso pare essere anche Romano Prodi, da diversi anni attivo sul fronte delle relazioni con la Repubblica Popolare Cinese ed assertore di una politica di dialogo tra l’Unione Europea ed i grandi paesi emergenti. A testimonianza che in alcuni settori interni al sistema occidentale c’è consapevolezza del ruolo centrale e positivo della Cina nelle dinamiche mondiali, della profondità strutturale della crisi del capitalismo occidentale (in particolare dell’Unione europea) e della esigenza di una cooperazione pacifica internazionale.
2. Eppure i segnali che giungono invece dal vertice Nato di Chicago, vanno esattamente nella direzione opposta. Si registra infatti una nuova corsa agli armamenti ed un più marcato protagonismo militarista dell’Alleanza; si adotta il progetto di scudo missilistico nel cuore dell’Europa (operativo dal 2018), come chiaro segnale di ostilità e provocazione alla Russia, che verrà di fatto circondata da queste nuove installazioni. Lo stesso disimpegno Nato in Afghanistan è solo funzionale ad una dislocazione di forze e mezzi nell’Oceano Indiano e Pacifico, circondando di fatto la Cina, primo antagonista globale di Washington (si parla di un incremento di 500.000 uomini nel Pacifico, in aree limitrofe alla Cina…).
Se Henry Kissinger afferma che «la guerra fra Usa e Cina non è una necessità ma una scelta», per far capire che i due giganti possono convivere, sembra che l’opzione dell’Amministrazione Usa si diriga invece verso una marcata militarizzazione delle relazioni internazionali e verso un coinvolgimento serrato dell’Europa in questa escalation. Per questo, la ripresa di una forte mobilitazione in tutti i paesi, che alimenti un movimento di massa contro le guerre, le politiche imperialiste e la crescente militarizzazione, diventa uno dei compiti essenziali dei comunisti in questa parte del mondo. Ci auguriamo e lavoreremo perché anche nel nostro paese cresca un forte movimento contro la guerra ed una cultura della cooperazione pacifica, per contrastare i piani di aggressione a nuovi paesi (Siria, Iran,..) e per far vincere le ragioni della pace. La lotta contro le politiche di austerity e quella per la pace hanno profondi punti di convergenza che tocca ai comunisti mettere in evidenza e far diventare patrimonio comune anche delle lotte sindacali e sociali di questo paese.
Così come all’epoca abbiamo colto le differenza tra Obama e Bush, ma non ci siamo fatti prendere dall’”obamania” (e del resto basta vedere lo iato tra le dichiarazioni e le politiche messe in atto dal premio Nobel per la pace, per rendersene conto), così oggi cogliamo le differenze tra il “Merkozy” (l’asse franco-tedesco dell’era Sarkozy) e la nuova dialettica in Europa dopo la vittoria di Hollande. Ma anche in questo caso invitiamo a maggiore prudenza e riflessione e a non lasciarsi prendere da facili ottimismi. Per i comunisti e le forze di sinistra, in tutta Europa, la strada maestra rimane quella di battersi contro queste politiche di massacro dello stato sociale e di guerra, promuovere le lotte ed accumulare così nuove forze.
3. Inoltre non va dimenticato come le decisioni belliciste prese al vertice Nato di Chicago chiamino direttamente in causa il nostro paese, la cui politica estera è sempre più allineata ai dettami degli Usa, soprattutto con questo nuovo governo che si presenta come il più filo-atlantico della storia della Repubblica. La Nato ha firmato un contratto in base al quale la base aeronavale di Sigonella, in mano all’US Navy, ospiterà il nuovo sistema AGS (Alliance Ground Surveillance) dell’Alleanza Atlantica per la sorveglianza della superficie terrestre e la raccolta e l’elaborazione d’informazioni strategiche. Il progetto prevede l’acquisto di cinque droni e l’istituzione di un comando e di una stazione di controllo. Il costo previsto è di 1miliardo di euro e l’arrivo a Sigonella di altri 600 militari, trasformandola così in una delle più grandi basi d’intelligence del mondo. L’Italia, in piena crisi e recessione, pagherà almeno 150 milioni di euro (soldi pubblici) per l’acquisto delle infrastrutture, ma i profitti dell’apparato militar industriale (essenzialmente privato) sono assicurati. Erano diversi i paesi interessati a questi sofisticati impianti di spionaggio, ma il governo italiano ha sbaragliato la concorrenza, vedendosi così ripagare l’incondizionata subalternità in politica estera alle decisioni scellerate Nato ed Usa degli ultimi vent’anni: guerre in Afghanistan, Iraq e nei Balcani, nuova base militare di Aviano, comandi AFRICOM a Napoli e Vicenza, stazione radar satellitare MUOS a Niscemi, interventi in Libano, Darfur, Somalia, Libia e Gaza ed ora sistema Ags a Sigonella.
È sempre più evidente che la politica estera del nostro paese negli ultimi decenni sia profondamente mutata e che tutte le decisioni vengono prese contro la nostra Costituzione. Ciò è il frutto di una scelta scellerata di abdicazione al ruolo naturale dell’Italia come ponte di pace e cooperazione nel Mediterraneo e verso i paesi del Medio Oriente. Gli interessi nazionali vengono compressi dentro le compatibilità di guerra della Nato e degli Usa.
Il rischio è che, perseguendo questa strada, non ci sarà nessun margine per una ridistribuzione o una politica di crescita, perché nessun patto pacifico e cooperativo sarà possibile dentro questo quadro di ricorso alla guerra.
Per questo non ci facciamo facili illusioni e ribadiamo che, ancora una volta, il nostro compito è lottare per la pace e la giustizia sociale e su questo terreno costruire le più larghe convergenze.